
di Mattia Spanò
L’immagine, straniante, di papa Francesco in piedi in silenzio di fronte al feretro di Napolitano ha suscitato non poche perplessità in una parte dei cattolici.
Vogliamo dire quelli critici con papa Francesco, mentre la maggior parte o non si è accorta di nulla, o ha addirittura apprezzato il gruppo marmoreo di papa vivo e defunto presidente? Diciamo pure così, ma la sostanza non cambia.
Il pontefice, com’è noto, non ha benedetto la salma né si è fatto il segno della croce, o compiuto gesti che potessero qualificarlo come capo supremo della Chiesa Cattolica. Come ha rilevato il medico Paolo Gulisano, non avrebbe fatto nulla di improprio perché Napolitano era battezzato.
Non che papa Francesco sia troppo incline a gesti simili, vetusti e carichi di superstizioni; tuttavia, in alcuni frangenti particolari uno si aspetta un segnale tipico. Niente.
Alcuni ricordano quando Francesco promosse Giorgio Napolitano fra i grandi italiani, insieme alla pasionaria radicale Emma Bonino e Giusi Nicolini, ex sindaco di Lampedusa molto sensibile al tema dell’accoglienza dei migranti.
Si trattò, con tutta evidenza, del riferimento ad una grandezza politica, temporale, storica e ideologica, insolita per un pontefice. Forse questo tipo di grandezza effimera è l’ultimo brandello di grandezza – una specie di abbaglio – che un’umanità affetta da nanismo spirituale possa riconoscere e celebrare. In mancanza di punti di riferimento, di dei e profeti, gli uomini se li fabbricano. Fin dai tempi del vitello d’oro, è sempre successo.
Il cardinal Ravasi ha tenuto una commemorazione del defunto presidente emerito in Senato, definendolo “un giusto”, con un evidente allusione al retaggio ebraico e al ravasiano “Cortile dei Gentili”. Lo ha poi definito, citando il profeta Daniele, una fra le stelle che brillano nel firmamento. Il nunzio in Italia, Mons. Tscherrig, si è platealmente tolto la croce.
Non si tolgono lo zucchetto o il cappello, come ai bei tempi andati. Si tolgono la croce, la nascondono in presenza di ebrei e musulmani o la sviliscono, addirittura degradandola al livello di amuleto pagano.
Mi pare ci sia una grande confusione fra il rispetto che si deve ai morti e il rispetto che si deve ai vivi. Per spiegare il fatto racconto due episodi personali, entrambi risalenti agli anni dell’università.
Con un gruppo di amici cattolici, facevamo una rassegna stampa che distribuivamo ai compagni. Si trattava di una manciata di articoli che ci erano parsi significativi, preceduti da un breve editoriale di giudizio.
Uno dei nostri compagni rifiutò gentilmente di prenderla. Gli chiesi per quale motivo. Mi rispose che non era cattolico. Con altrettanta ferma gentilezza gli risposi: “Se pensi che qualche articolo di giornale preceduto da un breve commento metta in pericolo ciò che credi, allora ciò che credi non vale nulla”. Non prese il fascicolo, ma da quel giorno stabilimmo un rapporto di grande cordialità.
Il secondo episodio riguarda il funerale di una parente, al quale si presentò fra gli altri mio padre. Durante l’omelia, il celebrante ricordò il marito della defunta, un tomo defunto anni prima che molestava – o peggio – le figlie, con parole molto dure.
Mio padre andò su tutte le furie, un po’ per vecchie ruggini col prete che aveva officiato le esequie, un po’ perché persuaso di un principio pitagoreo: non si parla male dei morti. Al termine di un vivace scambio di pareri, gli risposi che se aveva ragione lui non si poteva parlar male nemmeno di Hitler, in quanto morto.
Il trait-d’unión fra i due aneddoti è questo: la nostra epoca è percorsa da un acutissimo rifiuto di ciò che siamo – paura, fragilità, incertezze circa chi siamo e cosa crediamo – che sfocia nella brama della morte, l’evento terminale che ci consegna tutti fra i giusti che brillano nel firmamento.
Al di là del frastuono delle opinioni e i desiderata di ognuno, la morte sarebbe la giustificazione di una vita insulsa. Talmente insulsa che il rispetto dei morti – i buoni per definizione – prevarica le prerogative e i diritti dei vivi – i cattivi per eccellenza – al punto da annichilirli. È un punto di vista curioso.
Per quale motivo un morto come Napolitano debba sentirsi offeso da un segno della croce o una benedizione, non è chiaro.
Sarà sepolto nel cimitero acattolico di Roma, in terra orgogliosamente non consacrata, ma questo non significa che un qualche gesto religioso del papa debba disturbarlo da morto più di quanto non abbia fatto da vivo.
Nessuno lo ricorda contorcersi o prendere fuoco durante una delle numerose messe alle quali ha partecipato. Ma tant’è: gli uomini vanno congedati così come hanno vissuto, senza il più piccolo spiraglio sull’oltretomba. Torva ostinazione spacciata per alto sentire.
