1. La morte degli dei

 

Il tempo della povertà.

Perché la poesia? E, soprattutto, perché la poesia oggi? Questa è la domanda che si impose più di due secoli fa all’attenzione dei poeti, grazie all’intuizione di Friederich Hoelderlin. La domanda che espresse nell’elegia Pane e vino, composta nei primi anni dell’Ottocento, immediatamente prima che il poeta tedesco precipitasse in un lungo periodo di follia, che durerà dal 1806 al 1843, anno della sua morte. Una domanda ancora urgente con cui dobbiamo di nuovo tentare di confrontarci.

Il giovane poeta, in cui si univano l’amore struggente per la classicità greca, il cristianesimo e un profondo senso di comunione con la natura, vedeva nell’epoca della Rivoluzione francese l’alba di una nuova umanità: “questa è la mia più dolce speranza, la fede che mi dà forza e operosità, che i nostri discendenti saranno migliori di noi, e la libertà dovrà un giorno venire”, “amo il popolo dei secoli che verranno”. Così scriveva in una lettera ad un amico nel settembre del 1793. Ma ben presto sopraggiunsero gli anni della Restaurazione e soprattutto gli anni in cui la Germania diveniva la “folle officina” di una società industriale, in cui trionfava il sapere tecno-scientifico. I Tedeschi, constatava Hoelderlin, non sono che “operai, pensatori, sacerdoti ma non uomini”. La natura ed anche la dimensione del sacro, gli dei, sono irrimediabilmente perduti. Al poeta non rimane che scendere tra le ombre, come Orfeo, per vivere e attendere.

L’elegia Pane e Vino comincia con la descrizione della città che si prepara al riposo. Arriva la notte, “la fantastica notte/ che è ricca di stelle e di noi non si cura”. “Nell’oscurità del nostro tempo insicuro”, la notte ci dona “la parola fluente che sempre veglia”, la parola che ci consente di accedere al fuoco divino, alla gioia. Eppure, questa gioia è confinata nel passato, nella Grecia “dimora di tutti i Celesti”, dove “nessuno sopportava da solo la vita”. Lì è dove “gli dei prendono dimora”, dove gli uomini “s’abituano alla gioia, al giorno, a vedere svelati gli dei”. Oggi quell’epoca è spenta, “Tebe, Atene appassiscono” e nessun dio suggella più la fronte dell’uomo, nessun dio marchia più chi incontra. La divina follia della poesia è ormai impossibile. “Tardi, amico, giungiamo”, dice il poeta, perché non vi è più alcuna pienezza divina da sopportare. Oggi forse è meglio dormire, piuttosto che “essere senza compagni e attendere”. “E non so intanto che dire che fare e perché vi siano poeti nel tempo della povertà”. Viviamo in un tempo dell’attesa, scrive Hoelderlin. Forse un giorno gli eroi ritorneranno, ma intanto, in questo tempo, la poesia sembra aver smarrito il proprio senso. Se era la poesia a garantire il contatto con il Sacro, con la gioia e l’ebbrezza divine, scomparsi gli dei, che senso hanno più i poeti?

 

“Piacer figlio d’affanno”

La stessa terribile consapevolezza della fine di qualunque possibilità storica per la poesia è affermata in Italia da Giacomo Leopardi, ma senza nemmeno più la prospettiva dell’attesa, ancora così viva in Hoelderlin. La gioia, la divina felicità che nasceva dal contatto con gli dei, di cui il poeta era tramite, di cui la parola poetica era garanzia, non è più possibile, secondo leopardi. Nell’idillio La quiete dopo la tempesta la festosità della prima strofa, il tripudio di immagini, suoni, colori, la scena di un’umanità che ritorna felice a riabitare le strade del borgo, viene del tutto capovolta e negata dalle strofe successive; per il fatto che, adesso, la felicità è possibile soltanto nei termini di una filosofia utilitaristica e materialistica, secondo cui essa nasce semplicemente da un benessere fisiologico, ovvero da una banale e oggettiva cessazione della sofferenza. Ecco il misero surrogato della gioia che la civiltà della tecnica è in grado di offrirci, l’unica forma morale possibile: “piacer, figlio d’affanno”. Ma se la felicità è una semplice cessazione del dolore, in sé stessa non esiste, non ha alcuna realtà. Tutto, infatti, nella prima strofa, è falso, è inconsistente: quella felicità che era in apparenza così vivida, non ha più alcuna possibilità di esistere, di essere celebrata dalla poesia, è come uno di quegli idilli di maniera dipinti sulle volte delle case patrizie. In questo modo, Leopardi sembra suggellare la fine di qualunque possibilità per la poesia, che non sia la dolorosa attestazione della sua fine.

