Edge of Tomorrow, con Tom Cruise ed Emily Blunt

 

 

di Mattia Spanò

 

Non sarà sfuggito quasi a nessuno che nelle ultime 72 ore abbiamo assistito al tentativo di riavvolgere il nastro dell’emergenza pandemica a febbraio 2020. Il copione è lo stesso – i cinesi, i virologi da sbarco che dispensano editti – i rimedi idem – mascherine, lockdown a chiazze, gel alcolico, vaccino, vaccino, vaccino – la strategia comunicativa identica – per il momento tutto a posto, ma bisogna stare in guardia, governo no-vax e via straparlando.

Per la verità, come ho confidato nelle scorse settimane a qualche amico, me lo sentivo e me lo aspettavo. È molto difficile abbandonare o modificare uno schema così strepitosamente efficace.

Non so quanto consistente sia lo scopo della solita compagnia di giro, se esaurire le scorte di siero ormai pagate, mettere all’angolo un governo presunto fascista, o semplicemente sopravvivere dopo il disastro fatto raschiando il fondo del barile.

Le prossime settimane riveleranno di più in proposito, ma forse è il caso di spendere due parole indagando il fenomeno. Il quale, molto in sintesi, si presenta così: vivi, muori, ripeti – Edge of Tomorrow Senza domani, brioso filmetto con Tom Cruise di qualche anno fa, in cui un soldato contaminato dal sangue di alieni nemici rivive il giorno della sua morte fino a che non debella gli invasori, ma perdendo l’immortalità nel senso di rivivere il suo ultimo giorno all’infinito.

Il film, e per associazione la situazione attuale, sono un’ode alla reincarnazione e alla circolarità del tempo, idee molto distanti dalla nostra cultura mutuate da quella orientale, ed hanno forti elementi religiosi o, se si preferisce, filosofici.

Alla fine del millennio scorso nel buddismo tailandese, ad esempio, era ancora presente l’idea che una persona nascesse menomata perché nella vita precedente aveva fatto qualcosa di male. La condanna alla mendicanza e al rifiuto sociale erano in qualche misura la giusta forma di espiazione per colpe tutto sommato ignote che il menomato aveva compiuto nella vita precedente. La pietas, se così possiamo chiamarla, consisteva precisamente nel farlo espiare.

L’idea che le cose si ripresentino sic et simpliciter allo stesso modo (si pensi alle guerre, Assad must go, Saddam Hussein deve morire, Putin anche), all’emergenza climatica (con sempre nuove istanze, nuovi obiettivi, nuove urgenze), alle malattie (vaccini, vaccini potenziati, vaccini modificati) in un loop senza via d’uscita, è meno rozza e stupida di quanto appaia.

La vita umana è ciclica e ripetitiva. Non la percepiamo così solo perché certe cose ci danno piacere e rendono felici e certe altre ci addolorano ma, onestamente, sono tutte legate a fatti concreti ridondanti. Saltiamo da una condizione positiva ad un’altra negativa e viceversa, chiamando questo cambiamento e non, si presti attenzione, rinnovamento. Se si vuole far digerire il new alle persone bisogna raccontare loro che è normal.

Accettiamo tranquillamente di studiare vent’anni, quarant’anni fare un lavoro tutto sommato ripetitivo, sposarci, tirare grandi eventuali figli aggrappandoci a dettagli tutto sommato poco rilevanti e transitori, spesso offuscati da ciò che viene dopo – la gioia per una laurea lascia il posto alla preoccupazione di non trovare lavoro, un nuovo lavoro presto o tardi muove a cercarne uno migliore o meglio pagato, la moglie annoia e invecchia e via dicendo.

Questa ridondanza dell’esistenza è anche il motivo in forza del quale stabiliamo rapporti con gli altri, affettivi o di altra natura. È il motivo per cui se accendiamo un fuoco ci aspettiamo giustamente che ci scaldi, o se seguiamo un ricetta è perché ci attendiamo che la pietanza sia buona come la volta precedente.

