Don-Luigi-Giussani-e-Julian-Carron
Don Luigi Giussani e Julian Carron

 

 

di Marco Nardone

 

Mi sono chiesto: qual è esattamente il punto sul quale Papa Francesco chiama CL a fare “discernimento critico” nel suo discorso del 15/10/2022?[1]. L’ho fatto, preciso, per puro interesse personale e per sollecitazione di alcuni amici ai quali il punto non risultava immediatamente evidente. Ho cercato perciò di rintracciare questa evidenza, senza nessuna pretesa di esaustività, attraverso una indagine il più possibile imparziale su alcuni testi significativi, letti con un occhio alla dottrina della Chiesa. I testi riguardano soprattutto CL, ma la questione tocca aspetti che mi sembrano rilevanti per ogni comunità ecclesiale (e non solo ecclesiale).

Nel discorso del Papa si nota innanzitutto il tono di stima e di fiducia per il movimento. Tono senz’altro più benevolo e “centrato” rispetto al discorso del 2015, ma, proprio per questo, il richiamo alla responsabilità di ciascuno appare più stringente.

Mi sembra utile, per capire questo richiamo, partire dal punto in cui il Papa esorta a fare unità, senza scadere nell’uniformità: solo così, infatti, il carisma ricevuto potrà essere vissuto personalmente e nello spesso tempo condiviso responsabilmente.

Unità nella diversità, dunque. Evidentemente il problema è duplice: da una parte, bisogna che una comunità si riconosca intorno a qualcosa che unisce; dall’altra, bisogna che questa unità non sia uniformità, e siano rispettate le diversità.

Per dipanare la questione la sapienza cristiana conosce una regola d’oro, attribuita a S. Agostino: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (“unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte”).

La regola dice che intorno alle cose necessarie, quelle che fondano la comunità, deve esserci unità, mentre per le altre deve esserci rispetto per le diversità. Perché, sia chiaro, non tutte le diversità sono tollerabili in una comunità: altrimenti non esisterebbe affatto una comunità, ma una massa qualsiasi di persone, senza una comune identità. Se parliamo di comunità, le diversità tollerabili sono quelle che non toccano i princìpi fondamentali, vale a dire il pilastro che costituisce l’identità stessa della comunità.

Il problema viene fuori quando, invece, si tollera la diversità sulle cose fondamentali, e si chiede di fare unità intorno a quelle dubbie, opinabili, o addirittura erronee; e su queste non viene tollerata diversità. Si pretende allora di fare unità intorno ad un falso pilastro, che non è il fondamento vero della comunità; e questo mette in crisi la stessa comune identità. E sembra proprio questo il punto sul quale, stando alle indicazioni sia del Papa, sia di Farrel, sia di Prosperi, ai membri di CL è ora chiesta “conversione”.

Su quale sia il vero pilastro intorno al quale fare unità è stato già detto molto, anche in questo blog. Ma qual è il falso pilastro?

Innanzitutto, c’entra senz’altro la problematica del carisma. Il Papa, nel suo discorso, parla della necessità di un “discernimento critico di ciò che ha limitato la potenzialità feconda del carisma di don Giussani”, per “riconoscere e correggere le modalità fuorvianti” di viverlo. Il card. Farrell, alludendo a queste parole, dice, nell’incontro con la Diaconia centrale nel pomeriggio del 15 Ottobre, che esse “ci invitano a conversione, ci chiedono di invertire la rotta che stiamo seguendo”[2]. Farrel rinvìa evidentemente alle severe parole della sua lettera del 10 giugno[3], dove parlava di una “appropriazione” e di una “personalizzazione” del carisma da parte dei responsabili, da cui deriva una inammissibile “autoreferenzialità” all’interno della Chiesa. Parole che, a loro volta, riprendono quasi alla lettera quelle della Nota esplicativa al Decreto Generale dell’11 giugno 2021 del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita[4], in cui si riscontrano, a carico di chi è chiamato a governare, “forme di appropriazione del carisma, personalismi, accentramento delle funzioni nonché espressioni di autoreferenzialità”. Si rivolge, dunque, un invito a correggersi a chi ancora ritenesse che vi sia un interprete unico e insindacabile del carisma che viene perciò partecipato al gruppo per affiliazione al capo, piuttosto che per docilità all’unico Maestro. Evidentemente, intorno ad un carisma così governato non si può fare unità, perché esso favorisce piuttosto, continua la Nota, “gravi violazioni della dignità e della libertà personali e, finanche, veri e propri abusi”, e “crea inevitabilmente conflitti e tensioni che feriscono la comunione, indebolendo lo slancio missionario”.