Ma se con Hoelderlin e Leopardi la povertà riguardava la perdita irrimediabile degli dei e delle illusioni antiche, ritenute il presupposto essenziale per la possibilità della poesia, il nostro è un tempo in cui ben altri presupposti essenziali sembrano essersi eclissati. E quindi importante, adesso, domandarsi quale sia la dimensione della povertà raggiunta dal nostro tempo, e se la poesia ancora di più sia impossibile. Dopo la morte degli dei il passo successivo, infatti, compiuto nel secolo scorso, è stato quello della morte dell’uomo.

 

  1. La morte dell’uomo

 

L’uomo è antiquato

È questo il titolo dell’opera di Gunther Anders, nella quale il filosofo porta alla luce della riflessione un aspetto della coscienza dell’umanità attuale. Un fenomeno sconcertante, da lui battezzato con l’espressione “vergogna prometeica”. Di fronte alle macchine da lui stesso costruite l’uomo ha sentito sempre più crescere un senso di vergogna, una vergogna indirizzata al suo stesso essere uomo. L’uomo si vergogna innanzitutto di essere generato, di nascere, invece di essere fatto, come una macchina. Egli si vergogna di questa sua origine antiquata, si vergogna del risultato difettoso e immodificabile di questa origine: si vergogna di essere se stesso.

L’uomo infatti attribuisce alle cose fatte un rango superiore nella gerarchia dell’essere. Il corpo dell’uomo, in quanto prodotto della natura, nato da donna, è qualcosa di troppo determinato, troppo condizionato e limitante, rispetto alla libertà della macchina: il corpo dell’uomo partecipa a fatica ai cambiamenti del mondo dei prodotti, ai progetti tecnici già prestabiliti. È il corpo che minaccia la perfezione e la precisione dei progetti tecnici. In questo senso l’uomo deve riformarsi per “ridurre al minimo possibile il sabotaggio che egli opera”. E all’uomo non rimane altro che diventare un pezzo da lavorare e adattare alle macchine. È la macchina che oggi esige e stabilisce cosa deve diventare il corpo dell’uomo.

Lo stesso essere mortali è qualcosa di cui vergognarsi, perché la morte non è calcolabile, ci determina in modo irrevocabile. La macchina, invece, è eterna: è un modello eternamente riproducibile. E così il rendersi conto di non essere una merce eternamente riproducibile, di essere un individuo unico e irripetibile, ha sull’uomo l’effetto di un vergognoso memento mori.

Anche essere un io è motivo di vergogna. In un sistema automatizzato in cui l’uomo è ridotto a una rotella dell’ingranaggio, non vi è alcuna consapevolezza di sé. La consapevolezza di essere un io emerge solo quando il lavoro non scorre più liscio, quando non vi è più la perfetta integrazione tra uomo e macchina. Solo allora l’io si trova di fronte a sé stesso, ma come qualcosa di scandaloso: come un inetto.

Ecco, quindi, che oggi è accaduto l’impensabile: gli uomini non temono più di diventare dei semplici strumenti. Tutto il contrario: l’uomo “pensa che la disgrazia sia nelle sue limitate possibilità di essere utilizzato”. Il sommo bene è “l’utilizzabilità totale”.

 

Il traballante carro dell’arte

La conseguenza di questa vergogna prometeica è quindi l’aspirazione a superare l’uomo. A superare tutto ciò che caratterizza il nostro essere uomini. Ma ciò che è più specificatamente umano è da un lato la consapevolezza di essere mortale, e dall’altro l’aspirazione a superare questa condizione attraverso la creazione artistica.

Il saggio Homo Deus di Yuval Harari si può considerare come un’espressione, come l’esito previsto da Anders, di questa vergogna prometeica. Harari affronta, tra l’altro, il tema della mortalità dell’uomo. Il progresso tecnico e scientifico ci ha condotti a risultati un tempo impensabili. La nuova sfida, adesso, è il superamento della morte, della condizione di mortalità dell’uomo. L’impresa più importante che attende la scienza moderna è la sconfitta della morte. Infatti, a conferma del fatto che non si tratta di pura fantascienza, Harari fa osservare che nella mentalità comune la morte già da tempo viene considerata fondamentalmente come un problema tecnico: si muore, è vero, ma quasi sempre si attribuisce ciò a un errore, a un imprevisto tecnico. Se la morte è un problema tecnico, ad ogni problema tecnico corrisponde una soluzione tecnica.

