di Aurelio Porfiri
Credo si possa dire con ragionevole certezza che un numero enorme di persone si sia avvicinato alle arti marziali grazie ai film di Bruce Lee. E lo stesso attore è stato certamente un’occasione per molti di conoscere Hong Kong. La diffusione enorme dei suoi film ha certamente favorito la conoscenza di alcuni aspetti della cultura di Hong Kong per un grande pubblico. E il cinema di Hong Kong ha certamente giocato in passato un ruolo importante nell’ambito della cinematografia mondiale. Attori di Hong Kong come Maggie Cheung, i due Tony Leung, Jackie Chan, Chow Yun-fat ed altri sono anche noti a livello internazionale. Sul ruolo di Bruce Lee possiamo citare quanto segue: “Bruce Lee svolse un ruolo chiave nell’apertura dei mercati stranieri ai film provenienti da Hong Kong, diventando l’emblema dell’eccellenza delle arti marziali cinesi. I suoi film, apprezzati in tutto il Terzo Mondo, finivano spesso per simbolizzare l’orgoglio ribelle dell’Asia in rivolta. Sebbene abbia diretto un solo film, “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”, Lee curava attentamente la sua immagine. Generalmente impersonava un superuomo, indubbiamente il miglior lottatore sulla piazza, ma conservando la massima espressione della sua forza per il momento decisivo. Rispetto agli altri film di Hong Kong, Lee predilesse scene di combattimento più realistiche, esaltando la sua bravura grazie a inquadrature in totale e in piano sequenza. Alcuni momenti spettacolari, tuttavia, sono accentuati da trucchi di ripresa e dal montaggio. Dopo la morte di Bruce Lee, i produttori cercarono dei sostituti (spesso soprannominati Bruce Le, Leh o Li), senza riuscire ad evitare il rapido declino qualitativo dei film sul kung fu. Ciò nonostante, al pubblico straniero piaceva il genere e l’impresa di Raymond Chow si ingrandì. A metà degli anni ‘70 la Golden Harvest e la Shaw Brothers producevano circa un terzo dei film di Hong Kong. Chow controllava la più grande catena di cinema della colonia, nonché altre 500 sale in tutta l’Asia” (cinemadelsilenzio.it) In effetti i cultori di arti marziali ricorderanno questi surrogati di Bruce Lee in film a volte grotteschi.
Un genere importante nella ciematografia di Hong Kong è certamente quello delle arti marziali, come appena detto. Ma anche altri generi erano apprezzati. Ross Chen ci offre questa descrizione: “Nei tardi anni Ottanta e nei primi anni Novanta, l’industria del cinema di Hong Kong era solida e incredibilmente apprezzata. La produzione media annuale era di circa duecento film, che godevano di una popolarità sorprendente presso il pubblico locale, i cinesi d’oltremare e gli appassionati di cinema di tutta l’Asia. Ma verso la metà degli anni Novanta, il cinema di Hong Kong stava già perdendo quote di pubblico locale, a favore dei film hollywoodiani, e anche la sua popolarità oltremare si stava indebolendo. Con l’aumento della pirateria e il calo del sostegno del pubblico, i cineasti hongkonghesi dovevano necessariamente adeguarsi. Così, per sostituire i generi che si indebolivano se ne svilupparono di nuovi. I film di arti marziali e quelli di cappa e spada in costume iniziarono a perdere terreno, e gli spettatori si rivolsero alle moderne commedie e storie romantiche, mentre le saghe sui giovani delle triadi come Young and Dangerous videro incrementare la propria popolarità. Ma dopo un po’ i film sulle triadi persero il favore del pubblico e, ironicamente, il primo grande film post-Handover rappresentò una sorta di critica a quel genere filmico, pur senza averne l’intenzione; nel suo Made in Hong Kong (1997), Fruit Chan smontava i film sulle triadi con una visione incentrata sui veri problemi locali” (fareastfilm.com). Questo fervore creativo ha conosciuto certamente un momento di crisi negli ultimi anni, dovuto a ari fattori tra cui la pandemia e la legge sulla sicurezza nazionale. Su quest’ultima sarà utile fare qualche ulteriore considerazione. Ci aiuta Ryan Law: “L’applicazione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong a partire dal luglio 2020 ha avuto sicuramente un impatto sulla censura, che è diventato più evidente nel 2021. Il Film Censorship Ordinance (decreto sulla censura cinematografica), promulgato nel 1988, prevede che i film destinati alla proiezione in pubblico debbano ottenere il nulla osta dell’Autorità per la Censura Cinematografica. In generale, i film sono suddivisi in base a un sistema di classificazione a tre livelli. Il governo ha rivisto le “Linee guida sulla censura dei film per i censori” nel giugno 2021. In aggiunta alle prescrizioni già in essere, un fattore chiave per stabilire se un film può ottenere il nullaosta è se la proiezione di un film potrebbe essere