In proposito, il Papa, nel suo discorso del 15 Ottobre, sostiene che l’unità va fatta intorno alle autorità, del movimento e della Chiesa. In realtà, questo vale solo in seconda battuta, se è vero, come abbiamo appena visto, che intorno a certe modalità di governo non cresce unità. L’unità, quella che salvaguarda legittimamente le diversità, va fatta innanzitutto intorno a Cristo, proprio Lui, e non “semplicemente” intorno ad un suo mediatore umano. Lo diceva Davide Prosperi nella sua Introduzione all’Assemblea internazionale dei Responsabili del 26/8[5] e lo stesso Papa Francesco lo ribadisce nel suo discorso, quando fa capire, citando l’omelia di Ratzinger alle esequie di don Giussani, che la sua grandezza di educatore sta nel fatto che non voleva attirare a sé, ma a Cristo. Ma, soprattutto, il Papa lo afferma chiaramente nel suo discorso del 2015. Diceva allora: “ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. Tutta la spiritualità, tutti i carismi nella Chiesa devono essere “decentrati”: al centro c’è solo il Signore!”[6].

I termini, allora, sconcertarono non poco: perché, a rigore, dal carisma non ci si “decentra”: se il carisma viene dallo Spirito di Cristo bisogna andarci a fondo per trovare Cristo; infatti, adesso, dopo 7 anni, il Papa dice esattamente questo, che il problema non è il carisma, ma il modo errato di interpretarlo, di viverlo. L’accento però, in effetti, cadeva, anche allora, proprio sulla degenerazione tipica che una visione distorta del carisma produce nella comunità: si mette al centro non Cristo, ma il carisma, cioè il modo contingente in cui Cristo si comunica: “il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo”… Cioè, in poche parole, e qui arriviamo al secondo punto, si mette al centro l’appartenenza identitaria alla compagnia, la sua “attrattiva”. Il carisma risolto nell’appartenenza alla compagnia: questo specificamente è, dunque, quello che viene indicato come il falso pilastro. Ci si attacca non alla fonte del carisma, che è lo Spirito di Cristo, ma al modo umano in cui Cristo mi raggiunge; non al contenuto, ma al metodo, non al donatore, ma al dono, non al volto divino, ma al volto umano. Una possibilità, bisogna dire, che è sempre a rischio della libertà di ciascuno, a prescindere da chi guida.

Ora, guardare il volto umano attraverso cui Cristo ci raggiunge è indispensabile, ma non ci si può fermare lì, perché esso è via a Cristo stesso, e Cristo è la via che conduce al Padre[7]. A proposito di questo, Giussani diceva: “la prima condizione [per vivere i rapporti] non è l’attrattiva, ma il perdono. Perché l’attrattiva – come dice il mio carissimo amico Leopardi – sta dietro la faccia, è qualcosa che sta dietro la faccia” (cioè è di Cristo)[8]. L’attrattiva della compagnia va bene, quando c’è: e c’è e perdura nella misura in cui ciascuno realizza in sé l’unità con Cristo, perché ultimamente l’attrattiva è di Cristo, non della “faccia” che Lo veicola; o lo è anche di quella, ma nella misura in cui Lo veicola[9]. E, a proposito della sorgente dell’unità, già nel 1975 Giussani diceva: “Il metodo stabile di vita è l’unità di sé e l’unità con gli altri. L’unità di noi stessi la troviamo nell’unità con Cristo (…); e l’unità con gli altri ne è una conseguenza, conseguenza pura di questo”. E aggiungeva: “ma l’unità con Cristo è condizionata alla modalità con cui questa presenza si rende sensibile (…), vale a dire la vita della comunità in quanto realizza il mistero di Cristo”[10]. In quanto: perché può accadere, appunto, che ciò non avvenga. Ed è già accaduto, in modalità diverse, nella storia di CL. Tra il 1975 e il 1976 Giussani riprende più volte il movimento da lui fondato, dopo aver pensato addirittura di abbandonarlo, perché aveva sostituito la Presenza con l’utopia: così era diventato un’associazione che non si fondava su Cristo, e perciò non generava personalità adulte[11]. E nel 1993, rendendosi conto che la compagnia stessa era diventata l’utopia che ha sostituito la Presenza, Giussani scatta: “della vostra compagnia io me ne infischio!”. E la deriva (favorita secondo Giussani, si badi, dal cedimento al clima culturale dominante) era stata indotta da accentuazioni personalistiche che avevano fatto della compagnia il termine ultimo al posto di Cristo[12].

