Ieri abbiamo riportato la notizia che papa Francesco ha cambiato il Catechismo della Chiesa Cattolica riguardo alla pena di morte definita come “inammissibile”. Essa ha suscitato da subito un notevole dibattito in quanto non è chiaro il significato della parola nel contesto dell’insegnamento della Chiesa, inoltre il concetto di “inammissibilità” appare per la prima volta nella storia della Chiesa. Infatti, il magistero cattolico non ha mai invocato l’abolizione incondizionata della pena di morte. Proprio per approfondire quest’ultimo concetto, riprendo un importante articolo pubblicato da un professore gesuita, teologo e cardinale, Avery Robert Dulles, S.J, molto stimato dal papa emerito Benedetto XVI.

Eccolo nella mia traduzione.

Foto: Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267 sulla pena di morte.

Foto: Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267 sulla pena di morte.

Tra le principali nazioni del mondo occidentale, gli Stati Uniti sono singolari in quanto continuano ad avere la pena di morte. Dopo una moratoria di cinque anni, dal 1972 al 1977, la pena capitale è stata ripristinata nei tribunali degli Stati Uniti. Da più parti sono state sollevate obiezioni a tale pratica, tra cui i vescovi cattolici americani, che si sono opposti con una certa coerenza alla pena di morte. La Conferenza Nazionale dei Vescovi Cattolici del 1980 pubblicò una dichiarazione prevalentemente negativa sulla pena capitale, approvata a maggioranza dei presenti ma non a maggioranza dei due terzi dell’intera Conferenza. Papa Giovanni Paolo II ha più volte espresso la sua opposizione a questa pratica, così come altri leader cattolici in Europa.

Alcuni cattolici, al di là dei vescovi e del Papa, sostengono che la pena di morte, come l’aborto e l’eutanasia, è una violazione del diritto alla vita e un’usurpazione non autorizzata da parte degli esseri umani dell’unica signoria di Dio sulla vita e sulla morte. La Dichiarazione d’Indipendenza non ha forse definito “inalienabile” il diritto alla vita?

Mentre le questioni sociologiche e giuridiche inevitabilmente incidono su qualsiasi riflessione di questo tipo, sono qui per affrontare il tema da teologo. A questo livello si deve rispondere alla domanda soprattutto in termini di rivelazione, come ci arriva a noi attraverso la Scrittura e la tradizione, interpretate con la guida del magistero ecclesiastico.

Nell’Antico Testamento la legge mosaica specifica non meno di trentasei reati capitali che richiedono l’esecuzione mediante lapidazione, rogo, decapitazione o strangolamento. L’elenco comprende idolatria, magia, blasfemia, violazione del sabato, omicidio, adulterio, bestialità, pederastia e incesto. La pena di morte è stata considerata particolarmente appropriata come punizione per l’omicidio, poiché Dio, nel suo patto con Noè, aveva stabilito il principio: “Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo.” (Genesi 9:6). In molti casi Dio è dipinto come Colui che punisce meritatamente i colpevoli con la morte, come è successo a Korah, Dathan e Abiram (Numeri 16). In altri casi, individui come Daniel e Mordecai sono agenti di Dio nel portare una morte giusta ai colpevoli.

Nel Nuovo Testamento il diritto dello Stato di condannare a morte i criminali sembra essere dato per scontato. Gesù stesso si astiene dall’usare la violenza. Egli rimprovera i suoi discepoli che invocano il fuoco dal cielo per punire i samaritani per la loro mancanza di ospitalità (Lc 9,55). Più tardi ammonisce Pietro a mettere la spada nel fodero invece di resistere all’arresto (Matteo 26:52). In nessun momento, però, Gesù nega che lo Stato abbia l’autorità per imporre la pena capitale. Nelle sue discussioni con i farisei, Gesù cita con approvazione il comandamento apparentemente duro: “Chi parla male di padre o di madre, muoia sicuramente” (Matteo 15,4; Marco 7,10, riferendosi all’Esodo 2l,17; cfr Levitico 20,9). Quando Pilato richiama l’attenzione sulla sua autorità di crocifiggerlo, Gesù sottolinea che il potere di Pilato gli viene dall’alto, cioè da Dio (Giovanni 19:11). Gesù loda il buon ladrone sulla croce accanto a lui, che ha ammesso che lui e il suo compagno ladrone stanno ricevendo la giusta ricompensa per le loro azioni (Lc 23,41).