Se il destino dell’uomo, in sostanza, è la sua sparizione, quello dell’arte, e quindi della poesia, è allo stesso modo un destino si estinzione. “Una larga parte della nostra creatività artistica […] trova il suo propellente nella paura di morire”. Tuttavia, “quando le persone penseranno di avere una concreta possibilità di sfuggire alla morte, il desiderio di vivere si rifiuterà di continuare a tirare il traballante carro dell’arte”.

In altre parole, il futuro che ci aspetta sarà quello del tecno-umanesimo, dell’integrazione completa tra uomo e macchina. Della trasformazione concreta degli uomini in dei, grazie al potenziamento dell’artificio tecnico. Ai quali, ca va sans dire, non occorrerà affatto la parola poetica, antiquato lascito del suo stato di minorità.

Ma come accadeva a Shigaliev, il personaggio dei Demoni di Dostoevskij il quale, partendo da premesse umanitarie e egualitarie arrivava alla conclusione paradossale che la più vera realizzazione del paradiso in terra è la trasformazione dell’umanità in una massa di schiavi felici e obbedienti agli ordini di una elite; allo stesso modo Harari conclude il suo saggio prospettando un futuro molto simile, se non ancora più angoscioso, a confronto con quello di Shigaliev: “le scoperte scientifiche e gli sviluppi tecnologici divideranno l’umanità in una massa di uomini inutili e in una piccola élite di superuomini potenziati”.

 

  • La morte della realtà

 

La fine del vecchio e antiquato concetto dell’uomo, dell’individualità, dell’io stesso, legati alla condizione della mortalità, comportano l’inadeguatezza, l’inattualità della poesia e dell’arte in genere, che proprio su quei concetti trovano fondamento. Ma oggi è necessario affrontare un altro lutto: la morte della realtà. E la realtà, l’oggettività del mondo è proprio il termine con il quale si confronta da sempre la poesia.

 

La poesia risveglia

Nei colloqui con il giovanissimo poeta Gustav Janouch, Franz Kafka esprime un giudizio illuminante sulla differenza tra la letteratura, ovvero la prosa il romanzo, e la poesia. Qual è la loro differenza sostanziale? “La poesia è condensazione, è un’essenza. La letteratura invece è dissolvimento, è un narcotico. La letteratura si sforza di porre le cose in una luce piacevole e simpatica. Il poeta invece è costretto a sollevare le cose sul piano della verità, della purezza, della durata. La poesia risveglia”.

Risveglia proprio perché la poesia tende al contatto con la verità, con l’oggettività, con la realtà delle cose. Proprio questa ricerca viene definita da Kafka come ricerca della felicità, quella felicità essenziale che caratterizza l’uomo: la conquista della conoscenza, del sapere. “La letteratura cerca la comodità. Il poeta invece è un cercatore di felicità, cosa tutt’altro che comoda”.

Eppure, a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso, anche della realtà si è cominciato a dubitare. Anche quello della realtà è divenuto un concetto antiquato. Il sociologo e filosofo Jean Baudrillard ha compreso a fondo questo fenomeno, che nasce dal fatto che tutti noi, da quando è avvenuta quella diffusione capillare dei mezzi di comunicazione che ogni giorno sperimentiamo, non entriamo più in contatto direttamente con la realtà, ma viviamo semplicemente nella costante esposizione alle rappresentazioni, alle narrazioni, dietro le quali non esiste più alcun alcun rimando ad un noumeno. Al punto che non siamo neanche consapevoli del mezzo stesso, del simulacro. Gli stessi mezzi di informazione sono talmente presenti e totalizzanti, che spariscono. In questo modo, la realtà è sparita: sperimentiamo soltanto la rappresentazione, senza postulare nient’altro al di là di essa.

Stesso destino hanno subito le cose, gli oggetti con i quali entriamo in contatto quotidianamente. Non si tratta più di cose, che oppongono a noi la loro oggettività, la loro impenetrabile opacità, ma di non-cose.

 

Le non-cose

Lo smartphone è l’oggetto che con più attenzione teniamo nelle nostre mani, che con più passione stringiamo al nostro corpo, con più apprensione cerchiamo, quando per poco ce ne separiamo. Nel libro “Le non cose” di Byung-Chul Han lo smartphone assurge al grado di prototipo della non-cosa: è la non-cosa per eccellenza. Per il filosofo una cosa, per essere tale, dev’essere dotata di una esistenza che si sottragga alla nostra presa, che si opponga a noi in modo inquietante: di un’esistenza che in buona parte sia avvolta dal mistero, come l’austero e cupo mobilio di una vecchia casa. Una cosa rappresenta ostinata alterità rispetto a noi: le cose ci costringono al confronto, alla ricerca, ci espongono al disagio della loro presenza.