Vale la pena di considerare alcuni fattori ed alcuni effetti di questo sbandamento, per poter meglio prenderne le distanze. Il fattore più insidioso è la perdita della dimensione vissuta della Trascendenza, che porta a risolvere il Mistero nel segno, facendo di quest’ultimo un idolo. Per questa via, si arriva a “sequestrare” Cristo nel carisma, e il carisma nella compagnia, fino a mettere quest’ultima al posto del sacramento[13]. Ciò conduce all’autoreferenzialità della compagnia, perché porta a ritenere che l’appartenenza (sociologica e associazionistica) al gruppo vale più della fede (e della corretta intelligenza della fede, quella che genera vitalità e cultura). Questa mentalità chiude invece di aprire, e spinge alla divisione, anche interna, perché, di fatto, seleziona le persone in base a categorie sociologiche e pratico-affettive (per esempio, il grado di attrattiva vissuta per la compagnia), mentre quello che realmente conta è l’adesione a Cristo, quale ci è proposto dal depositum fidei, e il rapporto personale con Lui[14]. Un altro effetto della mentalità autoreferenziale è che, invece di elevare l’orizzontale col verticale, il naturale col sovrannaturale, appiattisce il sovrannaturale sul naturale; e questo, prima o poi, porta anche alla progressiva perdita della capacità di giudicare la storia a partire dalla fede, perché, tralasciando la dimensione ontologica e verticale, una comunità si ritrova con una fede che non genera più cultura, e si mette al séguito della cultura vigente. Giussani, su questo, è stato chiaro fino all’ultimo: per lui, l’unità è innanzitutto ontologica, di ciascuno di noi con Dio, in Cristo; una unità da vivere nella preghiera, intesa come domanda di essere rivolta a Dio quale origine del tutto, e nella coscienza a ciò correttamente formata. È da questa unità originaria che deriva anche l’unità fra noi, e la fraternità fra gli uomini, come anche la capacità di generare in ambito sociale, culturale e politico[15].

Il ruolo della compagnia è bensì fondamentale per la crescita nella fede, ma non basta che la compagnia abbia l’etichetta di CL. La compagnia cristiana, come ben ha sottolineato Mauro-Giuseppe Lepori in continuità con Giussani, è una compagnia di persone unite nella verifica che Cristo è tutto per il cuore dell’uomo, e dunque può assolvere il suo compito nella misura in cui ciascun membro di essa è impegnato in questa verifica, cioè nel vivere e nel testimoniare che per lui Cristo è l’”unica cosa necessaria”, e questo impegno è riconosciuto come la ragione dell’unità della compagnia[16]. Altrimenti, la compagnia si edifica su un pilastro falso (per esempio quando idolatra se stessa), e questo la porta fuori strada: crea divisione e le fa perdere la capacità di giudicare la storia, e anche se stessa, a partire dalla fede. Se, invece, la compagnia è riunita intorno all’”unica cosa necessaria”, da quella essa ricava anche il modo e il criterio corretto per giudicare tutto il resto, anche se stessa.

Beninteso, riunirsi intorno all’”unica cosa necessaria” non vuol dire aderire sentimentalmente ad una qualsiasi rappresentazione di Cristo. L’adesione affettiva a Cristo è decisiva, ma deve provenire da una fede vissuta con l’intelligenza. Da una coscienza ben formata. Il Cristo che ci viene indicato è quello di Nicea, e dietro di Lui c’è tutto il catechismo, fino alla dottrina sociale della Chiesa.

Mi sembra, in conclusione, che dai testi indagati emerga una convergenza significativa su qual è il punto sul quale il movimento di CL è invitato oggi a fare “discernimento critico”. Il carisma non può risolversi nell’appartenenza alla compagnia. La compagnia, come diceva Giussani, serve a far scoprire che dietro di essa c’è Qualcosa d’altro da sé. Di realmente altro da sé. “Allora avviene il passaggio – e guai se non avviene –: questo Qualcosa d’altro incomincia ad assumere una imponenza che supera anche quella della compagnia; allora la compagnia diventa stabile, sicura”[17].

