Un sacerdote, dopo aver letto un articolo scritto da don Virginio Colmegna intitolato: “Settimana ecovirtuosa, Saturdays for future. Per custodire il creato e cambiare la vita”, pubblicato su Avvenire il 4 luglio scorso, mi ha inviato un suo commento che con piacere pubblico. Anche in questo articolo, come nel precedente, egli denuncia l’ormai assodata “nocività” di Cristo in quanto Presenza nella storia dell’assoluta Verità su Dio e sull’uomo e, dunque, dell’inutilità della missione della Chiesa in quanto testimone di questa Verità di fronte alla domanda di senso che accompagna il cammino dell’uomo stesso.
di Un sacerdote
Quello che scrive l’autore dell’articolo citato (don Virginio Colmegna, ndr), esposto in perfetto e forbito stile ecclesialese (davvero complimenti per la notevole performance!), è una delle tante possibili e significative esemplificazioni (molte altre ce ne sono, e molte altre ne verranno) di cosa sia diventata ormai la “figura” (nel senso della gestalt estetica balthasariana) del fare pastorale di certa neo Chiesa, dove la mancanza totale (lo ripeto: totale) della parola Dio, Cristo o equivalenti sul piano lessicale, non è altro che l’emersione zampillante sul piano esteriore della corrispondente totale mancanza di un fondamento evangelico interiore, di un fondamento reale che riesca ad imprimere alla proposta fatta (sul fronte del rapporto consequenziale tra fede e cultura) una sia pur minima singolarità cristiana all’oggetto in questione: la custodia del creato, ovverosia il problema ecologico con annessi e connessi.
In altre parole, la proposta di don Colmegna potrebbe essere fatta da qualunque persona che, a vario titolo, sia preoccupata a modo suo dell’ecologia della terra. In altre parole ancora, l’intenzionalità che muove (o dovrebbe muovere) ogni operare cristiano nei vari campi del vivere umano, offrendo a questo campo del vivere una proposta che contenga il “sale” evangelico (qualcosa che dunque si può assaporare, e qualcosa di cui ci si può stupire come il ritrovamento del “tesoro nascosto” nel campo, o come l’incontro con la “perla preziosa”), rimane assolutamente informe, e ridotta al livello di un impulso cieco che non trasmette la sua riconoscibile e incontrabile energia e figura all’opera stessa. Usando il linguaggio dell’ontologia tomista (cosa di cui ci scusiamo con don Virginio), secondo cui “agere sequitur esse”, questo “esse” della pastorale attuale non evidenzia alcuna consistenza specifica, e non incide dunque, se non in fondo sentimentalmente, sull’agere che ne consegue.
Nel 1976 la Chiesa italiana visse il suo primo Convegno dal titolo “Evangelizzazione e promozione umana”. Prescindendo dagli esiti che in quel tempo generò il Convegno, se oggi lo si celebrasse di nuovo la sintesi che ne scaturirebbe alla luce dei nuovi dogmi ecclesiastici, consisterebbe nel fatto che la promozione umana come tale è l’evangelizzazione, e il Vangelo unicamente pura e informale motivazione ideale. Pensiamoci bene a cosa si sta riducendo la testimonianza e la missione cristiana! Cristo ridotto a motivazione ideale o, come detto sopra, a puro impulso, ad un impulso di cui poi in fondo ci si vergogna, e che quindi non deve nemmeno essere nominato, essendo proibito ogni possibile proselitismo, del resto inutile, in quanto la salvezza viene dall’azione “buona” dell’uomo, e non dal Bene supremo che solo Dio è: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10, 18). L’articolo in questa riduzione dell’innominato (o innominabile?) Cristo a puro slancio vuoto si mostra, come detto, esemplare sia sul piano lessicale che formale. Un perfetto esempio dunque di promozione umana atea, anzi, anticristica, in quanto il Figlio di Dio incarnato è ridotto ad un guru o sensei che insegna a fare del “bene”, un bene che si pone come una delle tante opinioni umane sul bene, ma non si “offre” (anche eucaristicamente) come Unico e Supremo Bene, il tutto ovviamente – e paradossalmente – in nome del Vangelo! Il quale Vangelo però, quello vero, ci ricorda che “chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi” (Lc 9, 26).
Nell’ormai purtroppo lontano 1998 don Luigi Giussani nella sua testimonianza davanti a san Giovanni Paolo II, durante l’Incontro con il papa dei Movimenti Ecclesiali, esordì dicendo: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?». (Sal 8,5). Nessuna domanda mi ha mai colpito, nella vita, così come questa. C’è stato solo un Uomo al mondo che mi poteva rispondere, ponendo una nuova domanda: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?» (Mt 16,26). Nessuna domanda mi sono sentito rivolgere così, che mi abbia lasciato il fiato mozzato, come questa di Cristo!” (Roma, 30 maggio 1998). La missione della neo Chiesa sembra invece ormai ridotta ad insegnare all’uomo come “guadagnare il mondo intero”, non offrendo però alla mendicanza dell’uomo quella risposta di senso che solo Cristo è, contribuendo così alla sua perdizione!
Grazie don Colmegna!!!
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