Rilancio l’articolo di Marcello Veneziani pubblicato ieri su La Verità a proposito della nuova iconoclastia.
Ma che succederà alle piazze e alle strade d’Italia quando si accorgeranno che pure Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, era sessista e naturalmente razzista riguardo a ogni altra razza che non fosse la sua? E che in fondo della stessa pasta era l’umanitario Giuseppe Garibaldi, e non diverso era Camillo Benso Conte di Cavour? Quando sapranno cosa pensavano delle donne, dei negri, degli indios, degli invertiti e dei pederasti, come allora li chiamavano, e perfino dei nostri meridionali?
Avremo città senza toponomastica, navigatori impazziti o muti, la cancellazione dei nomi renderà introvabile ogni luogo e impraticabile ogni città, peggio del lockdown. Ogni piazza dovrebbe al posto dei loro nomi infami e delle loro statue pompose, avere il nome e l’icona di un nero schiavizzato, di una donna sottomessa, di un cafone accoppato, comunque di una Vittima. Anche un cane o un cavallo, per essere equi fino in fondo.
Della storia l’unica cosa da ricordare sarebbero le Vittime, mai gli Artefici. Passerà alla storia, d’ora in poi, vorrà dire che verrà rimosso, cancellato, maledetto. O se preferite fa la storia solo chi la subisce. Se i grandi sbagliano in grande, come diceva Heidegger, meglio i piccoli che sbagliano in piccolo: anzi meglio quelli che hanno solo patito. Milioni di vittime formeranno un solo, anonimo monumento all’umanità, non ai grandi ma agli ignoti. I busti del Pincio a Roma che furono già oltraggiati da un precursore che tagliò loro il naso, saranno sostituiti da quelli delle vittime per tipologia: il busto al Nero, al Migrante, al Disabile, alla Donna violentata, all’Ebreo, all’Omosessuale, alla Lesbica, alla Schiavizzata in casa o al lavoro (doppio busto). E uno, in disparte, allo Sfigato. Non conta cosa hai fatto nella vita ma cosa hai subito; ogni eccellenza si accompagna al male e si procede all’inverso, dal basso fino alla normalità. Ma lo statuto speciale è quello di Vittima. Le norme che regolavano l’accesso in paradiso, alla santità, al martirio vengono applicate in terra; ma con la differenza che non è necessaria la buona condotta, la testimonianza di una fede o la santità delle opere, basta che sia una Vittima. Qualcosa aveva intuito René Girard quando diceva che la maggiore eredità lasciata dal cristianesimo al mondo che lo rinnega è “la preoccupazione per le vittime”. Via la statua di Cristoforo Colombo facciamo il monumento a George Floyd, via il monumento al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, facciamo il monumento al geometra Cucchi. Via l’eroe dell’Amba Alagi facciamo il monumento a Giulio Regeni. Vanamente Sant’Agostino avvertiva che non è la pena ma la causa a fare i martiri. No, contano le botte ricevute. E se poi eri pure testimonial a qualunque livello, di qualunque risma, con qualunque precedente, delle famose battaglie di emancipazione, allora di più.
Quando Voltaire immaginò di voltare le spalle ai secoli oscurantisti, alla fede confusa con la superstizione, alla tradizione identificata con la barbarie, figurava una società dei lumi, libera, tollerante, progressista, umanitaria. Ma non avrebbe mai pensato di essere oltraggiato da quella società con un getto di vernice sulla sua effigie, nel nome dei suoi stessi valori, per il suo razzismo nei confronti dei neri e per alcune sue oltraggiose teorie che erano figlie del suo tempo. Alla fine pure lui è stato considerato oscurantista, superstizioso, retrivo, antisemita, colonialista, schiavista. Sarebbe lunga e imbarazzante la fila dei pensatori – da Platone e Aristotele agli ultimi – che sono considerati eroici precursori nella lotta contro i pregiudizi e la superstizione, ma a loro volta condividevano alcuni giudizi e pregiudizi del loro tempo oggi vituperati. Sia lodata l’ignoranza dei contemporanei perché se poco poco sapessero cosa pensavano costoro di neri, donne, guerra, ecc. sarebbero all’indice. Molti di loro, usciti dall’Indice della Santa Inquisizione rientrerebbero nell’Indice dell’Atea Inquisizione.
Ma torno alle nostre statue equestri perché mi ha impressionato vedere ieri che perfino Theodor Roosevelt, sorpreso in una statua a cavallo con un indio e un nero ai fianchi a piedi, è stato selvaggiamente rimosso. Roosevelt, mica Hitler. Le statue, e quelle equestri in particolare, non mi sono mai piaciute, le ho sempre considerate un po’ trombone; manifestavo un certo fastidio per quell’Italia umbertina, postrisorgimentale, che innalzava monumenti dappertutto, anche al cimitero. Era un’Italia laica, un po’ massonica, tendenzialmente atea, che vedeva nella divinizzazione della storia e nella monumentalizzazione degli eroi secolari, il segno della nuova religione civile.
Ho poi sempre pregato di non far scendere da cavallo Vittorio Emanuele II e Peppino Garibaldi. Il primo perché era sorprendentemente basso, mentre con quei baffoni, quella nomea erotica e quel cavallo regale pareva un omone; il secondo perché a cavallo magari unificò l’Italia ma quando scese da cavallo e fece il dittatore o entrò in parlamento, fece pasticci, mezzi disastri, discorsi scombinati. Perciò ho sempre supplicato di non farli scendere mai da cavallo. Ma ora che l’onda lunga iconoclasta si avvicina alle nostre sponde, ora che lo tsunami della Distruzione sta per abbattersi sulla nostra toponomastica e sul ricco mondo di statue, busti e magari anche ritratti, sono costretto a difenderli tutti, a cavallo o senza. Per difendere la civiltà, il rispetto della storia, della gloria e della grandezza, anche quando è controversa e ha non pochi lati d’ombra. E per difendere la vivibilità dei nostri paesi, tutti, che senza Piazza Vittorio Emanuele, Corso Garibaldi, Viale Mazzini e Via Cavour e le relative statue, sarebbero irriconoscibili. Se non volete farlo per loro o per la memoria storica, fatelo per i cittadini, per i cavalli statuari e per i vostri smartphone che non saprebbero più a che app attaccarsi.
Scrivi un commento