di Massimo Lapponi
(Articolo pubblicato in occasione del Natale del 2014, funestato, pochi giorni prima, da una strage di bambini avvenuta in una scuola del Pakistan. Potrebbe valere la pena rileggerlo)
Siamo ormai abituati a vedere la festa di Natale macchiata di sangue. Il recente episodio del massacro perpetrato dai Talebani in una scuola in Pakistan non fa che aggiungersi a innumerevoli altri episodi di violenza omicida contro i bambini. Che ciò appaia come uno scandaloso contrasto con la festa che ci apprestiamo a celebrare lo afferma, su questa stessa testata, una giornalista che esprime generalmente il punto di vista ebraico: «Non c’è nulla per un uomo o una donna del nostro mondo» ella scrive commentando la strage di Peshawar, in Pakistan «che sia più comunicativo della parola “bambino”: significa amore, protezione, dovere. L’adorazione del Bambin Gesù è un luogo basilare della cultura occidentale, la nostra arte, la nostra letteratura sono popolate da sguardi infantili».
Le parole «la nostra arte, la nostra letteratura» sembrano riferirsi, nell’intenzione di Fiamma Nirenstein, a tutta la cultura occidentale. Mi sembra ovvio, tuttavia, che, sotto questo aspetto, un posto del tutto speciale spetti all’Italia, sia per essere patria del francescanesimo e del presepio, sia per la ricchezza del suo patrimonio artistico religioso, sia per la presenza in essa della Sede Apostolica.
Ma le parole della Nirenstein suggeriscono che l’influenza del mistero del Natale vada ben oltre i confini della Chiesa visibile e del popolo dei credenti. Se in tutto il mondo, anche in terre di assoluta prevalenza di altre religioni, si celebra tuttavia il Natale e il suo messaggio commuove tutti i cuori, possiamo ben credere che in Italia questo misterioso influsso abbia un effetto particolare. E il fatto che esso abbia agito per secoli e si sia come impresso nelle strutture materiali e immateriali della vita del nostro popolo non è certamente una circostanza senza importanza.
Vi sono state nella Chiesa alcune voci che, senza volere affatto uscire dall’ortodossia, si distinguevano notevolmente dall’ordinario coro dei devoti. Purtroppo la loro voce è rimasta per lo più inascoltata, nonostante l’onore che è stato loro reso – se pure a volte accompagnato da qualche sospetto sulla purezza della loro fede. Se il “De Monarchia” di Dante per un po’ di tempo fu messo all’indice, tutte le opere di Gioberti vi rimasero fino alla soppressione dell’indice stesso. Ma non era certamente eretica la loro aspirazione ad una “religione civile”, che non intendeva affatto sostituirsi alla “religione mistica”, ma soltanto affiancarsi ad essa.
Per Gioberti l’essenza del clericalismo stava non nell’affermare i diritti del sacerdozio e della sua missione soprannaturale – che egli neanche si sognava di negare – bensì nel restringere esclusivamente a questi diritti e a questa missione la funzione della religione e del cristianesimo. Come per Dante, anche per Gioberti i rappresentanti del potere civile e tutti gli uomini impegnati nei loro doveri terreni sono a pieno titolo “ministri di Dio”. Se ciò costituisce per loro un onore, che il clericalismo vorrebbe loro sottrarre, nello stesso tempo però costituisce anche una enorme responsabilità. Siamo ben lontani, dunque, da quella concezione “laica” della vita civile che limita il senso del dovere di governanti e cittadini al rispetto formale di regole puramente esteriori e contrattuali. Essi hanno, infatti, una missione divina, e perciò devono avere la coscienza che al fondamento della vita civile vi è un ordine spirituale e provvidenziale che regge ogni cosa.
Questa alta concezione della missione dei popoli la troviamo espressa con mirabile eloquenza da Henri-Dominique Lacordaire, restauratore dell’Ordine Domenicano in Francia.