I primi cristiani evidentemente non avevano nulla contro la pena di morte. Approvano la punizione divina inflitta ad Anania e Saffira quando sono rimproverati da Pietro per la loro azione fraudolenta (At 5,1-11). La Lettera agli Ebrei sostiene che “un uomo che ha violato la legge di Mosè muore senza pietà per la testimonianza di due o tre testimoni” (10,28). Paolo fa ripetutamente riferimento alla connessione tra peccato e morte. Scrive ai Romani, con un evidente riferimento alla pena di morte, che il magistrato che detiene l’autorità “non porta invano la spada, infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male.” (Romani 13:4). Nessun passaggio del Nuovo Testamento disapprova la pena di morte.

Passando alla tradizione cristiana, possiamo notare che i Padri e i Dottori della Chiesa sono praticamente unanimi nel loro sostegno alla pena capitale, anche se alcuni di loro, come Sant’Ambrogio, esortano i membri del clero a non pronunciare condanne a morte e a non servirle come carnefici. Per rispondere all’obiezione che il primo comandamento vieta di uccidere, sant’Agostino scrive nella Città di Dio:

La stessa legge divina che proibisce l’uccisione di un essere umano consente alcune eccezioni, come quando Dio autorizza l’uccisione con una legge generale o quando dà un incarico esplicito a un individuo per un periodo di tempo limitato. Poiché l’agente dell’autorità non è che una spada in mano, e non è responsabile dell’uccisione, non è in alcun modo contrario al comandamento: “Non uccidere” per fare la guerra su richiesta di Dio, o per i rappresentanti dell’autorità dello Stato di mettere a morte i criminali, secondo la legge o lo stato della giustizia razionale.

Nel Medioevo alcuni canonisti insegnano che i tribunali ecclesiastici dovrebbero astenersi dalla pena di morte e che i tribunali civili dovrebbero infliggerla solo per reati gravi. Ma i principali canonisti e teologi affermano il diritto dei tribunali civili di pronunciare la pena di morte per reati gravissimi come l’omicidio e il tradimento. Tommaso d’Aquino e Duns Scoto invocano l’autorità della Scrittura e della tradizione patristica, e forniscono argomenti dalla ragione.

Dando autorità magisteriale alla pena di morte, papa Innocenzo III chiese ai discepoli di Pietro Waldo che cercavano la riconciliazione con la Chiesa di accettare la proposta: “Il potere secolare può, senza peccato mortale, esercitare il giudizio del sangue, purché punisca con giustizia, non per odio, con prudenza, senza avventatezza“. Nell’alto Medioevo e nei primi tempi moderni la Santa Sede autorizzò l’Inquisizione a consegnare gli eretici al braccio secolare per l’esecuzione. Nello Stato Pontificio la pena di morte è stata inflitta per una serie di reati. Il Catechismo Romano, emanato nel 1566, tre anni dopo la fine del Concilio di Trento, insegnò che il potere della vita e della morte era stato affidato da Dio alle autorità civili e che l’uso di questo potere, lungi dal coinvolgere il crimine di omicidio, è un atto di obbedienza fondamentale al quinto comandamento.

In epoca moderna dottori della Chiesa come Roberto Bellarmino e (sant’)Alfonso (Maria) Liguori sostenevano che certi criminali dovessero essere puniti con la morte. Autorità prestigiose come Francisco de Vitoria, Thomas More e Francisco Suárez si sono dichiarate d’accordo. John Henry Newman, in una lettera ad un amico, sosteneva che il magistrato aveva il diritto di portare la spada, e che la Chiesa doveva sanzionarne l’uso, nel senso che Mosè, Giosuè e Samuele lo usavano contro crimini abominevoli.

