di Giovanna Ognibene

 

Erano gli anni ’60, avevamo in casa il primo giradischi e mio fratello comprò “la Guerra di Piero” di De André: complice forse il fascino della novità per me dell’apparecchio e del ritmo da ballata, mi piaceva molto e la ascoltavo parecchio, facilitata in ciò dal fatto che avevamo in tutto 5 o 6 dischi in casa.

Temperie pacifista degli anni ’60, no alle guerre, no alla Guerra.

Succedeva che l’allor giovane mio fratello avesse un’accesa discussione con mio padre sull’obiezione di coscienza e liceità dell’uccisione per difesa e sostenesse che non avrebbe sparato per primo ad un aggressore, per non togliergli la possibilità di “pentirsi”. Un po’ faticosamente, poiché mio padre lo incalzava “e se ci fosse in gioco la vita di tua sorella?”. Io undicenne o giù di lì ammiravo molto quell’alto idealismo, benché ne fossi la vittima designata (a posteriori penso che le mie ultime parole sarebbero state: ”sparagli, imbecille!” giusto perché all’epoca conoscevo solo quel tipo di parolacce).

Tuttavia si poteva essere indulgenti: non erano passati neppure vent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e forte era ancora il trauma di un conflitto così sanguinoso e così esteso. Inoltre, proprio il carattere “mondiale”, insieme all’olocausto, lo configurava in qualche modo come uno scontro tra buoni e cattivi, tra la luce e le tenebre.

La luce aveva vinto e la pace sembrava la condizione ovvia, per così dire naturale per cittadini evoluti di un così evoluto Occidente.  

Guerre, e crisi, ce n’erano state in quei vent’anni e si sarebbero intensificate in quelli successivi, eppure stranamente in noi giovani d’allora granitica era la convinzione che gli orrori ed errori del passato non si sarebbero ripetuti, perlomeno lungo l’asse Europa America del Nord.

Al C.C.S. (Circolo Cinematografico Studentesco) potevamo vedere Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale del 1930 e Orizzonti di Gloria di Kubrick del ’57.

Soprattutto il primo film, nelle sue tonalità di epos ingenuo, richiama la ballata di D’André: un giovane  liceale con i suoi compagni, infiammati dalla retorica del loro professore, si arruola nelle file dell’esercito per inverare i suoi ideali, che vengono ben presto bruciati dalla dura realtà della guerra.

Lo stesso vino di vertigine dell’ideologia, seppure di segno opposto, sembra essere stato somministrato ad altri giovani, quelli che negli anni ’60 volevano mettere i fiori nei cannoni, e facevano marce e concerti contro la guerra in Vietnam.

C’è però una differenza fondamentale tra questi ultimi e i loro antichi sodali, che marciavano con i loro teutonici ciuffi biondi incontro alla distruzione; la loro comune divisa intellettuale- l’ideale, il sogno sigfridiano di una bella vita- per i primi si è infranta e sporcata nelle trincee, per i secondi è rimasta lustra perché mai usata: in Europa la guerra tendenzialmente si fa a parole, manifestazioni e fiaccolate: piace tanto mettersi magliette con scritte varie, je suis Charlie (certo non il piccolo Charlie Gard, terminato per il suo best interest, ma il più fascinoso Hebdò) e poi tutti i non in mio nome, senza se e senza ma e via stampando.

In qualche modo dalla mia generazione, dal’68 in poi quindi, è stato introdotto il sei politico anche per l’esistenza tutta. E questo non porta mai buoni frutti.

Per quale grande disamina ho scritto questo concettoso prologo? Per nessuna, è solo che in queste ultime settimane ci hanno sfranto tutto quel che era frantumabile, in corpo e spirito, con l’infinita querelle dell’orsa JJ4 (col nome a metà tra il personaggio di una serie americana e un presidente cinese).

 Il nesso tra le due cose è lo scontro tra l’idea che noi ci facciamo del migliore dei mondi possibili e la dura realtà. In questa innaturalmente perpetua adolescenza dell’Occidente chi ne esce sconfitta è la Ragione, o se la preferite nei vestiti da lavoro, la Ragionevolezza.

L’idea principe che sorregge tutta la costruzione- ‘ideologica’ è un termine del tutto sproporzionato- è che l’uomo sia un intruso sulla Terra, o meglio sul Pianeta, come ci insegnano da anni: il termine rende meglio la nostra irrilevanza.

Una nota a margine: è singolare come le idee sceme abbiano una capacità fantastica di proliferare, ingrandirsi e metastatizzarsi, un tumore del pensiero; si parte dalla contestazione della civiltà, si crea il mito del Buon Selvaggio, e si arriva sparati (non proprio, in circa due secoli) al mito del Buon Orso.