 

Note: 

[1] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/october/documents/20221015-comunioneeliberazione.html

[2]http://www.laityfamilylife.va/content/dam/laityfamilylife/News/2022/Diaconia%20CL%20-%20Saluto%20del%20Prefetto_15ott2022.pdf

[3] https://www.fraternita.comunioneliberazione.org/Documenti/it-IT_DOC_Lettera%20Card.%20Farrell%20%2010%20Giugno%202022_ITALIANO_20220610_CardFarrell.pdf

[4] https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/06/11/0375/00817.html

[5] https://it.clonline.org/cm-files/2022/09/05/dp-introduzione-air-2022.pdf

[6] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/march/documents/papa-francesco_20150307_comunione-liberazione.html

[7] “Si può dire che il carisma è il volto umano attraverso cui l’avvenimento di Cristo ci è venuto incontro, affascinandoci (…) Ma questo fascino iniziale è appunto inizio, cioè il punto di partenza di un cammino, non punto di arrivo (…) Se non si arriva qui, se il fascino umano di chi abbiamo incontrato non ci porta fin qui, cioè a conoscere sempre meglio e dare sempre più facilmente del Tu a quel «biondo uomo» – come osava chiamarlo Giussani, quasi a darci la viva percezione dei tratti inconfondibili della persona di Gesù –, quell’uomo che è Dio fattosi uomo “per me”, allora è come se quel fascino stesso fallisse il bersaglio” (Da dove ripartire. Appunti dall’introduzione di Davide Prosperi all’Assemblea internazionale responsabili di Comunione e Liberazione, § 3; https://it.clonline.org/cm-files/2022/09/05/dp-introduzione-air-2022.pdf). Riprenderò diffusamente questo intervento di Davide Prosperi perché, in part. dal §1 al §3, mi sembra corrispondere perfettamente alle parole del Papa e centrare esattamente il punto di cui ci stiamo occupando.

[8] Luigi Giussani, L’opera del movimento (1982); ed. S. Paolo, 2011, p. 113; ora in: Una strana compagnia, BUR, 2017, p. 103.

[9] Cfr.: “Questa mi pare, dunque, la prima grande parola che il Signore ci ha detto e ci sta dicendo attraverso “i recenti scossoni” inflitti alla barca della nostra compagnia, una parola che è in realtà una domanda: «Ma voi a cosa siete aggrappati veramente?». O, più precisamente: «Che cosa vi è in assoluto più caro nell’esperienza del movimento?» (…) Quello che abbiamo di più caro nel movimento è Colui che di questa vita è origine, fonte e consistenza, cioè Gesù Cristo. Se siamo così affezionati a don Giussani – e lo siamo accanitamente! –, è proprio perché nessuno come lui ci ha reso familiare Cristo, ci ha fatto sperimentare la corrispondenza tra la realtà di Cristo e l’attesa profonda del nostro cuore, della nostra umanità. Allo stesso modo, se siamo così affezionati a tutti quei figli del Gius che ci hanno introdotto all’esperienza del carisma di CL (…), è perché attraverso di loro, i loro occhi e la loro voce abbiamo potuto incontrare lo sguardo e la voce di Colui che ha cambiato loro la vita, cioè in ultima analisi quell’uomo di Nazareth, che unico può dire di sé: «Io sono la Vita della tua vita». (D. Prosperi, Da dove ripartire, cit., § 1).

[10] Luigi Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), BUR, 2006, p. 9.

[11] All’inizio del 1975, al Consiglio nazionale di CL, Giussani confida di sentirsi emarginato e di pensare di mollare il movimento, che per lui era in quel momento un’associazione che non si fondava su Cristo; perciò, non generava personalità adulte e a lui non interessava continuare a seguirla (Alberto Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano, 2013, p. 485).