Per tutta la prima metà del XX secolo il consenso dei teologi cattolici a favore della pena capitale in casi estremi è rimasto solido, come si può vedere dai libri di testo approvati e dagli articoli dell’enciclopedia del giorno. Lo Stato della Città del Vaticano dal 1929 al 1969 aveva un codice penale che comprendeva la pena di morte per chiunque avesse tentato di assassinare il papa. Papa Pio XII, in un’importante allocuzione a medici esperti, dichiarò che era riservato al potere pubblico privare i condannati del beneficio della vita nell’espiazione dei loro crimini.

Riassumendo il verdetto della Scrittura e della tradizione, possiamo raccogliere alcuni punti fermi della dottrina. Si concorda sul fatto che il crimine merita di essere punito in questa vita e non solo in quella successiva. Inoltre, è stato convenuto che lo Stato ha l’autorità di applicare pene adeguate alle persone giudicate colpevoli di reati e che, nei casi gravi, tali pene possono comprendere la pena di morte.

Eppure, come abbiamo visto, un coro crescente di voci nella comunità cattolica ha sollevato obiezioni alla pena capitale. Alcuni sostengono la posizione assolutistica secondo cui, poiché il diritto alla vita è sacro e inviolabile, la pena di morte è sempre sbagliata. Il rispettato francescano italiano Gino Concetti, ha scritto su L’Osservatore Romano nel 1977, ha fatto la seguente potente dichiarazione:

Alla luce della Parola di Dio, e quindi della fede, la vita – tutta la vita umana – è sacra e intoccabile. Non importa quanto atroci siano i crimini… (il criminale) non perde il suo diritto fondamentale alla vita, che è primordiale, inviolabile e inalienabile, e quindi non viene posto sotto il potere di nessuno.

Se questo diritto e i suoi attributi sono così assoluti, è a causa dell’immagine che, al momento della creazione, Dio ha impresso sulla stessa natura umana. Nessuna forza, nessuna violenza, nessuna passione può cancellarla o distruggerla. In virtù di questa immagine divina, l’uomo è una persona dotata di dignità e di diritti.

Per giustificare questa radicale revisione – si potrebbe quasi dire inversione – della tradizione cattolica, padre Concetti e altri spiegano che la Chiesa dai tempi biblici fino ai nostri giorni non ha percepito il vero significato dell’immagine di Dio nell’uomo, il che implica che anche la vita terrena di ogni singola persona è sacra e inviolabile. Nei secoli passati, si sostiene, ebrei e cristiani non sono riusciti a pensare alle conseguenze di questa dottrina rivelata. Erano coinvolti in una cultura barbara della violenza e in una teoria assolutista del potere politico, entrambe tramandate dal mondo antico. Ma ai nostri giorni è nato un nuovo riconoscimento della dignità e dei diritti inalienabili della persona umana. Coloro che riconoscono i segni dei tempi andranno oltre le dottrine datate secondo cui lo Stato ha un potere divinamente delegato di uccidere e che i criminali perdono i loro diritti umani fondamentali. L’insegnamento della pena capitale deve oggi subire uno sviluppo drammatico che corrisponda a queste nuove intuizioni.

Questa posizione abolizionista ha una semplicità allettante. Ma non è davvero nuova. È fatta propria da cristiani settari almeno dal Medioevo. Molti gruppi pacifisti, come i Valdesi, i Quaker, gli Hutteriti e i Mennoniti, hanno condiviso questo punto di vista. Ma, come lo stesso pacifismo, questa interpretazione assolutista del diritto alla vita non trovò allora eco tra i teologi cattolici, che accettarono la pena di morte come conforme alla Scrittura, alla tradizione e alla legge naturale.