«Egli sapeva dal Vangelo» afferma l’illustre oratore nel panegirico del Beato Pietro Fourier, pronunciato nella chiesa di Mattaincourt, in Lorena, il 7 luglio 1853 «che Gesù Cristo non ha pianto se non due volte sulla terra: la prima volta alla tomba di Lazzaro, quando lo risuscitò; la seconda volta, alla soglia della sua propria morte, quando si fermò sulle colline di fronte a Gerusalemme e, prevedendo i mali che l’avrebbero sopraffatta in punizione del suo deicidio, egli fu preso da una commozione di cui è scritto: “E vedendo la città, pianse su di essa” (Lc 19, 41). Lacrime sacre, che non furono sparse per la nostra salvezza, ma sulle piaghe della patria! Lacrime di patriottismo e di amicizia, che dovevano insegnare a tutti i secoli che il Figlio di Dio è anche il figlio dell’uomo, e che le virtù che ornano la terra sono sorelle delle virtù che popolano il cielo!
«Ma il patriottismo cristiano non è come il patriottismo antico. Questo non conosceva che la città, mura strette in cui il greco o il romano racchiudevano l’universo e alle quali nel loro cuore sacrificavano il genere umano. Gesù Cristo ha tutto elevato e ingrandito mentre nello stesso tempo ha tutto purificato. Egli ha fatto dei popoli ciò che ha fatto degli uomini: i cooperatori dei suoi disegni di giustizia, degli strumenti più vasti e più forti della verità, degli apostoli, dei pontefici, dei dottori, dei martiri; e perciò è scritto in Davide del Figlio di Dio che viene tra noi: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sl 2, 8). Il cristiano ama Gesù Cristo nella sua patria; egli ama in essa la pace del Vangelo, la grazia dei sacramenti, i templi in cui prega, le opere e le reliquie dei santi che vi sono vissuti e che vi vivono ancora con lui, la storia delle cose passate e la speranza delle cose future, infine ama in essa un membro vivente della Chiesa, e la predestinazione di Dio che chiama i popoli e opera il loro destino nel loro dovere».
E in un discorso pronunciato nella chiesa di Notre-Dame a Parigi, il 14 febbraio 1841, per il ristabilimento dell’Ordine Domenicano in Francia, egli mirabilmente così tracciava il quadro della sua teologia civile:
«È Dio che ha fatto i popoli e che ha diviso tra loro la terra, e è ugualmente lui che ha fondato in mezzo a loro una società universale e indivisibile (…) Cosicché noi tutti apparteniamo a due città e siamo sottomessi a due potestà, e abbiamo due patrie: la città eterna e la città terrestre, la potestà spirituale e la potestà temporale, la patria del sangue e la patria della fede. E queste due patrie, benché distinte, non sono nemiche l’una dell’altra; al contrario: esse fraternizzano come l’anima e il corpo fraternizzano, esse sono unite come l’anima e il corpo sono uniti; e, come l’anima ama il corpo, sebbene il corpo spesso si rivolti contro di lei, ugualmente la patria dell’eternità ama la patria del tempo e si prende cura della sua conservazione, sebbene essa non sempre corrisponda al suo amore. Ma può accadere che la città umana si consacri alla città divina, che un popolo si onori di un’alleanza particolare con la Chiesa: allora l’amore della Chiesa e l’amore della patria sembrano non avere che un medesimo oggetto; il primo eleva e santifica il secondo e si forma dei due una sorta di patriottismo soprannaturale, di cui San Paolo ci ha dato l’esempio e l’espressione in quelle sublimi parole della sua Lettera ai Romani: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9, 1-5). È impossibile esprimere più energicamente l’amore della patria, soprannaturalizzato dalla fede; e, del resto, tutti i profeti sono pieni di questi slanci patriottici, da Davide che esclama: “Tu sorgerai, avrai pietà di Sion, perché è tempo di usarle misericordia: l’ora è giunta. Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre e li muove a pietà la sua rovina” (Sl 101, 14-15), fino a Gesù Cristo che piange alla vista di Gerusalemme, dicendo con un dolore così pieno di compassione: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace!” (Lc 19, 42). Ora, signori, io mi propongo di esaminare davanti a voi fino a qual punto la nostra stessa patria meriti un simile sentimento, fino a qual punto noi dobbiamo amarla, non solo come francesi, ma come cristiani. Non è senza importanza, nella situazione generale del mondo, trattare questa questione, e cercare, considerando la storia e il secolo presente, qual è il popolo a cui la Chiesa deve di più nel passato e dal quale può maggiormente aspettarsi nell’avvenire. La speranza è una virtù, e quando dal seno di Dio ella getta i suoi germogli attraverso la patria, la sua linfa, per il fatto di essere ancora più dolce, non perde minimamente per questo la sua divinità.