Uno smartphone non è una “cosa”, nel senso sopra descritto: la sua forma piatta e liscia, completamente anonima e nuda, esprime piuttosto lo status di non-cosa. Noi stiamo sempre nei pressi dei nostri smartphone, ed essi trasformano per noi il mondo in un flusso continuo di informazioni. Lo smartphone è un infoma che allontana da noi la realtà, avvolgendola dentro un sudario di informazioni.

La verità e l’oggettività sono ormai definitivamente sorpassate. Questo è evidente. Viviamo nell’acquario della rappresentazione iper-reale, nel quale la realtà si può produrre, ma come un precipitato, un residuo arcaico del pensiero, un’abitudine dura a morire.

Ma insieme alla impossibilità della verità, diviene impossibile anche il concetto di identità. Il non-oggetto che stringiamo in mano non ci pone di fronte nessuna alterità. Quell’alterità, di fronte al cui sguardo noi possiamo acquisire consistenza, dal momento che per essere qualcosa abbiamo bisogno di qualcuno che si accorga di noi, che si rivolga a noi e ci chieda conto di chi siamo. I flussi di informazione che ci raggiungono incessantemente ci fanno vivere nella prevedibilità di ciò che ci aspettiamo e desideriamo. Descrivono semplicemente noi a noi stessi. O piuttosto, ci descrivono anticipatamente a noi stessi, ci instradano verso la corretta definizione di ciò che siamo, perché pretendono di conoscerci meglio di quanto noi ci conosciamo. E in questa pretesa, finiscono per aver ragione. Ci riempiono continuamente di quella parvenza di noi stessi che viene fuori dalla somma delle nostre scelte compiute, completamente gratuite, e dei desideri che devono ancora sbocciare, sempre più condizionabili. Le nostre identità sono come infiniti vegetali coltivati nella serra della rete digitale: tutti uguali e senza alcuna identità.

Il dito, che scivola sulla superficie piatta e liscia, sceglie tra le possibilità infinite offerte ad uno sguardo eccitato e onnivoro. Ed in questa infinità naufraga un altro bel principio etico: la libertà. Perché il dito che sceglie tra opzioni prestabilite, consentite da qualcun altro, non è la mano che afferra, che trasforma e che crea qualcosa di nuovo. A riprova di questa mutazione, provate a chiedere oggi a qualunque ragazzo che cosa sia per lui la libertà. Dopo una brevissima esitazione, vi risponderà ripetendo quello che a lui sembra ormai universalmente accettato: la libertà è poter scegliere il proprio orientamento sessuale. Non creare un mondo nuovo, o una società nuova e più giusta. Semplicemente, avere una possibilità di scelta discretamente ampia, possibilmente non gravata da pregiudizi.

Le cose non stanno che a ricordare”, scriveva un triste poeta passato di moda, Vincenzo Cardarelli. Solo quando le sentiamo ricordare la nostra esistenza, possiamo dire che le cose ci appartengono, che sono nostre.  La proprietà di una cosa dipende da quanto essa sia l’immobile testimone della nostra memoria. Quelle che invece ci offre uno smartphone sono esperienze, sempre nuove. Ma queste esperienze non sono un nostro possesso, perché appunto ci vengono offerte. Inoltre, sono estranee a qualunque memoria personale, perché la novità continua è l’esatto opposto della memoria, del ricordare. Tutto sfugge nel flusso ininterrotto del nuovo.

La memoria è uno di cardini intorno a cui ruota l’espressione poetica. Come notava Leopardi, è nella memoria che le esperienze iniziano a mostrare un significato nuovo, più profondo. È nella memoria che fiorisce il significato delle nostre esperienze.

 

  1. Stare sulla soglia del tempo

 

Sembrerebbe che adesso la povertà sia ancora più radicale rispetto a quella di cui scriveva Hoelderlin. Eppure, proprio nel momento in cui la perdita è irrimediabile, forse la poesia può recuperare il suo ruolo più autentico, più vero.