La crescente opposizione alla pena di morte in Europa dopo l’Illuminismo è andata di pari passo con un declino della fiducia nella vita eterna. Nel XIX secolo i sostenitori più coerenti della pena capitale erano le chiese cristiane, e i suoi oppositori più coerenti erano i gruppi ostili alle chiese. Quando la morte è stata intesa come il male ultimo, piuttosto che come una tappa sulla strada verso la vita eterna, filosofi utilitaristi come Jeremy Bentham hanno trovato facile respingere la pena capitale come “annientamento inutile”.

Molti governi in Europa e altrove hanno eliminato la pena di morte nel XX secolo, spesso contro le proteste dei credenti. Anche se questo cambiamento può essere visto come un progresso morale, è probabilmente dovuto, in parte, all’evaporazione del senso di peccato, della colpa e della giustizia retributiva, che sono tutti essenziali per la religione biblica e la fede cattolica. L’abolizione della pena di morte nei paesi ex cristiani può essere dovuta più all’umanesimo secolare che a una più profonda compensione nel Vangelo.

Argomenti relativi al progresso della coscienza etica sono stati utilizzati per promuovere una serie di presunti diritti umani che la Chiesa cattolica rifiuta costantemente in nome della Scrittura e della tradizione. Il magistero si appella a queste autorità per ripudiare il divorzio, l’aborto, le relazioni omosessuali e l’ordinazione sacerdotale delle donne. Se la Chiesa si sente vincolata dalla Scrittura e dalla tradizione in questi altri campi, sembra incoerente che i cattolici proclamino una “rivoluzione morale” sulla questione della pena capitale.

Il magistero cattolico non ha mai invocato l’abolizione incondizionata della pena di morte. Non conosco alcuna dichiarazione ufficiale di papi o vescovi, né nel passato né nel presente, che neghi il diritto dello Stato di giustiziare i colpevoli almeno in alcuni casi estremi. I vescovi degli Stati Uniti, nella loro dichiarazione di maggioranza sulla pena capitale, hanno ammesso che “l’insegnamento cattolico ha accettato il principio che lo Stato ha il diritto di togliere la vita a una persona colpevole di un crimine gravissimo”. Il cardinale Joseph Bernardin, nel suo famoso discorso sull'”Etica coerente della vita” a Fordham nel 1983, ha dichiarato di condividere la “posizione classica” secondo cui lo Stato ha il diritto di infliggere la pena capitale.

Sebbene il cardinale Bernardin sostenesse quella che chiamava “un’etica coerente della vita”, ha chiarito che la pena capitale non deve essere equiparata ai crimini dell’aborto, dell’eutanasia e del suicidio. Papa Giovanni Paolo II ha parlato a nome di tutta la tradizione cattolica quando ha proclamato nell’Evangelium Vitae (1995) che “l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale”. Ma ha saggiamente incluso in quella dichiarazione la parola “innocente. Non ha mai detto che ogni criminale ha il diritto di vivere e non ha mai negato che lo Stato abbia il diritto, in alcuni casi, di giustiziare il colpevole.

Le autorità cattoliche giustificano il diritto dello Stato di infliggere la pena capitale con il fatto che esso non agisce per conto proprio, ma in qualità di agente di Dio, che è il signore supremo della vita e della morte. In questo modo possono appellarsi adeguatamente alla Scrittura. Paolo ritiene che il sovrano sia il ministro di Dio nell’eseguire l’ira di Dio contro il malfattore (Romani 13:4). Pietro ammonisce i cristiani ad essere sottomessi agli imperatori e ai governatori, che sono stati inviati da Dio per punire coloro che sbagliano (1 Pietro 2:13). Gesù, come già accennato, apparentemente riconobbe che l’autorità di Pilato sulla sua vita veniva da Dio (Giovanni 19:11).

Pio XII, in un ulteriore chiarimento della norma, ritiene che quando lo Stato, agendo con il suo potere ministeriale, ricorre alla pena di morte, non esercita il dominio sulla vita umana ma si limita a riconoscere che il criminale, con una sorta di suicidio morale, si è privato del diritto alla vita. Nelle parole del Papa,

Anche quando si tratta dell’esecuzione di un condannato, lo Stato non dispone del diritto alla vita dell’individuo. In questo caso è riservato al potere pubblico privare il condannato del godimento della vita in espiazione del suo delitto quando, con il suo delitto, si è già spogliato del suo diritto alla vita.

