Si strombazza: la dottrina non si tocca, bisogna solo lavorare sulla pastorale. In sé il concetto sarebbe pure giusto, l’unico problema è cosa si intenda per principio di pastoralità. Inteso in senso storicistico, il risultato sarebbe l’inevitabile svilimento del Depositum fidei. Un modo per cambiare subdolamente la Dottrina.

Un esempio lampante c’è lo offre Luciano Moia su Avvenire (qui) quando scrive: “molti esperti (…) hanno colto lo spunto offerto dall’anniversario (della Humanae Vitae, ndr) per riaprire un dibattito che sembrava inopportuno ma che era ormai ineludibile, alla luce della distanza che ormai divide la vita della coppie e le indicazioni normative per quanto riguarda la regolazione delle nascite. (…) indicazioni non solo ignorate ma di cui la maggior parte delle coppie cristiane non riesce più a comprendere le ragioni etiche, rischia di apparire in contrasto con quel principio di realtà – che è poi la ricerca del bene possibile – su cui deve fondarsi ogni percorso pastorale”. Come se la validità di una verità eterna dipendesse dall’adesione ad essa della maggioranza delle coppie. Seguendo questo strano ragionamento si potrebbe dire: visto che l’aborto è ampiamente praticato e persino non compreso nella sua gravità dalla maggioranza delle coppie applichiamo il concetto di “bene possibile”.

Di qui la bizzarra richiesta che da alcune parti si alza di sviluppare “la dottrina di Humanae vitae alla luce del nuovo paradigma introdotto da Amoris laetitia”. “Nuovo paradigma”? Non esiste un nuovo paradigma. Esiste il paradigma di sempre (rif. card. Müller, qui).

Ci spiega i termini della questione Eduardo J. Echeverria, Professore ordinario di Filosofia e Teologia sistematica al Seminario Maggiore del Sacro Cuore di Detroit.

Ecco l’articolo nella mia traduzione.

Foto: papa San Giovanni Paolo II

Foto: papa San Giovanni Paolo II

Il “ritorno alle fontiè un recupero creativo dei fondamenti autorevoli della fede cristiana nella Scrittura e nella Tradizione per rivitalizzare il presente. Questo recupero è stato al centro del Vaticano II. In linea con il pensiero di Vincenzo di Lérins (d.C 450), il Concilio distingueva tra verità e sue formulazioni storicamente condizionate, verità-contenuto e contesto, in sintesi, proposizioni e frasi. Giovanni XXIII alludeva a queste distinzioni nel suo discorso di apertura al Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia: “Poiché il deposito della fede [2 Tm 1, 14], le verità contenute nel nostro sacro insegnamento, sono una cosa; il modo in cui si esprimono, ma con lo stesso significato e lo stesso giudizio [eodem sensu eademque sententia], è un’altra cosa“.

La clausola subordinata qui – eodem sensu eademque sententia – fa parte di un più ampio passo della Dei Filius del Vaticano I (4.14), e questo passo è, a sua volta, del Commonitórium primum (23.3) di Vincenzo di Lérins: “Perciò, ci sia crescita e abbondanti progressi nella comprensione, conoscenza e sapienza, in tutti e in ciascuno, negli individui e nella Chiesa intera, in ogni tempo e nel progresso dei secoli, ma solo con i giusti limiti, cioè nello stesso dogma, nello stesso significato, nello stesso giudizio“.

Yves Congar, uno dei grandi teologi della nouvelle théologie, sostiene che questa distinzione riassume il significato del Vaticano II. Anche se le verità della fede possono essere espresse in modo diverso, dobbiamo sempre determinare, proprio mentre approfondiamo la nostra comprensione di quelle verità, che quelle nuove formulazioni conservino lo stesso significato e lo stesso giudizio (eodem sensu eademque sententia), e quindi la continuità materiale, l’identità e l’universalità di quelle verità.

Al contrario, oggi si sente molto parlare di un orientamento pastorale della dottrina. “Pastorale” qui ha un significato storicistico, negando esplicitamente o implicitamente la perdurante validità della verità proposizionale: la verità stessa e non solo le sue formulazioni sono soggette a riforme e reinterpretazioni perpetue. È proprio così che alcuni interpretano la distinzione di Giovanni XXIII tra la verità e le sue formulazioni. Per esempio, Richard Gaillardetz e Christoph Theobald, S.J., portano avanti questa interpretazione, che Theobold chiama il “principio della pastoralità”.