 

La parola senza destino

Il segno più lacerante della nostra attuale povertà è l’impossibilità di rivolgerci ad un futuro, di pensare un destino per l’umanità. È ciò che ha intuito Giorgio Agamben, a proposito della condizione in cui si trova oggi la parola poetica. “Noi siamo la prima generazione nella modernità per la quale questa certezza è stata revocata in dubbio, per la quale anzi appare probabile che il genere umano – almeno quello che intendevamo con questo nome – potrebbe cessare di esistere”. Siamo giunti ad una soglia, ad un limite della storia. Ma se un tempo futuro è impensabile, anche la parola poetica, che da sempre ha trovato nel futuro la propria finalità, si ritrova senza nessun tempo a cui rivolgersi. “La parola [dei poeti] deve ora fare i conti con un’assenza di destinatario non episodica, ma per così dire costitutiva. Essa è senza destinario, cioè senza destino. Ciò si può anche esprimere dicendo, come si fa da più parti, che l’umanità – o almeno quella parte di essa più ricca e potente – è giunta alla fine della sua storia”.

Eppure, in questo tempo in cui è possibile assistere alla corrosione delle idee politiche, delle fedi religiose, in cui non è più possibile progettare un futuro, ecco che la poesia può ritrovare la propria posizione: quella di stare sulla soglia del tempo storico, di guardare e comprendere a fondo questa povertà e di consegnarci al tempo dell’attesa, aperto ad un futuro privo di qualunque direzione. Un futuro come spazio vuoto, vertiginoso, al quale soltanto la poesia ci espone. Perché da sempre la poesia vive in questa soglia.

 

Rievocare la perdita

Anche Baudillard sostiene che in un tempo in cui la realtà è sparita, si è eclissata dietro le rappresentazioni, dietro il flusso continuo delle narrazioni, dietro i simulacri della realtà, l’arte stessa non sfugge al destino della erosione delle forme politiche e ideologiche. “Noi viviamo nella riproduzione indefinita di ideali, di fantasmi, di immagini, di segni, che sono ormai dietro di noi”. Tutto, ormai, ha acquistato l’aspetto di una rappresentazione estetica, artistica; ma si tratta semplicemente della riproposizione di forme culturali e estetiche già date. “Riviviamo così ogni giorno la sparizione dell’arte nella ripetizione pornografica e pubblicitaria delle sue forme”. Quindi siamo posti di fronte ad una scelta: o affondare nel nichilismo definitivo, trasformando l’arte e la poesia nella ripetizione insensata di tutte le forme della nostra cultura; oppure “resuscitiamo le apparenze del mondo per distruggerle”, ovvero ripetiamo il processo di trasformazione della realtà in forma artistica. L’arte e la poesia possono ancora recuperare quel rapporto con la realtà che la nostra cultura ha annullato.

Abbiamo perso molte cose, ma appunto il ruolo della poesia è ricordare ciò che abbiamo perduto, ripercorrere l’itinerario della perdita e ricordare, per un tempo che deve ancora arrivare, che deve eternamente arrivare.

Le due raccolte poetiche più interessanti di questi ultimi anni affrontano il problema di come sia ancora possibile oggi la poesia, presentando la parola poetica come l’unico linguaggio in grado di rappresentare la povertà del nostro tempo e di esprimere questo tempo dell’attesa.

 

Il disperato impegno

Sonetti del giorno di quarzo, il libro che contiene 350 sonetti di Aldo Nove, è un resoconto tragico degli ultimi due anni, segnati dall’evento della pandemia. Ciò che è tragica è tuttavia la condizione della poesia e della letteratura in questo momento storico, quando la poesia e la letteratura vogliono porsi il problema dell’impegno e della denuncia.

Nei suoi sonetti Aldo Nove compie un’osservazione impietosa del nostro tempo. Un’osservazione dal punto di vista dell’individuo, del singolo essere umano immerso nell’identica “fogna/ di ore in cui ciascuno di noi sogna/ di non esserci dentro”. Perché i condizionamenti della storia penetrano le fibre più sottili di ogni singolo essere umano. Compie quell’osservazione del lento fiume fatto dei pezzi di noi stessi, senza fuggire in un passato ormai improponibile e senza immaginare un futuro, “non essendo dato nessun futuro degno”. È una realtà demistificata, segnata dall’attuazione di un inganno continuo, di cui tutti sono complici, anche lo stesso poeta, che scrive “l’imbarazzo/ di chi correo prova a riabilitarsi/ tardivo in questi versi di rimpiazzo”. Il nostro è un tempo in cui si va avanti “trascinando borse/di pezzi d’opinioni contrastanti/ e contrastanti fedi e desideri/ e mezzi sogni”. Dove la cultura non esiste più, se non come “quella cultura/ridotta a emanazione della tele”.