Alla luce di tutto ciò, sembra sicuro concludere che la pena di morte non è di per sé una violazione del diritto alla vita. La vera questione per i cattolici è determinare le circostanze in cui tale sanzione dovrebbe essere applicata. E’ opportuno, a mio parere, quando è necessario raggiungere gli obiettivi della punizione e quando non ha effetti negativi sproporzionati. Dico “necessario” perché sono del parere che l’uccisione dovrebbe essere evitata se le finalità della punizione possono essere ottenute con mezzi incruenti.

Le finalità della punizione penale sono delineate in modo piuttosto unanime nella tradizione cattolica. Si ritiene che la pena abbia una varietà di scopi che possono essere convenientemente ridotti ai seguenti quattro: riabilitazione, difesa contro il criminale, deterrenza e punizione.

Se si considera che la pena di morte ha questi quattro obiettivi, possiamo ora chiederci se sia il mezzo giusto o necessario per raggiungerli.

Riabilitazione. La pena capitale non reintegra il criminale nella società, ma ne impedisce la riabilitazione. La condanna a morte, tuttavia, può e talvolta muove il condannato al pentimento e alla conversione. C’è una grande letteratura cristiana sul valore della preghiera e del ministero pastorale per i detenuti nel braccio della morte o sul patibolo. Nei casi in cui il criminale sembra incapace di essere reintegrato nella società umana, la pena di morte può essere un modo per raggiungere la riconciliazione del criminale con Dio.

Difesa contro il criminale. La pena capitale è ovviamente un modo efficace per impedire che il malfattore commetta crimini futuri e per proteggere la società da questi. Se l’esecuzione sia necessaria è un’altra questione. Si potrebbe senza dubbio immaginare un caso estremo in cui il fatto stesso che un criminale sia vivo costituisca una minaccia per la sua liberazione o fuga e fare ulteriore male. Ma, come osserva Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae , i moderni miglioramenti del sistema penale hanno reso estremamente raro che l’esecuzione sia l’unico mezzo efficace per difendere la società dal crimine.

Deterrenza. Le esecuzioni, soprattutto quando sono dolorose, umilianti e pubbliche, possono creare un senso di orrore che impedirebbe ad altri di essere tentati di commettere crimini simili. Ma i Padri della Chiesa hanno censurato gli spettacoli di violenza come quelli condotti al Colosseo romano. La Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo Moderno del Vaticano II ha esplicitamente disapprovato la mutilazione e la tortura come offensive della dignità umana. Ai nostri giorni la morte è di solito somministrata in privato con mezzi relativamente indolori, come le iniezioni di farmaci, e in tal senso può essere meno efficace come deterrente. Le prove sociologiche dell’effetto deterrente della pena di morte attualmente praticata sono ambigue, contraddittorie e tutt’altro che probatorie.

Retribuzione. In linea di principio, la colpa richiede una punizione. Più grave è l’offesa, più severa dovrebbe essere la punizione. Nella Sacra Scrittura, come abbiamo visto, la morte è considerata la punizione appropriata per le trasgressioni gravi. Tommaso d’Aquino sosteneva che il peccato richiede la privazione di un bene, come, nei casi gravi, il bene della vita temporale o addirittura eterna. Acconsentendo alla punizione della morte, il malfattore è posto in condizione di estinguere le sue azioni malvagie e di sfuggire alla punizione nella vita successiva. Dopo aver notato questo, San Tommaso aggiunge che anche se il malefattore non è pentito, è beneficiato dal fatto di essere impedito di commettere più peccati. La  punizione data da parte dello Stato ha i suoi limiti perché lo Stato, a differenza di Dio, non gode né dell’onniscienza né dell’onnipotenza. Secondo la fede cristiana, Dio “renderà ad ogni uomo secondo le sue opere” al giudizio finale (Romani 2,6; cfr. Matteo 16,27). Il riscatto da parte dello Stato non può che essere un’anticipazione simbolica della perfetta giustizia di Dio.

