di Sabino Paciolla
Su questo blog ho pubblicato diversi articoli sul Sinodo dei giovani che si è da poco concluso. Ci sono stati vari aspetti che sono stati analizzati, anche in profondità. Di uno non avevo ancora parlato, la comunicazione, che è contenuto nel paragrafo 146 del Documento finale. Esso ha avuto una certa risonanza nel mondo della comunicazione, anche a livello internazionale.
Per chiarezza, riporto quanto è stato scritto dai padri sinodali nel paragrafo 146:
Il Sinodo auspica che nella Chiesa si istituiscano ai livelli adeguati appositi Uffici o organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale, che, con l’imprescindibile contributo di giovani, promuovano l’azione e la riflessione ecclesiale in questo ambiente. Tra le loro funzioni, oltre a favorire lo scambio e la diffusione di buone pratiche a livello personale e comunitario, e a sviluppare strumenti adeguati di educazione digitale e di evangelizzazione, potrebbero anche gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici, per contrastare la diffusione di fake news riguardanti la Chiesa, o cercare le strade per persuadere le autorità pubbliche a promuovere politiche e strumenti sempre più stringenti per la protezione dei minori sul web.
Quello che ha destato una certa attenzione è stato il passaggio in cui si propone di istituire “ai livelli adeguati appositi Uffici o organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale” che si occupino, tra l’altro di “gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici, per contrastare la diffusione di fake news riguardanti la Chiesa”.
Il motivo dell’attenzione è presto detto, questi “Uffici o organismi per la cultura” fanno venire in mente brutte ombre del passato, poiché fanno pensare ad uffici, organismi, apparati che controllano, vagliano, analizzano ed, infine, impartiscono ordini di autorizzazione alla pubblicazione di materiale informativo. In poche parole, alcuni hanno pensato ad una sorta di “censura”.
Non si è capito precisamente come e perché una tale materia sia stata inserita in un documento del Sinodo dei giovani. Alcuni paventano l’ipotesi che, come è avvenuto per le parole “giovani LGBT”, inserite nell’Instrumentum laboris senza che i giovani lo avessero richiesto, anche per questo tema sia avvenuta la stessa cosa, e cioè che qualcuno lo abbia inserito nel Documento finale senza che dai giovani sia venuta alcuna indicazione.
E’ certo che lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione di massa, che ha subito negli ultimi tempi una radicale rivoluzione, ha prodotto una accelerata “democratizzazione” della produzione e condivisione dell’informazione, fino a mettere in discussione la figura stessa del giornalista professionista. Sono dunque sorti numerosi siti e blog, più o meno interessanti, più o meno autorevoli, facenti parte della cosiddetta blogosfera, che producono una miriade di informazioni, notizie e analisi. E’ da questo mondo che sono sorte critiche che potrebbero aver preoccupato alcune figure o organismi della Chiesa cattolica istituzionale.
Si può capire la preoccupazione, ma è difficilmente condivisibile la soluzione a questo problema. Data infatti la complessità e la vastità del fenomeno, diventa difficile anche solo immaginare la soluzione prospettata nel paragrafo 146.
Per questo sorgono tante domande. Ad esempio: davvero il Vaticano avrebbe tanti mezzi ed energie da spendere per questo fine? Posto che li avesse, ne varrebbe la pena? Ma il Vaticano ha la cognizione di quanto sia vasta la blogosfera, di quanti siti e blog nascono e muoiono? Di quante linee “editoriali” vi siano e di come variano nel tempo? A chi potrebbe interessare il “bollino” o la certificazione? Si pensa veramente che i giovani prima di aprire un link di una notizia su Facebook, su Twitter o altro, si fermino un attimo, vadano prima sul sito del Vaticano a compulsare la lista dei siti “certificati” cattolici, e poi ritornino sulla pagina Facebook ad aprire la notizia? Si pensa veramente che si darebbe più importanza alla certificazione piuttosto che al contenuto della notizia? Si immagina veramente che i giovani, che come dicono le ricerche stanno confluendo in massa sempre più verso le piattaforme dominate dalle immagini, tipo Instagram, siano interessati alla certificazione dei siti che si troverebbe, si immagina, sul sito del Vaticano che, forse, la stragande maggioranza di essi non hanno mai visitato? E’ minimamente ragionevole che accada una cosa del genere? Potrei sbagliarmi, ma a me pare francamente impossibile.
Inoltre, non è immaginabile che nell’era della comunicazione globale digitalizzata istantanea il Vaticano voglia assumersi l’onere di passare per un ente che abbia la pretesa di stabilire un controllo su qualcosa che, per altro, è impossibile controllare in uno Stato democratico . Una tale azione non sarebbe auspicabile, soprattutto per l’immagine, meglio, per la cattiva immagine (attuare un tentativo censura preventiva) che ne deriverebbe.