Abbiamo preso coscienza della profondità della finzione, e abbiamo cominciato a dire addio a “ciò che non c’è più/ e si chiamava mondo”. Ciò che non ci sostiene più sono i cardini di quei sistemi di idee che potevano rappresentare l’alternativa, e quindi la direzione di un mutamento, il senso di un futuro, la possibilità stessa di un futuro. Oggi un concetto politico come quello della solidarietà sociale, oppure l’ideale religioso dell’amore, si sono definitivamente dissolti, oppure vengono riproposti soltanto in una forma distorta, piegati ad un uso strumentale per giustificare le iniquità e le vessazioni più atroci da parte del potere tecnologico e finanziario. Proprio questo uso distorto ha rivelato che ormai quei concetti sono irrimediabilmente falsi. “S’aggirano i gatti/ tra le frattaglie dell’ideologia,/ ne smembrano i significati astratti, / ne sbranano i brandelli d’utopia”.

E allora, in nome di che cosa si può oggi denunciare, si può oggi praticare la scrittura dell’impegno? La risposta di Aldo Nove è estrema, disperata, paradossale: è la stessa forma letteraria, la stessa struttura metrica, ereditata dalla tradizione, che contiene al suo interno la possibilità dell’impegno, la possibilità di rendere testimonianza, ovvero la possibilità di poter traghettare la memoria verso un futuro. La scelta del sonetto esprime appunto l’esigenza morale di conservare memoria, di varcare la soglia del nostro tempo, per un futuro inaudito, inimmaginabile. Questo gesto può compierlo ormai soltanto la forma letteraria: è la forma stessa che contiene questa vocazione, che offre l’unico orizzonte che rende possibile la protesta morale, ovvero l’orizzonte di un tempo futuro.

La condizione più lacerante per i poeti oggi è l’impossibilità di rivolgersi ad un futuro, di pensare un destino per l’umanità. Aldo Nove vuole invece rimanere fedele alla domanda posta da Brecht a proposito dei tempi oscuri: “perché i loro poeti hanno taciuto?”. E per rispondere, per trovare un fondamento alla sua risposta, trova nella forma letteraria stessa la possibilità del futuro. La possibilità della forma letteraria di comprimere in un sonetto “il mondo intero” e quindi di salvarlo, di offrirlo allo sguardo del futuro.

È vero che i poeti non possono più immaginare nessun tempo, ma è forse attraverso la forza della tradizione poetica, attraverso le sue forme assolute, che possiamo sbozzare un monumento del nostro tempo per gli occhi che ci giudicheranno.

Lo statuto della poesia è proprio lo stare sulla soglia, tra presente e futuro.

 

Il tempo e la poesia

In Linea intera linea spezzata, l’ultimo libro di poesia di Milo De Angelis, probabilmente la voce poetica italiana più autentica di questi anni, si intrecciano, ripetendosi e rispecchiandosi, due temi: quello del tempo e quello della poesia. Gli stessi temi sono centrali anche nei Sonetti del giorno di quarzo di Aldo Nove, libro uscito appena un anno dopo, nel 2022. Segno che la domanda sul nostro tempo e soprattutto sul ruolo che ha la poesia oggi, sul suo significato per noi, è quanto mai urgente.

Qual è la forma che assume il tempo nel libro di Milo De Angelis? Di quale tempo si tratta? È il tempo che si approssima alla fine, ed è quindi il tempo dell’attesa. Una condizione di sospensione in cui la realtà subisce un’invisibile metamorfosi: “tutto è come sempre/ ma non è di questa terra” (Nemini). La strada percorsa in tram tante volte, l’asfalto che riceve la pioggia “chiama dal profondo, / ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra”. La realtà, in questa sospensione, è la stessa, ed è insieme il segno e il preludio di una realtà altra. L’intera seconda sezione del libro, intitolata Nove tappe del viaggio notturno, è segnata dal percorso della memoria, di quella particolare forma della memoria che è il rammemorare, quando “mille voci che credevi disperse ritornano vive”, quando i momenti e le esperienze della nostra vita acquistano una forma conclusa e circolare, e “il bambino e la morte/ si congiungono”. L’intera nostra esistenza diviene al tempo stesso uguale e diversa, nella sospensione di fronte ad un futuro descritto come “l’ombra più grande che non vedi”.