Perché il simbolismo sia autentico, la società deve credere nell’esistenza di un ordine di giustizia trascendente, che lo Stato ha l’obbligo di proteggere. Questo è stato vero in passato, ma ai nostri giorni lo Stato è generalmente considerato semplicemente come uno strumento della volontà dei governati. In questa prospettiva moderna, la pena di morte non esprime il giudizio divino sul male oggettivo, ma piuttosto la rabbia collettiva del gruppo. L’obiettivo punitivo della punizione è frainteso come atto di vendetta autoaffermativo.

Possiamo concludere che la pena di morte ha valori diversi in relazione a ciascuna delle quattro estremità della pena. Non riabilita il criminale, ma può essere un’occasione per ottenere un pentimento salutare. E’ un mezzo efficace, ma raramente, se non mai, necessario, per difendere la società dal crimine. Se serva a dissuadere altri da simili crimini è una questione controversa, difficile da risolvere. Il suo valore retributivo è pregiudicato dalla mancanza di chiarezza sul ruolo dello Stato. In generale, quindi, la pena capitale ha un valore limitato, ma la sua necessità può essere messa in dubbio.

C’è ancora molto da dire. Scrittori lungimiranti hanno sostenuto che la pena di morte, oltre ad essere inutile e spesso futile, può anche essere positivamente dannosa. Quattro obiezioni serie sono comunemente menzionate in letteratura.

Vi è, innanzi tutto, la possibilità che il condannato possa essere innocente. John Stuart Mill, nella sua nota difesa della pena capitale, ritiene che questa sia l’obiezione più seria. Nel rispondere, egli avverte che la pena di morte non dovrebbe essere comminata se non nei casi in cui l’imputato sia giudicato da un tribunale affidabile e condannato al di là di ogni ombra di dubbio.

È risaputo che, anche durante lo svolgimento dei processi, i tribunali di parte o i kangaroo courts (tribunali non ufficiali, ndr) possono spesso pronunciare condanne ingiuste. Anche negli Stati Uniti, dove si compiono seri sforzi per ottenere sentenze giuste, si verificano errori, anche se molti di essi vengono corretti dalle corti d’appello. Gli imputati con un basso livello di istruzione e squattrinati spesso non dispongono dei mezzi per ottenere un avvocato competente; i testimoni possono essere corrotti o possono commettere errori onesti sui fatti del caso o sull’identità delle persone; le prove possono essere prodotte o soppresse; le giurie possono essere affette da pregiudizio o incompetenti. Alcuni condannati “nel braccio della morte” sono stati esonerati da nuove prove del DNA. La Columbia Law School ha recentemente pubblicato un importante rapporto sulla percentuale di errori reversibili nelle sentenze capitali dal 1973 al 1995. Poiché è del tutto probabile che alcune persone innocenti siano state giustiziate, questa prima obiezione è seria.

Un’altra obiezione riguarda il fatto che la pena di morte ha spesso l’effetto di suscitare un eccessivo desiderio di vendetta piuttosto che di soddisfare un autentico zelo per la giustizia. Cedendo a uno spirito perverso di vendetta o a una morbosa attrazione per il raccapricciante, le corti contribuiscono al degrado della cultura, replicando le peggiori caratteristiche dell’Impero Romano nel suo periodo di declino.

Inoltre, secondo i critici, la pena di morte abbassa il valore della vita. Dando l’impressione che gli esseri umani a volte hanno il diritto di uccidere, favorisce un atteggiamento superficiale nei confronti di mali come l’aborto, il suicidio e l’eutanasia. Questo fu un punto importante nei discorsi e negli articoli del cardinale Bernardin su quella che egli chiamò “etica coerente della vita”. Anche se questo argomento può avere una certa validità, la sua forza non dovrebbe essere esagerata. Molte persone che sono fortemente a favore della vita su questioni come l’aborto sostengono la pena di morte, insistendo sul fatto che non vi è alcuna incoerenza, poiché gli innocenti e i colpevoli non hanno gli stessi diritti.