Il 6/9/1975, alla vacanza del CLU, interviene con le parole sopra riportate: “Non abbiamo bisogno di qualcosa che cambi le mie azioni, ma di qualcosa che cambi la mia persona. Ciò che è in questione è la vocazione della mia vita: un’identità cosciente e stabile. E il metodo stabile di vita è l’unità di sé e l’unità con gli altri. L’unità di noi stessi la troviamo nell’unità con Cristo. L’identità stabile e consapevole è nel mio rapporto con Cristo. Infatti, «dove non c’è tempio non ci sono dimore». Che vuol dire: trovare l’unità di sé coincide con il maturarsi dell’unità con Cristo; e l’unità con gli altri ne è una conseguenza, conseguenza pura di questo. Ma l’unità con Cristo è condizionata alla modalità con cui questa Presenza si rende sensibile, cioè al corpo in cui si rivela, vale a dire la vita della comunità in quanto” [e nella misura in cui!] “realizza il mistero di Cristo. Perciò, seguire la comunità è il metodo con cui incrementare il rapporto con Cristo, e quindi la propria identità e l’unità con gli altri (Giussani, Intervento alla vacanza CLU di Campitello di Fassa, 6/9/1975; rip. in Luigi Giussani, Dall’utopia alla presenza: (1975-1978), Rizzoli, Milano, 2006, p. 9).

Il 12/9/1976, ad una assemblea di adulti a Milano, prorompe: ““Dio è tutto e il resto è (…) nella misura in cui riconosce il rapporto con Dio. Se non cresce in noi questa esperienza di vita (…) non cresce l’adulto, ma prevale quel volto associazionistico che nulla ha a che fare con una realtà di vita” (A. Savorana, op. cit., p. 486).

All’équipe del CLU di Riccione del 30/9-2/10 1976 Giussani disse che bisognava che il movimento tornasse a scegliere la Presenza, che era stata sostituita dall’utopia (A. Savorana, op. cit., pp. 477-482). La Sua Presenza, non la nostra presenza! Cesana ricorda che al suo intervento, in cui stava insistendo sulla necessità di essere presenti, di intervenire, ecc…, Giussani reagì dicendo: “No! (…) La consistenza dell’io sta “nella libertà dell’uomo di fronte all’essere, che è la cosa che si decide un attimo prima di tutto e che è la ragione vera di quello che siamo” (Riccione 1976; rip. in A. Savorana, op. cit., p. 477). Camisasca riporta: “No! Si decide tutto un attimo prima, perché quello che vale è la tua vita decisa per Cristo (…) Ma a voi di Cristo non ve ne frega niente” (Massimo Camisasca, Comunione e liberazione, vol. 2, ed. San Paolo, 2003, Cinisello Balsamo (MI), p. 385). Segue la decisione e l’azione per riformare il movimento creando un “movimento nel movimento” a partire dagli universitari (Cesana, Cioni, Feliciani…) che si ritrovano nelle sue posizioni e intorno alla sua persona (ivi, p. 373; cfr. ivi, pp. 379-390).