contraria agli interessi della sicurezza nazionale. Nel settembre 2021 il governo ha presentato al Consiglio Legislativo il decreto aggiornato sulla censura cinematografica, che è stato poi approvato in ottobre. Il decreto estende ulteriormente il concetto di “interessi della sicurezza nazionale”, conferendo maggiori poteri al Segretario di Stato, al quale conferisce anche la possibilità di revocare un nullaosta di censura rilasciato precedentemente, se la proiezione del film non è più considerata rispondente all’interesse della sicurezza nazionale. Sebbene il decreto e le linee guida siano stati rivisti nel 2021, la censura si è inasprita già dalla fine del 2020, quando la Ying E Chi, una società di distribuzione indipendente con sede a Hong Kong, ha organizzato la proiezione del documentario Inside the Red Brick Wall, diretto dai “documentaristi di Hong Kong”. Il documentario verteva sull’assedio della polizia al Politecnico universitario di Hong Kong, dove si erano rintanati i sostenitori dell’Anti-Extradition Law Movement (movimento contro la legge sull’estradizione), nel novembre 2019. I manifestanti sono stati assediati dalla polizia per quasi due settimane. Se in un primo momento il film era stato classificato come Categoria IIB (non adatto a bambini e ragazzi), nel settembre 2020 è stato riclassificato come Categoria III (riservato ai maggiori di anni 18), con la richiesta di aggiungere una nota che spiegasse che alcuni degli atti ripresi nel documentario sono contrari alla legge di Hong Kong. Subito dopo la revisione delle “Linee guida sulla censura dei film per i censori”, l’ente di censura ha negato il visto al cortometraggio di Mok Kwan-ling Far from Home, che faceva parte di Fresh Wave (concorso di cortometraggi finanziato dal governo), prima della proiezione al concorso a fine giugno. La proiezione del film, che parla di una coppia di giovani che vengono arrestati a seguito delle manifestazioni di Hong Kong del 2019, è stata quindi annullata. Secondo il regista Mok, per rilasciare il nullaosta l’autorità di censura cinematografica ha preteso la cancellazione di tutte le 14 scene relative alle proteste, vale a dire oltre due terzi del film”. Insomma, controllare quello che viene proiettato è anche un modo per controllare la storia, e questo certamente non vale soltanto per Hong Kong.
Non si può negare che una certa retorica nazionalista che di solito è più presente nel cinema della Cina continentale (che offre comunque anche film notevoli) si fa strada anche nei film di Hong Kong, come in Master Z: Ip Man Legacy del 2018, un film che sfrutta la trilogia sul maestro di arti marziali di Bruce Lee, Ip Man. In questo film gli stranieri sono sempre o quasi ritratti come cattivi e oppressori dei cinesi che hanno perciò diritto a ribellarsi. Ma certamente ci sarebbero altri esempi in questo senso. Nello stesso 2018 Francesco Radicioni su La Stampa ci mostrava come questo nazionalismo non investisse solo il cinema, ma andasse a toccare vari aspetti della cultura con persone attivamente impegnate a combattere quelli che percepiscono come nemici del proprio paese: “I Little Pink – xiao fenhong, in cinese – hanno scelto la Rete come campo di battaglia e il loro zelo patriottico è infarcito da un tocco pop, fatto di e-moji e meme che si scambiano online. Il nome di questa brigata di agit-prop digitali deriva dallo sfondo rosa del forum di letteratura Jinjiang, dove sono comparsi anni fa. Quando dai romanzi si è passati alla discussione politica, i toni si sono infiammati: invettive anti-giapponesi, proclami contro l’indipendenza di Taiwan, del Tibet e di Hong Kong, l’attacco al sistema democratico. «Mi piaceva moltissimo, ma quando si tratta dell’interesse nazionale non si possono fare eccezioni». Così una fan cinese di Lady Gaga esprimeva il proprio sdegno, commentando su Instagram la foto dell’incontro tra la pop star statunitense e il Dalai Lama. In rete i Little Pink hanno anche incitato al boicottaggio dei prodotti Lancôme, dopo che il marchio di cosmetici francese aveva ingaggiato per un concerto promozionale Denise Ho, la cantante in prima fila nel Movimento degli Ombrelli di Hong Kong. Sempre nel mondo della musica, un’altra vittima di questo gruppo organizzato di troll è stata la 16enne Chou Tzu-yu – artista taiwanese di una band femminile di K-pop – che nel corso di una comparsata televisiva osò mostrare la bandiera di Formosa. Una pioggia di critiche si è riversata sulla pagina Instragram della giovane pop star, mentre un’esibizione della band nella Repubblica popolare veniva annullata. La pressione sulla cantante fu tale da costringerla a dichiarare contrita che esiste «una sola Cina»”. E certamente molto di più ci sarebbe da dire.