Come è mai possibile immaginare che il Vaticano dia la certificazione ad un sito il cui indirizzo editoriale potrebbe poi cambiare in qualsiasi momento? Un sito, come noto, potrebbe pubblicare l’articolo del suo responsabile, ma anche il contributo di terzi. Le sfumature di pensiero potrebbero dunque essere tante e variegate, e potrebbero cambiare durante il giorno o, addirittura, durante la singola ora. Come è mai possibile pensare nell’era digitale ad una sorta di “imprimatur digitale”? Si ricorderà infatti la locuzione latina Nihil obstat quominus imprimatur, che tradotta letteralmente significa: “non esiste alcun impedimento al fatto che sia stampato”. Era un’espressione coniata nel 1515 ed utilizzata dall’autorità a ciò preposta dalla Chiesa cattolica per autorizzare la stampa di libri. Ma oggi, un sito o un blog possono essere lontanamente paragonabili ad un libro? Evidentemente no.
Non è neanche chiaro dal testo del paragrafo 146 quale sarebbe lo standard da applicare affinché un sito o un blog possa avere una tale certificazione, né quale organismo potrebbe essere incaricato di effettuare un tale controllo e rilasciare la relativa certificazione.
Si potrebbe ipoteticamente immaginare che una tale certificazione sia necessaria per alcuni siti istituzionali come quelli, ad esempio, delle conferenze episcopali, diocesi, ordini religiosi, parrocchie, ecc. Ma in questo caso la certificazione è, o dovrebbe essere, già implicita. Non c’è bisogno che venga apposta e mostrata in bella vista sul sito. Concedere, ad esempio, la certificazione al sito di una Conferenza Episcopale equivarrebbe ad apporre la certificazione alla Conferenza stessa. E’ qualcosa che non ha senso.
Infine, si pone il problema del contenuto dell’informazione veicolata o elaborata dal sito o dal blog. E anche a questo proposito sorgono numerose domande. Ne riporto solo alcune.
Riportare, ad esempio, voci critiche ma autorevoli sul cambiamento dell’insegnamento della Chiesa sulla pena di morte, un insegnamento che è stato costante per 2000 anni, come sarebbe considerato? Criticare un approccio “largo” all’accoglienza di flussi immigratori irregolari come verrebbe considerato? Riportare, criticandola, la notizia della proposta avanzata dal vicepresidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Franz Josef Bode, della benedizione delle coppie omosessuali da parte della Chiesa, sarebbe considerato in linea con una eventuale certificazione o no? Criticare certe “pastorali LGBT” sarebbe in linea con un ipotetico standard? Criticare la decisione presa dalla segreteria dell’Incontro Mondiale delle Famiglie di invitare (solo lui) padre James Martin, sostenitore della “pastorale LGBT”, quale relatore all’Incontro Mondiale delle Famiglie in Irlanda dello scorso agosto, come sarebbe considerato? Riportare la notizia e criticare l’operato di mons. Dario Edoardo Viganò sarebbe considerata una attività in linea con gli standard o meno? Si ricorderà, infatti, che Viganò all’epoca era prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede. A marzo scorso volle spacciare una lettera privata di Benedetto XVI per un suo appoggio al papato di Francesco, una lettera che invece aveva tutt’altro oggetto, poiché semplicemente declinava l’invito fattogli di scrivere la prefazione ad una collana di volumetti che dovevano celebrare i primi cinque anni di pontificato di papa Bergoglio. Tale azione portò poi alle dimissioni di mons. Edoardo Viganò dal ruolo di prefetto. Riportare dunque una fake news prodotta dalla Segreteria per la comunicazione della Santa Sede sarebbe considerata un’azione secondo lo standard auspicato o no?
Come si vede, la questione di creare Uffici o organismi finalizzati a “gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici” è alquanto delicata, il campo è minato, la prudenza è d’obbligo.
Piuttosto che pensare ad un controllo, alcuni direbbero ad una “censura”, di siti e blog, la cosa migliore che invece si dovrebbe fare è quella di salvaguardare, anche con i mezzi della comunicazione digitale, l’Insegnamento della Chiesa come ci è stato tramandato lungo tutta la Tradizione bimillenaria della Chiesa. Tale insegnamento diventerebbe LO “standard”, LA vera “certificazione” contro, ad esempio, i “registratori” del Superiore Generale dei Gesuiti, Arturo Sosa Abascal, contro le benedizioni delle nozze omosessuali proposte da mons. Franz Josef Bode, contro tanta “pastorale LGBT” che, di fatto, vuole rivoluzionare quanto la Chiesa ha sempre insegnato.
Per questo, auspico che il Documento finale del Sinodo dei giovani, ora all’attenzione di Papa Francesco, venga emendato, insieme ad altro, anche del paragrafo 146.
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