[12] Così ricostruisce Savorana: “Tra ottobre novembre Giussani compie un affondo su una questione che lo preoccupa da qualche tempo e che traduce con parole forti: “della vostra compagnia io me ne infischio!” L’espressione gli esce dalla bocca durante un raduno di responsabili degli universitari di Milano, il 13 ottobre 1993. Pronunciata quella frase, si alza e se ne va. Giussani, ricorda Di Martino, aveva notato l’emergere e il persistere in taluni gruppi di universitari di certe accentuazioni personalistiche e di uno sbilanciamento indebito sulla compagnia, che faceva di essa, di fatto, il termine ultimo. Perciò interviene, cogliendo, come sempre, una deriva interna anche come segno di una situazione culturale e sociale generale. “Era uno dei primi raduni della diaconia centrale del CLU dopo la pausa estiva. Alla fine di un dialogo senza sconti disse quella frase perentoria”. Giussani parla dell’accaduto il giorno dopo durante una conversazione in una casa di Memores domini. Gli universitari gli avevano domandato come mai li stava mettendo in guardia dal pericolo dell’utopia” (A. Savorana, op. cit., p. 899). Ecco alcuni stralci di quella conversazione: “Mi hanno domandato: «Come mai proprio adesso tu ripeti l’Equipe del ‘ 76, quando hai detto: “Noi non vogliamo affermare una nostra ideologia; il nostro scopo non è una utopia – cioè una nostra ideologia, un nostro modo di concepire l’uomo e l’evoluzione sua nella storia -, ma il nostro scopo è quello di affermare una presenza”? Come mai adesso ci ripeti queste cose? Dov’è che noi adesso affermiamo un’utopia? Dopo il sessantotto era l’utopia marxista, adesso che utopia abbiamo?» «L’utopia della vostra compagnia. Tutti parlano di compagnia o – nel migliore dei casi – di amicizia, come laicamente si parla di Stato, si parla di sindacato… Adesso sembra, tante volte, che noi mettiamo la nostra speranza nella compagnia, in una compagnia. E l’ideale di questa compagnia è quella di essere sentita come amicizia. Non è affatto per creare una compagnia che noi siamo qui! Noi creiamo una compagnia non per creare una compagnia, noi creiamo una compagnia non per creare un’amicizia, ma per affermare una Presenza, una Presenza che è in questa compagnia. Perché [siccome l’ora era finita e dovevo andare via, ho terminato dicendo in modo brutale] della vostra compagnia io me ne infischio»”. Poi però, pressato dalla reazione incredula delle Memores (“non puoi infischiartene!”) precisa: “Allora, se la compagnia fosse fatta così, come tante volte nelle case del Gruppo Adulto è fatta, non è di quella compagnia che io mi interesso: mi interesso di un altro tipo di compagnia, che, più o meno forzosamente, tenterei di inoculare, sostituendola a quella decadente che vivono. (Luigi Giussani, Una presenza che cambia, BUR, Milano, 2004, pp. 12, 13). È significativo il modo in cui Giussani affronta il problema, che è lo stesso del ’76: il giudizio netto rimane, e con esso il rifiuto di accettare la deriva della compagnia, ma il rimedio non è l’abbandono di essa, bensì un nuovo inizio, una rifondazione della compagnia a partire dalle sue vere fondamenta. E questo avviene attraverso la sua persona, cioè attraverso un “io” unito con Cristo. Ciò conferma quanto diceva nel 1975, e che ripete in diverse altre occasioni (p. ex. ne “il rischio educativo”, negli Esercizi del 1997, ecc…): la partenza è nell’ontologia, e la compagnia tra di noi non è che è una conseguenza dell’unità che ciascuno ha realizzato in sé con Cristo. Se questa unità personale con Cristo è disattesa da molti, la compagnia cessa di affermare questa Presenza, e di aiutare ciascuno a viverla; dovrà perciò essere sostituita, o rifondata a partire da un “io” unito con Cristo.

[13] Cfr. Prosperi: “E’ normale che all’inizio il segno fascinoso attraverso cui il Mistero mi è venuto incontro sia più affettivamente imponente, più affettivamente coinvolgente che neanche il Mistero di cui il segno è segno. Ma se nel tempo le cose non cambiano, se cioè non avviene quel passaggio che Giussani qui descrive, il passaggio per cui «Gesù diviene più importante delle facce» di quelli a cui pur devo la vita (perché mi hanno portato a Lui!), allora cominciano i problemi. (…) Quante volte don Giussani ci ha richiamato sulla seria possibilità di questo arrestarsi al fascino del segno! Certo, egli ci ha sempre ripetuto che è nel segno che si incontra il Mistero, fino a dire – espressione vertiginosa! – che «segno e Mistero coincidono». Ma dire che co-incidono significa dire che cadono insieme, cioè che l’Uno mi viene incontro attraverso l’altro, non che sono identici. Se si perde di vista il fatto che tra segno e Mistero c’è non solo somiglianza e partecipazione, ma anche differenza – anzi, una infinita differenza –, allora il segno smette d’essere tale e diventa idolo” (…) È stato l’incontro col carisma del movimento che mi ha reso familiare Cristo. Perciò io a don Giussani e al movimento devo tutto, letteralmente. Allo stesso tempo, più vado avanti, più capisco che c’è come un rovescio della medaglia che non è meno importante di quanto appena detto. Lo direi così: quale Cristo mi ha reso familiare l’incontro col carisma? Il Cristo di Giussani? Esiste forse un Cristo di Giussani – o un Cristo del movimento –, un Cristo di cui si può fare esperienza prescindendo dall’Eucaristia o dall’insegnamento che su di Lui mi arriva attraverso la Chiesa? Evidentemente no: il Gesù di cui Giussani mi ha fatto innamorare, è il Gesù che incontro nel modo più potente ed efficace proprio nell’Eucaristia, anche quando il prete che me la porge fosse l’uomo più antipatico o più meschino che conosco”. Prosperi, in nota 17, cita Giussani (da L’attrattiva Gesù, BUR, Milano, 1999, pp. 150-153): “Gesù tra noi (…) potrebbe essere ridotto al “ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” (…) Tu sei, Signore, colui che amo. “Che cosa più potentemente l’uomo desidera che il vero?” Che cos’è il vero? Un uomo presente, un uomo presente: non può essere dilapidato o dilavato dall’affacciarsi bello e lieto della compagnia di volti che di Lui dovrebbe essere accennato segno! Questo avviene quando gli si dice “Tu” realmente, con tutta la coscienza dell’io: quanto più si ha coscienza di sé, tanto più potente, grande, vera, semplice e pura è la devozione a Lui […]. Tale compagnia è il segno – insoddisfatto, approssimativo, analogico, perché il segno è tutte queste cose – di una realtà dell’altro mondo!” (D. Prosperi, Da dove ripartire, cit., § 3)