«Già da gran tempo, signori, Dio ha predisposto i suoi disegni sulle nazioni. Il giorno stesso, quel giorno dell’eternità, in cui egli diceva a suo Figlio: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”, egli aggiungeva subito dopo: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sl 2, 7-8). Così il Figlio di Dio riceveva nello stesso tempo da suo Padre la sostanza divina e il dominio delle cose umane, la filiazione e l’eredità, secondo quest’altra parola di San Paolo: “Dio (…) ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose” (Eb 1, 1-2). E possiamo dire incidentalmente che è in queste profondità della paternità e dell’eredità divina che si nasconde la sorgente della paternità e dell’eredità umana: leggi misteriose che, venendo da un così alto orizzonte, sono più forti di noi e sono il fondamento stesso dell’ordine umano.
«Essendo le nazioni da tutta l’eternità patrimonio del Figlio di Dio, cosa avverrà? Come un buon padrone coltiva e feconda la sua terra prima di esigere qualcosa da essa, così il Figlio di Dio fatto uomo e venuto nel mondo per visitare le nazioni, suo patrimonio, fa loro dei doni prima di esigere da loro. Ed ecco i doni ch’egli fa loro in quanto esse sono nazioni:
«Per prima cosa il dono del potere temporale, tenendo per sé il potere spirituale. Egli avrebbe potuto riservarseli entrambi e governare le società umane direttamente, da se stesso o per mezzo dei suoi ministri, ma egli non ha voluto. Egli ha permesso alle nazioni di darsi dei capi, di reggersi ciascuna con le sue leggi e i suoi magistrati; e come, secondo l’espressione della Scrittura, Dio aveva trattato l’uomo con rispetto (cf Sp 12, 18), donandogli la libertà morale, così egli ha trattato le nazioni con rispetto donando loro, tramite suo Figlio, la libertà politica. Andate – egli ha detto loro – voi siete nella mano del vostro consiglio, voi tenete lo scettro: colpite con esso la terra, cosicché essa risenta della vostra azione; siate artefici del vostro destino sociale, ma ricordatevi che vi è un limite alla vostra autorità e che comunicandovi il potere temporale, io ho ritenuto per me il potere spirituale, non per proibirvelo, giacché ho scelto i miei ministri tra di voi, ma per tema che voi abusaste di questa doppia potestà, se avessi rivestito la stessa testa con la maestà del tempo e quella dell’eternità.
«Il secondo beneficio dispensato dal Figlio di Dio alla sua eredità, quando è venuto a visitarla, è stata una modificazione nella natura stessa del potere, o piuttosto il richiamo di questo potere alla sua primitiva costituzione. Un giorno, essendo gli apostoli riuniti attorno a lui, il Salvatore, Nostro Signore, rivolse loro queste belle e amabili parole: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20, 25-28). A partire da questo momento il potere ha perduto il carattere di dominio per elevarsi alla condizione di servizio pubblico, e il depositario della più alta regalità che vi sia al mondo, la regalità spirituale, si è volontariamente chiamato “servo dei servi di Dio”.
«Gesù Cristo aveva regolato e addolcito la sovranità. Egli volle regolare e addolcire i rapporti dei cittadini tra loro e delle nazioni con le nazioni. Egli dichiarò che gli uomini erano fratelli e le nazioni sorelle, che non c’erano più né gentili né giudei, né circoncisi né incirconcisi, né barbari né sciti, né schiavi né uomini liberi (cf Cl 3, 11).
«Ecco, signori, la carta, la grande carta, la carta eterna che il Figlio di Dio ha dato alle nazioni prendendo possesso della sua eredità. Mai si andrà più lontanto. Si cercherà di negare questi principi; si cercherà anche di falsarli con conseguenze che essi non contengono: lo spirito di dominio e lo spirito di licenza li combatteranno a gara, questo come insufficienti, quello come distruttori della maestà; ma questa doppia ostilità sarà la loro forza e la loro giustificazione. In ogni popolo che non torni alla barbarie, la sovranità resterà un sevizio pubblico confinato all’ordine temporale, i rapporti tra uomo e uomo e tra nazione e nazione un rapporto di fraternità.