Non si può negare che il cinema, come altri elementi della cultura, contribuisca a formare la nostra visione del mondo, ecco perché la religione cattolica lo ha usato e ha anche sempre vigilato su film che potrebbero andare a detrimento dei fedeli. Parlando nel 1955 agli operatori del mondo cinematografico, Pio XII così tra l’altro affermava: “La vigilanza e la reazione dei pubblici poteri, pienamente giustificate dal diritto di difendere il comune patrimonio civile e morale, si manifestano con varie forme: con la censura civile ed ecclesiastica dei film, e se occorre, con la loro proibizione; con le liste dei film pubblicate da apposite commissioni esaminatrici, che li qualificano, secondo il merito, per notizia e norma del pubblico. É ben vero che lo spirito del nostro tempo, insofferente più del giusto dell’intervento dei pubblici poteri, preferirebbe una difesa che partisse direttamente dalla collettività. Certamente sarebbe desiderabile che si ottenesse l’unione concorde dei buoni contro il film corruttore, ovunque si mostri, per combatterlo coi mezzi giuridici e morali a loro disposizione; tuttavia una tale azione non è per sé sola sufficiente. L’ardore e lo zelo privato può intepidirsi, e di fatto si intepidisce, come dimostra l’esperienza, ben presto. Non si intepidisce al contrario l’aggressiva propaganda opposta, che dal film trae sovente lauti profitti, e che trova spesso un facile alleato nell’intimo stesso dell’uomo, vale a dire nel cieco istinto coi suoi allettamenti o i suoi brutali e bassi impulsi. Se, pertanto, il patrimonio civile e morale del popolo e delle famiglie dev’esser tutelato con sicuro effetto, è più che giusto che la pubblica Autorità intervenga debitamente per impedire o frenare i più pericolosi influssi”. Non è incomprensibile che autorità civili e religiose attraverso la censura impongano la loro visione del mondo agli spettatori. Cosa ci dice questo su Hong Kong? Ci dice che le autorità desiderino che non si parli più delle proteste culminate con le manifestazioni del 2019 e che si implementi tutte quelle misure che garantiscono una certa stabilità nella società, anche a scapito delle aspirazioni di larghi strati della popolazione. Il cinema è sempre presente a Hong Kong anche se non con il vigore di un tempo. Eppure esso, nei vari modi offerti dalla tecnologia moderna, continua a formare l’immaginario collettivo della città attraverso tempi certamente non semplici.
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Aurelio Porfiri, tuttologo, anche basta. In clima di guerra, Porfiri ricomincia a spuntare come il prezzemolo dopo il rientro da Hong Kong? Valli e Tosatti gli orti in cui cresce più rigoglioso, capperi!
Paciolla carissimo, non ceda alla tentazione di trasformare il suo bellissimo blog “Oltre il giardino” in un orticello in cui cresce di tutto (in verità non lo credo).
A Porfiri, che a volte non disdegno affatto, chiederei di uscire dal silenzio solo se ha qualcosa di veramente interessante da dire: altrimenti è aria fritta che non si magna più nessuno. Gli italiani han ben altro a cui pensare! E poi, il troppo stroppia!
A che serve offendere? Nel caso specifico, il maestro Porfiri è vissuto e vive in Estremo Oriente. Inoltre, ha scritto dei libri su quella regione. Si può essere d’accordo o meno. Poi c’è sempre la soluzione di non leggere. Offendere proprio no.
Offendere non serve a nulla. Nè è nelle mie corde. Esprimere un parere, chiaramente sgradito, a volte è invece l’unica soluzione per far giungere un messaggio (di sfogo, lo ammetto). Io rifletto così. Non certo con gli applausi.
Poi immagino che chi si espone di continuo, pubblicamente, dai maggiori blog, sia magari abituato a qualche critica. E invece tac…il Peter Petrus offende. Ecco, sì, si resta confusi. Pazienza.
Poi, certo, è vero, potrei non leggere (a che serviranno mai affezionati lettori, se non a offendere?) così come lei potrebbe censurare tout court ogni dissenziente.
Auguro buon lavoro e buona continuazione.