di Elisa Brighenti
La vita di Van Gogh fu segnata dall’ombra del dilemma esistenziale fin dalla nascita. I genitori prima di lui ebbero un figlio, che chiamarono Vincent e che nacque morto; decisero, da quel dramma familiare, che il nome di Vincent sarebbe appartenuto ad un futuro figlio maschio, se mai fosse nato. E cosi si verificò, il 30 marzo 1853. I fallimenti segnarono marcatamente le esperienze di Vincent: come studente di teologia trovò grandi ostacoli, a causa sia della fatica nello studio che dell’incompatibilità con l’ambiente duramente calvinista con il quale interagiva; anche il lavoro nel settore carbonifero belga del Borinage gli costò presto una drastica riduzione del salario fino al pieno licenziamento.
Visse per tutta la sua carriera artistica, fino alla morte, con la paura che gli fosse negato anche l’affetto e l’aiuto economico del fratello Theo, più giovane di 4 anni, con il quale tenne una corrispondenza epistolare costante, ostinata e necessaria, in cui appare evidente l’altissimo valore teorico che Van Gogh profuse costantemente nell’impegno artistico, lungo tutto il corso della sua sofferta carriera. La decisione di aderire intimamente all’universo dell’arte gli venne offerta nel 1880, in occasione dell’incontro con il mercante Goupil e con il cugino Anton Mauve.
In tutta la sua toccante opera, è visibile una salda e paradossale sintesi in cui, la misura della realizzazione artistica e plastica, concentrata in particolare nell’uso del colore, viene stabilita dalla sua intima e personale difficoltà ad attraversare l’esistenza. Per questo motivo, egli usava dire “se dovessi dipingere paesaggi, le figure non mancherebbero mai”, dichiarando in pochi versi, come la sua propensione artistica non potesse essere sciolta dalla visione esistenziale, né i paesaggi potessero separarsi dalle immagini di persone affaccendate nei lavori rurali. I cambi di punti di osservazione che accompagnarono i trasferimenti del pittore in varie località, non tradirono mai l’unitarietà dell’interpretazione che Vincent intendeva offrire alla figura dell’artista, unendola indissolubilmente a quella del dato reale.
Trovò infatti un modo esclusivo e personalissimo di contrapporre l’ordine, il suo, al caos, quello che lui leggeva nella natura. Paradossalmente, la mente disturbata del pittore, gravata dal peso dell’epilessia, fu fonte imprevedibile e ordinata dell’ispirazione artistica, all’apice negli istanti prima della deflagrazione del disturbo psichico. Vincent tradusse in pittura il confine sottilissimo tra presenza concreta e inaccessibilità conoscitiva; tra la coscienza del dolore e la tensione quasi estatica al suo superamento nell’atto pittorico. Non volendo sopprimere la realtà, perché assunta da sempre come peso ineludibile, Vincent la rese tangibile senza volerla scardinare nei significati, perché impossibile, cosi compatta e inarrivabile, cosi dominatrice delle passioni di un singolo uomo.
In questa tensione spasmodica, Van Gogh si appropriò di un mondo a lui strutturalmente ostile. In un contesto inconfutabile di schizofrenia interpretativa, il colore assunse un ruolo fondamentale. Basandosi su osservazioni di Delacroix, Vincent si chiese in che modo la pittura potesse costituire un insieme ordinato e strutturalmente completo e aver ragione sulla mutazione del colore; in che modo dunque, dato un oggetto, questo potesse giustificare la diversità da sé in base alle differenti posizioni nello spazio.
Ebbene, Vincent inaugurò un metodo, una fenomenologia dell’arte, che depotenziando il colore reale dell’oggetto, quello locale, evidente, favoriva la presenza dell’oggetto nel contesto pittorico al quale il quadro era dedicato. Van Gogh assunse dunque il colore come fenomeno a sé, svincolandolo dalle determinazioni che gli sarebbero derivate dall’essere l’abito tangibile di un determinato oggetto; il colore divenne pura presenza, gioco di macchie, in cui il dato reale si riformula, in una eterna movenza di possibilità.
Scrivi un commento