«Accanto ai benefici si danno ordinariamente dei compiti. Gesù Cristo aveva servito le nazioni: egli aveva il diritto di esigere, a sua volta, il loro servizio. Questo servizio era di accettare la legge di Dio, proposta al loro libero arbitrio, di amarla, di conservarla, di difenderla, di propagarla, di farne il fondamento dei loro costumi e delle loro istituzioni, di usare anche le loro armi, non per imporla, ma per preservarla e riscattarla dall’oppressione, assicurando a tutti gli uomini il diritto di conoscerla e di conformarvisi liberamente. La vocazione di un popolo non era più di estendere le sue frontiere a scapito dei vicini; questa era stata la gloria dei popoli pagani, del popolo romano, il più grande di tutti: ma cos’era questa gloria? Lacrime e sangue. Ciò era adatto per le razze che il cristianesimo non aveva ancora toccato con il suo dito. La vocazione delle razze cristiane era di diffondere la verità, di illuminare le nazioni meno avanzate verso Dio e di portare loro, al prezzo del lavoro e del rischio della morte, i beni eterni, la fede, la giustizia, la civiltà. A questo pensiero le mie viscere di uomo si commuovono; io riconosco un fine degno del cielo e della terra, dell’intervento di Dio e dell’attività del genere umano e sono certo, signori, che nessuno tra voi, fosse anche non credente, mi contraddirà. Poiché, se il cristianesimo ha cessato di essere vostro maestro e vostro educatore, esso ancora respira nei vostri sentimenti, eleva ancora la vostra intelligenza; se voi non siete più cristiani per il lato che guarda Dio, voi lo siete più che mai per il lato che guarda l’uomo».
Alla luce di questa mirabile teologia civile, i confini del regno di Cristo si dilatano a dismisura: esso non comprende soltanto la Chiesa visibile nelle sue funzioni di cura pastorale e di culto, né soltanto quella Chiesa invisibile che si estende – come abbiamo ragione di credere – alla misteriosa vita spirituale dei popoli e alla loro ricerca di Dio «come a tentoni» (At 17, 27), ma abbraccia tutte le nazioni, le loro leggi, i loro governi, i loro costumi, la loro storia. E se la missione civile dei popoli appare come “terrena”, essa non è, però, per questo meno “celeste” e meno cristica, se Cristo ha ricevuto dal Padre «in possesso le genti e in dominio i confini della terra», e se essa è penetrata da infiniti germogli divini scaturiti dal seno del Padre.
Lacordaire, da buon francese, celebra la missione storica della sua patria, «figlia primogetita della Chiesa». Ma cosa dovremmo dire, in questa prospettiva, della missione dell’Italia? Il Natale non ci suggerisce, come è accennato anche da Fiamma Nirenstein, che la patria del presepio, tra le altre cose, abbia irradiato, attraverso i secoli, quell’«adorazione del Bambin Gesù» che «è un luogo basilare della cultura occidentale»?
In nuovo Natale di sangue che ci accingiamo a celebrare dovrebbe, dunque, richiamare al nostro animo questa missione dell’Italia a favore dell’infanzia e della cura amorosa della vita umana, anche la più debole e sofferente – missione a cui sono chiamati a partecipare credenti e non credenti, dal punto di vista teologico perché il “regno civile” di Cristo si estende a tutte le nazioni e a tutta la loro storia, dal punto di vista umano perché se i non credenti non sono «più cristiani per il lato che guarda Dio», lo sono «più che mai per il lato che guarda l’uomo».
Ma di quali rovine di questa sua antica missione è ora ingombra la nostra Italia! E se gli incancellabili segni della sua grandezza ce la fanno sempre amare con devozione filiale, le sue rovine ci strappano dal cuore l’invocazione del salmo, già richiamata da Lacordaire: «Tu sorgerai, avrai pietà di Sion, perché è tempo di usarle misericordia: l’ora è giunta. Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre e li muove a pietà la sua rovina»!
Giustamente osserva Fiamma Nirenstein che, a differenza di quanto avviene dove i massacri dei minori si effettuano senza pietà, «non c’è nulla per un uomo o una donna del nostro mondo che sia più comunicativo della parola “bambino”: significa amore , protezione, dovere».
Ma se, nonostante le apparenze, in realtà anche nella nostra patria, che aveva ricevuto da Cristo, tra gli altri compiti, quello di essere luce per le nazioni nella cura della debole vita nascente, ad imitazione di altre stirpi più lontane di essa dall’ispirazione cristiana della vita, le difese della vita infantile si assottigliano sempre di più, non dovremmo forse esclamare anche noi tra le lacrime: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi» (Lc 19, 42)?
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