Questo principio è storicistico perché fa crollare la distinzione della verità immutabile e delle loro formulazioni in un contesto storico, intendendo così, come afferma Teobaldo, “soggetta a continua reinterpretazione [e ricontestualizzazione] a seconda della situazione di coloro ai quali viene trasmesso“.

Teobaldo afferma che l’espressione “sostanza del deposito della fede” dovrebbe essere “presa nel suo insieme e senza fare riferimento a una pluralità interna [cioè alla verità immutabile e alle sue formulazioni] che è già parte di tale espressione“.

Come dice Gaillardetz,la dottrina cambia quando cambiano i contesti pastorali e emergono nuove intuizioni [perché] particolari formulazioni dottrinali non mediano più il messaggio salvifico dell’amore trasformante di Dio“. In poche parole, questo approccio mette in discussione il significato delle dottrine come verità assolute, o come affermazioni oggettivamente vere.

Ma questo particolare principio di pastoralità non è plausibile come interpretazione del Vaticano II, dato che Giovanni XXIII segnò un chiaro punto di contatto con la nouvelle théologie, un movimento di rinnovamento che esercitò un’influenza significativa sul Concilio.

Ci sono prove che i sostenitori di questo principio non sembrano cogliere la distinzione tra proposizioni e frasi, tra verità e sue formulazioni. Per esempio, hanno suggerito che poiché la Humanae Vitae ha attraversato un processo di revisione che ha portato alle sue formulazioni teologiche finali che, quindi, la verità stessa affermata da questa enciclica può cambiare.

Alcuni ora sostengono anche che Joseph Ratzinger abbia avuto difficoltà con le affermazioni di verità della Humanae Vitae. Eppure durante le interviste (contenute nel libro) Ultime conversazioni (Garzanti Libri), Papa Benedetto XVI afferma chiaramente che non sono state le conclusioni della Humanae Vitae che lui ha messo in discussione, ma piuttosto il modo di argomentare: “Era certamente chiaro che quello che (la Himanae Vitae) diceva era essenzialmente valido, ma il ragionamento … non era soddisfacente“.

Egli aggiunge: “Cercavo un punto di vista antropologico complessivo“, che trovò in “Giovanni Paolo II, che doveva integrare (non rigettare) con una visione personalista il punto di vista della legge di natura dell’enciclica“. JPII sintetizzò con successo in un insieme coerente il personalismo, la fenomenologia esistenziale/ermeneutica e il tomismo nel suo lavoro filosofico e teologico.

Giovanni Paolo II ha fatto interpretazioni leriniane. Questa sintesi si manifesta nelle sue opere sull’antropologia cristiana, la metafisica e l’etica sessuale (ad esempio, Amore e responsabilità, Uomo e Donna li creò: una teologia del corpo, Persona e atto, Persona e comunità). Infatti, nella sua grande ma spesso ignorata enciclica del 1993, Veritatis Splendor, si allinea esplicitamente all’ermeneutica lériniana:

Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l’attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale — come quella del «deposito della fede» — si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate «eodem sensu eademque sententia» secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica. (§53)

Attingendo alla distinzione tra verità e sue formulazioni, tra proposizioni morali ed espressioni linguistiche, Giovanni Paolo II spiega che le norme morali espressive delle verità morali, pur tenendo conto delle diverse condizioni di vita a seconda dei luoghi, dei tempi e delle circostanze, “restano valide nella loro sostanza” e quindi “devono essere specificate e determinate eodem sensu eademque sententia [“secondo lo stesso significato e lo stesso giudizio”].

Così, cresce la comprensione della verità morale, cercando e scoprendo “la formulazione più adeguata per norme morali universali e permanenti” senza cambiare la verità sostanziale e determinata della morale.

Per rivitalizzare il presente con un recupero creativo delle fonti autorevoli della fede cristiana, la Chiesa ha bisogno dell’ermeneutica Lériniana, non di un principio storicistico di pastoralità.

Fonte: The Catholic Thing

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