Non capisco perché una madre si ostini a rincorrere il figlioletto di due anni scappato in mezzo alla strada: è quello che vuole, è così che si sente realizzato. Perché fargli la violenza di tenerlo alla larga dal traffico, dai coltelli e dalle prese elettriche?
Dal momento che Napolitano era ateo – non un “laico”, come va di moda dire oggi nella pruderie generale che rigetta i contorni netti delle cose – doveva nutrire una sovrana indifferenza nei confronti della manifestazione religiosa e pertanto, da uomo di mondo, non credo si sia mai offeso perché durante una funzione religiosa tra le tante alle quali ha partecipato, il prete ha osato benedire l’assemblea.
Dunque, perché portargli rispetto in questo momento? Coerentemente con le proprie convinzioni – ammesso che fossero nette come le dipingiamo – adesso Napolitano è il nulla che fa vela nel nulla. Non si è mai offeso in vita per un segno della croce ed era qualcuno, perché dovrebbe sentirsi offeso oggi che è niente?
È chiaro allora che la questione non riguarda affatto Napolitano, come non riguarda nessun morto, ma riguarda i vivi. Riguarda una fede, quella cattolica, ormai svuotata di contenuti e destino.
Riguarda il fatto, giusto per fare qualche esempio, che dopo esservi vaccinati tutti per amore degli altri, dopo aver mandato al massacro (o massacrato) milioni di uomini per difendere o esportare i nostri “valori”, dopo esserci indebitati fino al collo per “salvare il pianeta” crepando di freddo e mangiando gli insetti cari al papa (questo atto di cannibalismo non sconvolge né lui né gli animalisti) come scrive Sant’Alfonso Maria de Liguori nel suo Apparecchio alla morte, diventiamo tutti una specie di mensa aziendale per “piccoli vermi”, come scrive Papa Francesco nella Laudato Sii. “I vermi saranno la tua coperta” (Is. 14, 11).
Il messaggio che i pastori mandano – un messaggio composto di omissioni come quelle davanti alla bara di Napolitano ed elogi, come fu per l’ultra-radicale Marco Pannella, beatificato da Mons. Vincenzo Paglia – è che essere cattolici è irrilevante.
Qualcosa di molto peggio dell’avversione anticristica (dico anti Cristo, perché nessuno sprecherebbe un atomo di energia per dare addosso a dei cristiani moralmente e spiritualmente decotti), che sarebbe a suo modo una negazione aperta, leale ed onesta del fatto cristiano. Che siate cattolici o pastafariani è uguale: non cambia nulla. Non serve a nulla e a nessuno. Una tesi, se così vogliamo chiamarla, propugnata dagli stessi luogotenenti di Gesù.
Parafrasando Rilke, tutto cospira a tacere di Cristo, un po’ come si tace di un’onta, un po’ come si tace una speranza ineffabile. Allora la domanda da porre ai nostri pastori è sempre e soltanto una: chi servire? A cosa servite?
Dal momento che i temi originali – per la sanità abbiamo l’OMS e il virologo non laureato Bill Gates, per la salvaguardia di animali e ambiente GreenPeace e WWF, per la depopolazione e salvare il pianeta Greta Thumberg, Klaus Schwab e Harari – abbiamo agenti e agenzie che sono arrivati prima di voi ed hanno una specializzazione verticale, a parte portare l’acqua con le orecchie al mulino del Padrone del Mondo, quale sarebbe il bene che fate, che proponete all’uomo?
È davvero un segno di rispetto da parte vostra consegnare l’anima di Giorgio Napolitano al nulla ardente? A cosa serve celebrare le gesta di un cadavere di fronte ai vivi, se non al nostro piccolo ego infelice e ridicolo, quando la sua anima non esiste e non va da nessuna parte?
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. I contributi pubblicati su questo blog hanno il solo scopo di alimentare un civile e amichevole confronto volto ad approfondire la realtà.
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Sa che cosa le dico? Sarebbe stato molto meglio che il papa non ci fosse andato affatto e nemmeno il card. Ravasi e il nunzio apostolico. In questi casi, è molto meglio mandare le condoglianze e basta. Il resto risulta sempre inopportuno e inutile. Che cosa va a fare un papa nella camera ardente di un ateo dichiarato? Perché un cardinale deve tenere una commemorazione in Parlamento? Perché il nunzio apostolico deve partecipare? Sono situazioni sempre imbarazzanti e controproducenti.
Oppure, se proprio si è legati da amicizia o conoscenza si va in forma privata.
Sarebbe meglio che la Chiesa la smettesse di voler essere presente ovunque, anche in ambienti palesemente ostili. Il sospetto, però, è che queste persone negli ambienti ostili siano di casa e non per ragioni di apostolato.
L’ex Presidente Giorgio Napolitano è stato una persona molto coerente, passando da una ideologia all’altra: fascista da giovane, poi comunista ortodosso, poi “migliorista” social-democratico ed infine liberista-capitalista-globalista. La coerenza sta nell’ateismo e nel passare dall’ideologia perdente a quella vincente, secondo lo spirito della storia di hegeliana memoria. Oppure si potrebbe definire una persona “pluralista”, facendo il verso al quotidiano Avvenire e all’intervista alla dott.ssa Cartabia.
Che il Signore abbia pietà di lui.