[14] “Ciò che qui è ultimamente decisivo non è tanto il fascino della personalità eccezionale del “carismatico”, bensì il fascino di Cristo che la persona del carismatico, anche mediante e grazie alla forza attrattiva che gli è donata, sa risvegliare in chi lo incontra e lo segue. Può sembrare ovvio, ma val la pena ridircelo (…). Ce lo siamo detti tante volte, e lo abbiamo appena ribadito: il cristianesimo si comunica per attrazione. Il problema, mi pare, sta piuttosto nel considerare questo fattore – il fattore attrattiva, diciamo – come l’unico che conta, l’unico che merita attenzione, quasi esso solo contasse nell’alimentarsi del nostro rapporto con Cristo e il nostro gusto personale – anche se magari lo chiamiamo, con accezione quantomeno approssimativa, “corrispondenza al cuore” – fosse l’unico criterio per stabilire ciò che è voce di Cristo e ciò che non lo è. Ebbene, permettetemi di dirlo: pensare questo non può che essere un inganno, una menzogna, non foss’altro per il fatto che, come abbiamo detto prima, il Cristo di cui il carisma dato al don Gius ci ha fatto innamorare non è il Cristo della sua fantasia né tantomeno quello della nostra fantasia, il Cristo delle nostre interpretazioni, bensì il Cristo che ha affidato la Sua presenza reale nella storia e la testimonianza vera su di Lui a Simon Pietro e agli apostoli, cioè, appunto, a quella realtà che chiamiamo «Istituzione»” (D. Prosperi, Da dove ripartire, cit., § 4)

[15] Cfr. Luigi Giussani, Dare la vita per l’opera di un altro (1997-2004), BUR, Milano, 2021, pp. 11-66.

[16]“Niente testimonia Cristo e che lui è Tutto per l’uomo più che una persona che gioca la sua vita nel verificare questa proposta, che cresce verificando questa proposta di Cristo al cuore, di Cristo che dice al cuore: Io sono tutto per te e per tutti! Ma ancora più di questo, o indissolubilmente legato a questo, nulla testimonia Cristo e la pienezza che è per l’uomo più di una compagnia di persone unite in questa verifica, in questa esperienza di sentirsi chiamati dall’Unico necessario a verificare che veramente il cuore e la vita non hanno bisogno d’altro che Lui. La comunione cristiana è proprio un condividere la verifica (letteralmente: il far diventare vero, reale) che Cristo è Tutto per il cuore dell’uomo. Non si può essere uniti da nulla di più prezioso, di più caro, di più preferibile. E nulla ci dovrebbe rendere più responsabili della nostra unità nei confronti del mondo intero. Perché il motivo dell’unità dei discepoli è l’esperienza che Cristo è Tutto per il cuore di ogni uomo, che Cristo è la Vita della vita di ogni uomo, e se faccio questa esperienza, così sorprendente e gratuita, che non merito, sono immediatamente responsabile verso ogni cuore umano” (Cristo, vita della vita, libretto degli Esercizi spirituali della Fraternità di CL 2022, Meditazione di P. Lepori del sabato pomeriggio, p. 53. https://it.clonline.org/pubblicazioni/altri-testi/esercizi-fraternit%C3%A0/cristo-vita-della-vita-2022)

[17] Luigi Giussani, Tu o dell’amicizia, BUR, Milano 1997, pp. 175-176. Citato da D. Prosperi in op. cit., § 3.

 

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