Infine, alcuni ritengono che la pena di morte sia incompatibile con l’insegnamento di Gesù sul perdono. Nel migliore dei casi si tratta di un argomento complesso, poiché i detti di Gesù citati fanno riferimento al perdono da parte delle persone che hanno subito un danno. E’ davvero lodevole che le vittime di reato perdonino i loro debitori, ma tale perdono personale non esime gli autori del reato dai loro obblighi in materia di giustizia. Giovanni Paolo II sottolinea che “la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del danno e la soddisfazione dell’insulto sono condizioni per il perdono“.

Il rapporto dello Stato con il criminale non è lo stesso di quello di una vittima di un aggressore. Governatori e giudici sono responsabili del mantenimento di un ordine pubblico giusto. Il loro obbligo primario è verso la giustizia, ma a certe condizioni possono esercitare la clemenza. In un’attenta trattazione di questo argomento Pio XII concluse che lo Stato non doveva emettere amnistie se non quando sia moralmente certo che fossero state raggiunte le finalità della pena. In tali condizioni, le esigenze di ordine pubblico possono giustificare la parziale o totale remissione della pena. Se la clemenza fosse concessa a tutti i detenuti, le prigioni della nazione verrebbero immediatamente svuotate, ma la società non sarebbe ben servita.

In pratica, quindi, si deve mantenere un delicato equilibrio tra giustizia e misericordia. La responsabilità primaria dello Stato è della giustizia, anche se a volte può temperare la giustizia con la misericordia. La Chiesa rappresenta piuttosto la misericordia di Dio. Mostrando il perdono divino che viene da Gesù Cristo, la Chiesa è volutamente indulgente nei confronti dei trasgressori, ma anche deve a volte imporre sanzioni. Il Codice di Diritto Canonico contiene un intero libro dedicato al crimine e alla punizione. Sarebbe chiaramente inopportuno che la Chiesa, come società spirituale, giustiziasse dei criminali, ma lo Stato è un tipo diverso di società. Non ci si può aspettare che agisca come una Chiesa. In una società prevalentemente cristiana, tuttavia, lo Stato deve essere incoraggiato ad inclinarsi verso la misericordia, purché ciò non costituisca una violazione delle esigenze della giustizia.

Talvolta ci si chiede se un giudice o un carnefice possa imporre o eseguire la pena di morte con amore. Mi sembra del tutto ovvio che tali funzionari possano svolgere il loro dovere senza odio per il criminale, ma piuttosto con amore, rispetto e compassione. Nell’applicare la legge, possono consolarsi credendo che la morte non sia il male finale; possono pregare e sperare che il condannato raggiunga la vita eterna con Dio.

Le quattro obiezioni hanno quindi un’importanza diversa. Il primo, che si occupa di fallimenti giudiziari, è relativamente solido; il secondo e il terzo, che si occupano di vendetta e della coerenza etica della vita, hanno una qualche forza probabile. La quarta obiezione, relativa al perdono, è relativamente debole. Nel loro insieme, però, i quattro emendamenti possono essere sufficienti a ribaltare la situazione contro il ricorso alla pena di morte.

Negli ultimi anni il magistero cattolico si è sempre più pronunciato contro la pratica della pena capitale. Papa Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae ha dichiarato che “a seguito di costanti miglioramenti nell’organizzazione del sistema penale“, i casi in cui l’esecuzione dell’autore del reato sarebbe assolutamente necessariasono molto rari, se non praticamente inesistenti“. Sempre a St. Louis, nel gennaio 1999, il Papa ha fatto appello a un consenso per porre fine alla pena di morte, ritenendola crudele e inutile”. I vescovi di molti paesi hanno parlato con lo stesso effetto.