È, questa, una dimensione personale, individuale, del tempo, sospeso nell’attesa della morte. Eppure, nel libro il tempo dell’attesa, della sospensione, riguarda anche la dimensione storica collettiva. Nella poesia 21 settembre emerge con chiarezza qual è la natura più intima e più vera nella nostra epoca, nella quale le figure che si incontrano di nuovo, dopo tanti anni, incarnano “l’estinzione del futuro”. Il nostro tempo storico è un tempo bloccato su un futuro impossibile. Ecco che l’attesa del nulla che riguarda l’individuo, il poeta, si rispecchia in un’attesa paradossale che riguarda tutti noi. Questa identificazione è evidente nella poesia intitolata Intra, in cui “nemmeno l’ignoto / dà notizia di sé stesso: non è parola/ né silenzio ma un fraseggio di suoni indistinti”. L’ignoto, in passato, ha potuto essere annunciato dalla parola oppure avvertito come presenza nel suo silenzio; tuttavia, una dimensione dell’ignoto poteva ancora esserci. Oggi l’ignoto, il futuro è semplicemente una dimensione disarticolata del linguaggio: una parodia insensata. Il futuro è negato, sia come parola, certezza, lucidità; sia come aspirazione, anelito. Siamo in un esilio in cui “ogni ora è trafitta da un sibilo violento, / non sente più il richiamo del mattino”.

Se questa è la nostra condizione storica, quale ruolo può avere ancora la poesia? Dialogo con un compagno è la lirica nella quale è espresso nel modo più chiaro che il compito della poesia è proprio quello di sostare su una soglia, che sia quella della prossimità della morte o di un futuro impossibile, se non altro per testimoniare l’assenza di un futuro. Un compagno degli anni dell’università, anni di cortei e di assemblee, ripete la stessa domanda che in quegli anni lontani rivolgeva al poeta: “tu da che parte stai?” Una domanda accorata, ma anche astuta, perché vuole forzare la poesia, trascinarla in territorio che non è il suo, costringerla ad una scelta politica. La poesia, invece, sta “in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno / resta intatto”. La poesia, adesso, in un’epoca storica in cui nessun futuro è più possibile, può stare solo dalla parte del viso del compagno “sbranato dalle rughe”, dalla parte di un viso “prossimo alla morte”. È proprio la poesia a rappresentare la testimonianza e la resistenza più radicale al nostro tempo. Ecco la sua vera natura, il suo vero luogo: saper stare sulla soglia del tempo.

Sempre della sezione Dialoghi con le ore contate, la poesia Libertà vigilata presenta l’incontro con un uomo in un bar come un momento sottratto al “grigio profondo della cella e del tempo”. Un’isola di tempo sospeso, un confine, una soglia, nella quale si ha il coraggio di non decidere nulla sull’aldilà: “non possiamo abbracciare il sacro cuore dei trafficanti della fede”. Ma proprio il sostare sulla soglia, in un tempo sospeso, con la coscienza di essere “destinati entrambi al niente”, senza la possibilità di vedere alcunché tranne il nulla stesso, è una condizione che “dona la visione”: è “il grande niente / che ci dona la visione”. Il tempo che si approssima alla fine, di cui solo la poesia può incaricarsi, è un tempo che si fa più nitido, più chiaro. La poesia è l’unica certezza, l’unica, in questo tempo esposto al nulla più radicale. “Nulla ci appartiene se non questo foglio / popolato di demoni” (Per l’Adele).

Il titolo Aurora con rasoio, ultima sezione del libro, è un vero e proprio ossimoro: una ferita, che è anche una nascita; perchè la stessa morte è un ossimoro, descritta nella poesia Filastrocca del nome perduto come un andare “nel buio di un mattino”: una nascita e un nulla. In questo andare nasconderemo “i nostri vani istanti di poesia”, affonderemo in una “lingua morta”, ovvero una lingua che non dice nulla: l’ossimoro più potente per esprimere la morte. “Non diremo, non / diremo”, perché la morte equivale ad abbandonare il travaglio del dire, quell’imperioso e necessario studiare la metrica del dolore. È la poesia che fino ad adesso ci ha trattenuti sulla soglia della morte, e che, al tempo stesso, ci ha salvati e preparati.

 

  1. Stare sulla soglia dell’Esistenza

 

Ma questo sostare sul limite è la condizione più propria della poesia, la condizione più autentica. Questo saper consegnare l’eredità più preziosa dell’uomo all’invisibile è proprio la capacità che Rilke riconosce alla parola poetica.

