di Moreno Morani
Nei libri della Bibbia ripercorriamo la storia della Rivelazione che Dio fa all’uomo. Il Catechismo ci insegna che «La fede cristiana […] non è una “religione del Libro”» e che «Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio: di una Parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente”» (Catechismo della Chiesa Cattolica 108). Con queste precisazioni, leggere e meditare la Sacra Scrittura dovrebbe rivestire un posto importante nell’esperienza cristiana. La lettura della Bibbia dovrebbe essere illuminata e sorretta dalla lunga tradizione interpretativa esercitata dal Magistero ecclesiale durante i secoli, e il rifarsi ai libri della Bibbia ci porta a un contatto diretto con le fonti della Rivelazione. Non per nulla la liturgia ci propone due o tre (nel rito ambrosiano anche quattro) brani tratti dalla Bibbia nel corso della Messa e letture bibliche sono disseminate in numerose occasioni e momenti della vita ecclesiale.
Essendo un libro, anche la Bibbia può avere subito alcune delle traversie che sono toccate a tutti i libri dell’antichità: aggiunte possono essersi infiltrate nel testo, sviste od omissioni possono essersi verificate durante il lungo processo di ricopiature nei testi nel corso dei secoli, cosicché per riportarsi all’autentico testo originario in qualche caso occorre procedere con una serie di operazioni delicate e complesse di analisi filologica e di valutazione delle fonti: un compito che è generalmente appannaggio di pochi specialisti. Ma di questa problematica accenneremo se mai in altra occasione. C’è un altro aspetto molto più problematico. Le lingue in cui furono scritti originariamente i testi della Bibbia (ebraico, aramaico e greco per l’Antico Testamento, greco per il Nuovo Testamento) non sono mai state lingue di comunicazione in Italia, e non fanno nemmeno parte del normale bagaglio culturale delle persone colte. Il lettore italiano normalmente legge la Bibbia attraverso traduzioni: sul valore e sulla affidabilità di molte di esse, anche ritenute autorevoli, si potrebbe discutere, ma quel che è certo è che nessuna traduzione in italiano moderno potrebbe rendere in modo adeguato il testo originale: una notevole distanza ci separa dai testi originali, sia in senso culturale (il contesto storico e il mondo di valori che fa da sfondo ai testi) sia in senso linguistico (il modo di organizzare la sintassi, il valore delle parole). Se per il primo aspetto commenti e testi permettono di superare la distanza, facendo conoscere gli elementi essenziali dell’ambiente storico-culturale in cui i libri biblici si situano, per il secondo aspetto la questione si pone in modo diverso e più intricato. Non solo lessico e sintassi, ma le stesse forme grammaticali veicolano valori profondamente diversi rispetto alla nostra lingua. Limitandoci al greco del Nuovo Testamento, e senza entrare in particolari troppo tecnici, basterà dire che il sistema verbale greco si fonda su principi nettamente diversi, e ai nostri occhi abbastanza singolari, rispetto a quelli del verbo latino (e di conseguenza del verbo dell’italiano e delle lingue romanze): mentre per noi è essenziale collocare un’azione nel tempo (va, andò) per il parlante greco l’indicazione cronologica è un elemento accessorio e sostanzialmente superfluo nella maggior parte dei casi: quello che gli preme rilevare è la dimensione psicologica dell’azione, indicare cioè se si tratta di un’azione prolungata o meno, oppure se si tratta di un’azione ormai esaurita che ha determinato uno stato. Un esempio concreto permetterà di capire questa formulazione che potrebbe apparire un po’ esotica al lettore che non ha dimestichezza con le lingue antiche. In Luca 1, 42 Elisabetta saluta Maria con le parole: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!». La resa non lascia alcun dubbio, e più o meno tutte le traduzioni italiane hanno queste parole, né si potrebbe fare diversamente: ma benedetto alle orecchie di un greco suonava diversamente rispetto al valore che ha per noi: il testo greco ha eulogēménos (e al femminile eulogēménē), che è un participio perfetto: questo non indica un’azione (per la quale sarebbe stato usato il participio presente eulogúmenos), ma lo stato che ne consegue: eulogēménos si dice di una persona su cui è stata impartita un’azione di benedizione e ora si trova ricolma di grazia: la traduzione è corretta, ma la risonanza che la parola poteva avere nel testo originale era diversa. La stessa forma verbale è utilizzata in riferimento a Gesù (che è acclmato come eulogēménos quando fa il suo ingresso a Gerusalemme, Mt. 21, 9), ma non sarebbe adatta quando si parla di Dio: di Dio si dice generalmente che è eulogētós (p.es. Lc. 1, 68; II Cor. 11, 31, ecc.), una forma di aggettivo che non rientra nel quadro dei tempi verbali: il Figlio e gli altri personaggi possono essere ricolmi della benedizione che gli è data dal Padre, ma il Padre è benedetto di per sé, e l’uso di una forma estranea al sistema del verbo sottolinea che Dio non è circoscrivibile in categorie di tempo e di spazio, ed avendo in sé tutte le qualità positive è benedetto per definizione, senza bisogno di un’azione proveniente dall’esterno che gli faccia assumere lo stato di benedetto: per questo si sottrae anche a una definizione in qualche modo collegata a un tempo verbale. Ancora. Nel prologo di Giovanni leggiamo «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (1, 3): anche qui, una traduzione del tutto corretta non rende pienamente ragione del testo originale. Dopo avere ripetuto più volte che il Verbo era (un imperfetto nel testo: un’azione vista come prolungata nel tempo, il Logos era nell’eternità), si muta tempo verbale, e all’imperfetto si contrappone un aoristo, tempo che esprime la pura e semplice azione (egéneto): l’eternità viene così contrapposta anche grazie alla variazione delle forme verbali all’inizio del tempo: fra l’altro egéneto, diversamente da quanto può apparire nella resa italiana, non è un passivo: non è un fu fatto, ma semplicemente un fu: all’era dell’eternità si contrappone il fu della scintilla della creazione, e la conclusione (gégone) usa di nuovo lo stesso verbo, ma al tempo perfetto: gégone, esiste, c’è ora come risultato di quel fu, è un esiste ora che presuppone un fu, l’atto creativo all’inizio del tempo. Questa triplice scansione era ~ fu ~ esiste è irrimediabilmente persa nella resa italiana, e non potrebbe essere riconosciuta senza il ricorso al testo originale.