Quella che noi chiamiamo “libertà” è in fondo il fatto di operare scelte minime che si spera (ma non ne siamo certi: il fuoco stenta perché la legna è umida, la pancetta è un po’ bruciata) possano produrre effetti positivi, mentre nell’angolo remoto della mente custodiamo una certezza semplice: non durerà per sempre. Eppure, almeno nelle cose buone, tutti vorremmo che così fosse.

Tutti gli uomini sanno che la vita finisce. Eppure tutti gli uomini, a prescindere dal fatto che abbiano avuto una vita dura o felice, di fronte alla morte capitolano. Perfino i suicidi, che considerano la morte fisica una morte minore rispetto alla morte del sé. Il sé è, al nocciolo, il desiderio largamente osteggiato dai fatti di eternità.

Chi vuole ottenere il nostro completo soggiogamento e la nostra adesione non deve fare altro che garantirci la durata di quello che compriamo o a cui aderiamo, e l’irreversibilità di questa durata. Prezzo bloccato per tutta la vita, il compact-disc che garantisce suono puro per la durata della vita (si è visto), il contratto a tempo indeterminato, l’euro irrevesibile.

Provate a vendere un prodotto dicendo la verità, e cioè: funziona finché non si rompe. Lo troverai gradevole e utile finché non ti verrà a noia. Fatemi poi sapere quanti esemplari ne avrete venduti.

Non ha alcuna importanza che nessuna, e dico nessuna, delle misure anti-pandemiche abbia funzionato, perché le persone hanno adottato senza riserve l’intero pacchetto come nuova normalità. Qualcosa che magari fa anche schifo e orrore, che non funziona, ma in compenso è eterno.

Nella disputa con Sant’Anselmo, il quale affermava che all’inferno fosse preferibile l’annullamento delle anime (tesi che papa Francesco avrebbe esposto a Eugenio Scalfari, parlando di annichilimento , cancellazione delle anime invece della dannazione eterna), San Tommaso replica che persino l’inferno è preferibile al nulla.

Il nulla è un concetto indicibile, non esperibile e perciò non attestabile né tramandabile. Nessuno lo ha mai visto. È, in fondo, l’unica cosa di cui non possiamo dire niente perché è il niente. Bisogna ipotizzarlo non perché esista – non può esistere – ma perché stabilisce un perimetro intorno a ciò che esiste. In questa dimensione conosciamo e riconosciamo solo ciò che ha un confine, pur anelando ad altro.

Non potendo garantire l’affrancatura dalla morte, il sistema ha diramato l’imperativo morale di non morire di Covid. Questo, in qualche modo, alla maggior parte delle persone suscita un vago senso di consolazione. Gli dà uno scopo.

Questo scopo si manifesta in alcuni riti apotropaici – mascherarsi, disinfettarsi, vaccinarsi, evitare i contatti fisici – garantiscono, se non di evitare il contagio e la morte, il perpetrarsi in un tempo potenzialmente infinito di sé stessi.

Quando chiedono a San Camillo de Lellis mentre giocava a carte cosa avrebbe fatto sapendo che di lì a un minuto sarebbe morto, risponde: “Continuerei a giocare”.

La morte getta l’uomo nell’ignoto, che secondo Lovecraft è la paura più antica del cuore umano. Chiunque, a prescindere dagli scopi, desidera accaparrarsi il cuore e la ragione umani – l’anima, in fin dei conti – non deve fare altro che garantire la ripetizione rituale di qualcosa.

Chi si stupisce dell’intemerata di quelli che privano a riattizzare i focolai di terrore sbaglia. L’uomo accetta qualsiasi baggianata davanti al nulla. Solo un Dio incarnato ha posto fine a questo circolo vizioso, all’uomo che, tramanda la Bibbia, si è recluso tramite il peccato in questo incessante vivi, muori, ripeti familiare alla gran parte – direi tutte – le culture e religioni di ogni tempo.

Guarda caso, è lo stesso Dio che il potere cerca forsennatamente di rimuovere dal mondo da duemila anni a questa parte.

 


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