La danzatrice e la parola (Rilke)

I Sonetti ad Orfeo furono composti in poche settimane da R. M. Rilke nel Febbraio del 1922, dopo aver appreso la morte della giovanissima danzatrice Wera Ouckama Knoop. I sonetti sono incentrati sulla figura di Orfeo, la figura mitologica e divina in cui si incarna la poesia, ovvero la sua funzione essenziale: essere la custode della soglia tra la vita e la morte, del luogo in cui la vita e la morte cessano di essere due realtà antitetiche, e divengono invece le due parti di un tutto unitario.

Qual è la natura di Orfeo? “È di questo mondo? No, dai due regni / ampia scaturì la sua natura”. Orfeo, e quindi la poesia, è “uno dei perenni messaggeri / che già lontano, alle porte dei morti, / calici con frutti di lode depone”. In questo senso, solo un dio può veramente pronunciare la parola poetica, quella parola che è in grado di afferrare la totalità dell’Esistenza. Poesia non è celebrare soltanto ciò che è visibile, ciò che desideriamo, l’oggetto della nostra brama; la poesia è un soffio. “Apollo non ha tempio dove si incrociano due vie del cuore”, ovvero la via del desiderio per ciò che è terreno e quella che va verso l’invisibile; il canto che Orfeo insegna non è brama, desiderio. La poesia, il canto, “è un altro soffio. È un soffio intorno al nulla”. “Solo il canto sul nostro orizzonte è festa e salvezza”, il canto che si pone sul confine, sull’orizzonte: celebrazione della vita e salvezza. Sul confine, la nostra vita terrena appare più nitidamente.

Compito della poesia, infatti, non è rinnegare la vita terrena, ma permettere che ciò che di essenziale ha caratterizzato la nostra vita visibile possa transitare nella seconda parte della totalità che è l’Esistenza. Il nostro è un “vivere in figure” che rimandano ad altro; eppure, ciò che abbiamo vissuto è irrevocabile, è per sempre. Ma è propria della poesia, soltanto sua, la capacità di danzare “il sapore del frutto assaggiato”. La poesia, il cui luogo più proprio è il confine, la soglia, l’orizzonte, e soltanto lei conosce la dolcezza perduta della terra, lei “che intona la lode al cuore che nasce nel tutto”. Soltanto la poesia vede con chiarezza quanto sia essenziale questa transitorietà. La poesia rispecchia la vita, ma la poesia è uno strano specchio: assomiglia piuttosto ad un crivello “fitto di fori, colmi interstizi del tempo”; alcune figure trapassano, altre vengono respinte, “ma la più bella resterà”, conservata e proiettata oltre la soglia. “Che un veggente comprenda in stupore / quel suo saldo e perpetuo durare e lo celebri. Dirlo può solo il canto”. Il compito della poesia, la sua autentica condizione, è questo sostare su un confine, nel quale il mondo acquista significato e si consegna all’oltre. La poesia è consegnare l’eredità più preziosa dell’uomo all’invisibile.

Se questo è il senso della figura mitologica di Orfeo, chi è Euridice nel testo di Rilke”? Che cosa rappresenta? Euridice è la danzatrice, ovvero la danza stessa dell’Esistenza, L’Esistenza che “traduce transiti d’effimero nel passo”. L’albero di questa danza fiorisce, all’improvviso, “di silenzio”. Perché le immagini, i segni della vita, “il tratto oscuro del tuo sopracciglio”, fioriscono e maturano nel silenzio, con un movimento di danza: perché “ogni cosa desidera librarsi”.

In questa dimensione di limite, di confine, di “ora esitante”, l’uomo reca scolpito sul volto “quel duplice segno”. Bisogna essere, vivere, ma sapere al contempo “del non essere, / l’infinito fondamento della vita che in te vibra”. La macchina, a differenza dell’uomo, appartiene solo a se stessa, e per questo si crede migliore: con fermezza, ordina, crea, distrugge. Invece l’uomo è ancora in grado di sentire l’incanto dell’Esistenza, di sentirne l’origine, proprio perché sa confrontarsi con il non essere, sa vivere sul confine in cui la vita transita e va oltre. L’uomo sa che l’Esistenza è un gioco di pure energie che nessuno mai può sfiorare se non “in preghiera e stupore”.

La dimensione dell’uomo è quella che il poeta Paul Celan ha descritto nella poesia Salmo come una rosa che fiorisce per Nessuno. La macchina appartiene a sé stessa, soltanto a sé stessa, è compiuta in se stessa; l’uomo, invece, è questa capacità di offrirsi a Nessuno. Di sbocciare in ciò che è Altro, che è inaudito.

fonte: L’estroverso


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