Tra le difficoltà insite nella traduzione c’è anche il fatto che il traduttore spesso è obbligato a scegliere un significato unico, dove il testo originale rende possibile una pluralità di interpretazioni, e quindi il lettore della traduzione viene depauperato di altre plausibili interpretazioni di un passaggio: non può operare una scelta fra le interpretazioni possibili, perché la scelta è già stata operata dal traduttore. Per quanto si proponga di essere fedele e accurato, il traduttore è sottoposto a errori e sviste: le revisioni e i ritocchi di passaggi problematici non portano sempre a miglioramenti. In Efesini 6, 5 leggiamo nella versione attuale della CEI «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni»: il testo ha, più precisamente, i vostri padroni secondo la carne: si tratta di un aggiustamento del traduttore, più o meno sulla stessa linea di quanto avviene in II Cor. 1, 17«In questo progetto mi sono forse comportato con leggerezza? O quello che decido lo decido secondo calcoli umani?», dove secondo calcoli umani sostituisce secondo la carne (come si leggeva ancora nella CEI del 1974 e in tutte le principali traduzioni moderne, cattoliche o protestanti): un’immagine di immediata concretezza sostituita da una interpretazione astratta e un po’ intellettuale che sottende una sostanziale sfiducia nei confronti delle capacità del lettore di comprendere e penetrare i testi.
Naturalmente la stragrande maggioranza dei fedeli continuerà, per forza di cose, a leggere la Bibbia nelle traduzioni correnti. Ma la possibilità per tutti di accedere ai testi originali dovrebbe essere garantita attraverso le spiegazioni dei pastori. In sostanza, se al fedele non è richiesto di saper leggere il greco antico, chi ha una funzione di guida e di insegnamento della Parola dovrebbe, a nostro parere, essere in grado di conoscere, almeno a livello iniziale, le lingue originali della Bibbia, e di trasmettere ai fedeli questa conoscenza. Nelle prime generazioni del Cristianesimo primitivo avevano autorità quei testimoni che avevano visto e ascoltato di persona il Redentore o avevano conosciuto qualcuno degli apostoli: negli anziani della comunità risuonava l’eco degli avvenimenti e dei discorsi legati alla vita di Gesù e all’esperienza dei primi discepoli. Questo compito di pastori e testimoni non si è esaurito: venuti meno i testimoni oculari, rimane la voce della Chiesa che ne ha perpetuato nei secoli l’eco e rimane la conoscenza di fatti e parole della Rivelazione attraverso i testi scritti. Riprendere nelle mani il Nuovo Testamento nella lingua originale può avere, oltre alle motivazioni linguistiche già sintetizzate, altri due vantaggi. Innanzitutto è corretto, quando si parla di storia e avvenimenti del passato, rifarsi il più possibile alla documentazione originale: i testi del Nuovo Testamento sono documenti di storia, che hanno tutte le caratteristiche delle fonti storiche che ci sono pervenute dal passato. In secondo luogo la lettura diretta delle fonti impedisce di dare eccessivo credito a certe immagini faziose o edulcorate del Cristianesimo e di Cristo che non solo i media, ma anche il sapere accademico tenta di diffondere. Persino la reale esistenza storica di Gesù è oggetto oggi di attacco da parte di istituzioni e istituti universitari che purtroppo sono in grado di operare con dovizia di mezzi e trovano facile accoglienza in organi di stampa e in trasmissioni televisive che toccano un pubblico molto ampio. Mentre correnti di questo genere prendono sempre più consistenza, la risposta migliore dovrebbe essere quella di un rafforzamento della preparazione anche storica di chi ha il compito di guidare i fedeli, che, specialmente nel caso dei più deboli, potrebbero lasciarsi confondere e fuorviare da racconti in palese contraddizione non quel richiamo alla storicità e all’autenticità delle fonti che è sempre stata alla base dell’insegnamento della Chiesa.
In questo senso una conoscenza almeno minimale delle lingue bibliche sarebbe uno strumento, se non obbligato, quanto meno utile o addirittura indispensabile per il clero. E’ da respingere l’obiezione che questo tipo di conoscenza sarebbe superfluo o addirittura fuorviante per chi esercita il ministero sacerdotale magari in isolate località di campagna, dove i problemi pastorali predominano, tanto che una solida preparazione storico-letteraria sembrerebbe per chi guida la parrocchia un orpello poco più che inutile. Mi si permetta di dissentire da questa possibile obiezione, che reputo inconsistente anche sulla base di una mia esperienza personale. Mi è capitato più di una volta, in una piccola località delle Alpi, di ascoltare omelie domenicali dove, pur nella dovuta semplicità, di fronte a un pubblico per massima parte digiuno di problematiche linguistiche, venivano presentati riferimenti ai testi originali e precisazioni sul valore esatto di passi e parole delle letture domenicali, con osservazioni che davano ai fedeli presenti una possibilità di una comprensione più chiara di passaggi delle letture della Messa.
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