I vescovi statunitensi, da parte loro, avevano già dichiarato nella loro dichiarazione di maggioranza del 1980 che “nelle condizioni della società americana contemporanea, le legittime finalità della pena non giustificano l’imposizione della pena di morte”. Da allora sono ripetutamente intervenute per chiedere clemenza in casi particolari. Come il Papa, anche i vescovi non escludono del tutto la pena capitale, ma affermano che non è giustificabile come viene praticata oggi negli Stati Uniti.

Giungendo a questa prudenziale conclusione, il magistero non sta cambiando la dottrina della Chiesa. La dottrina rimane quella che è stata: che lo Stato, in linea di principio, ha il diritto di comminare la pena di morte a persone condannate per crimini molto gravi. Ma secondo la tradizione classica lo Stato non dovrebbe esercitare questo diritto quando gli effetti negativi superano quelli positivi. Pertanto, il principio lascia ancora aperta la questione se e quando debba essere applicata la pena di morte. Il Papa e i vescovi, con il loro prudente giudizio, hanno concluso che nella società contemporanea, almeno in Paesi come il nostro, la pena di morte non deve essere invocata, perché, tutto sommato, fa più male che bene. Personalmente sostengo questa posizione.

In un breve testo ho toccato numerosi e complessi problemi. Per indicare ciò che ho cercato di stabilire, vorrei proporre, come sintesi finale, dieci tesi che racchiudono la dottrina della Chiesa, così come la intendo io.

1) Lo scopo della pena nei tribunali laici è di quattro tipi: la riabilitazione del criminale, la protezione della società dal criminale, la dissuasione da altri potenziali criminali e la giustizia punitiva.

2) La giusta punizione, che cerca di stabilire il giusto ordine delle cose, non va confusa con la vendetta, che è riprovevole.

3) La punizione può e deve essere amministrata con rispetto e amore per la persona punita.

4) La persona che fa il male può meritare la morte. Secondo i racconti biblici, Dio a volte amministra la pena lui stesso e a volte indirizza gli altri a farlo.

5) Individui e gruppi privati non possono prendersi la responsabilità di infliggere la pena di morte come pena.

6) Lo Stato ha il diritto, in linea di principio, di infliggere la pena capitale nei casi in cui non vi siano dubbi sulla gravità del reato e sulla colpevolezza dell’imputato.

7) La pena di morte non dovrebbe essere inflitta se le finalità della pena possono essere conseguite in modo altrettanto valido o migliore con mezzi incruenti, come la reclusione.

8) La pena di morte può essere impropria se ha gravi ripercussioni negative sulla società, come gli errori giudiziari, l’aumento della vendetta o la mancanza di rispetto per il valore di una vita umana innocente.

9) Le persone che rappresentano specialmente la Chiesa, come il clero e i religiosi, in ragione della loro specifica vocazione, si astengano dal pronunciare o dall’eseguire la sentenza di morte.

10) I cattolici, nel cercare di formare il loro giudizio sul fatto che la pena di morte debba essere sostenuta come politica generale, o in una data situazione, dovrebbero essere attenti alla guida del papa e dei vescovi. L’insegnamento cattolico attuale dovrebbe essere inteso, come ho cercato di capire, in continuità con la Scrittura e la tradizione.

 

Fonte: First Thing

 

QUI la nuova versione del n.2267

 

Foto: papa Benedetto XVI e card. Avery Robert Dulles s.j.

Foto: papa Benedetto XVI e card. Avery Robert Dulles s.j.

Avery Robert Dulles (Auburn, 24 agosto 1918 – New York, 12 dicembre 2008) è stato un cardinale, teologo e gesuita statunitense. Ha mantenuto la cattedra Laurence J. McGinley di Religione e Società alla Fordham University. Papa Giovanni Paolo II lo innalzò alla dignità cardinalizia nel concistoro del 21 febbraio 2001. Nell’aprile del 2008, papa Benedetto XVI, nel corso della sua visita pastorale negli Stati Uniti d’America, volle recarsi personalmente a salutarlo nella sua residenza.

 

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