Quindi fu l’infelicissima idea dei popoli già nell’età del bronzo di stanziarsi nelle trentine plaghe a procurare l’attuale crisi di coabitazione, l’incomprensibile ostinazione della gente a voler vivere in posti non particolarmente fertili e a lavorarvi duramente per millenni per renderli sempre più atti a sostentare le famiglie.

Tale attività comprendeva anche ammazzare con una certa regolarità orsi e lupi che razziavano mandrie, devastavano campi, e incidentalmente far fuori qualche intruso.

Ai primi del ‘900 vennero “estinti” gli orsi, al motto “l’orso migliore è quello steso davanti al caminetto”, ma questo evidentemente ci poneva in una posizione di mortificante inferiorità rispetto al Canada e chessò al Parco di Yellowstone. Non sia mai! Adesso la situazione è decisamente ribaltata: il Parco americano ha un’estensione 55 volte circa quella dell’intero Trentino (comprese città, aree industriali, ecc.)  e numero di orsi un po’ più di 5 volte. Dati presi da Wikipedia e quindi nel caso di errori non prendetevela con me. Fate voi i conti.

Ma siccome le opinioni valgono più della matematica, l’ideatore del progetto Ursus Life lo ritiene un successo. (Dai Speranza ché non sei solo!).

Io intanto non ho capito perché fosse necessario ripopolare il Trentino di orsi. Chi ne sentiva la mancanza, a parte evidentemente l’ideatore dell’ideona. Giusto forse per gli sparagnini che non vogliono volare sino in Canada o sugli Appalachi per vivere l’ebbrezza di vedere un orso mentre fanno jogging nel bosco; l’orso non è in via d’estinzione, il runner di montagna forse sì.

Visione ristretta la mia, lo ammetto.  Di morti per aggressione dell’orso in Italia sembra sia stato solo il povero Andrea, dicono e perciò che vuoi che sia. Ne sono morti molti di più in vari incidenti in montagna! Con tutto questo, se dovessi e potessi scegliere (come fanno i bambini) preferirei morire scivolando in un canalone che sbranata da un orso (il regista Herzog ascoltò l’audio dei momenti in cui un orso, estraneo alla comunità degli orsi frequentati da Grizzly Man, come ho letto, e quindi ignaro dei buoni propositi  ambientalisti dell’uomo, lo sbrana insieme alla sua fidanzata, e decise che non dovesse essere udito da nessun’altro).

Per gli animalisti, e probabilmente anche per tutti gli ungulati, il punto è far capire a quegli zucconi degli intrusi come comportarsi: va da sé che bisogna avere una mentalità più ampia flessibile sintetica di quei pastori o albergatori così gretti da sentirsi minacciati nei loro interessi! E infatti magistrati del Tar, giornalisti, animalisti e ambientalisti hanno una visione più obiettiva e comprensiva della situazione, tutte persone casualmente indipendenti da quelle circostanze che affliggono invece la plebe citata sopra. Un po’ come ai tempi del Lockdown, quelli che sostenevano la giustezza dei provvedimenti, la loro san(t)ità, erano casualmente quelli che come medici, giornalisti, politici ne erano esentati o che come dipendenti statali non rischiavano il posto. E i ricchi. Quelli con case grandi, seconde case in posti isolati, che mica si devono affidare ai mezzi di trasporto pubblici, così disgustosamente affollati.

Orbene, ecco quanto dicono quelli “dalla parte dell’orso” (a quando le magliette Je suis JJ4?): prima di tutto i buoni consigli: non correte nei boschi, suoi territori, se poi ve lo trovate davanti su una strada provinciale o nel parcheggio di un residence, date la colpa, voi o i vostri eredi, a chi ha costruito proprio lì; intanto cercate di restare calmi e infatti io già mi immagino assorta in contemplazione dei suoi artigli-5 per zampa lunghi circa 15 centimetri- e i suoi canini, lunghini anch’essi, mentre pondero con serena determinazione le diverse opzioni, gridare selvaggiamente, farmela sotto (absit iniuriaverbis), afflosciarmi con o senza gemito, fissare l’orso negli occhi sperando nella possibilità di dialogo interspecie, o fingermi morta, anzi esserlo perché nelle more delle scelte certamente mi è sopravvenuto lo schioppone definitivo.

Queste sono indicazioni sul versante per così dire tecnico statistico, poi ci sono gli appelli sul coté scientifico eto ed etnologico: l’orso deve fare l’orso o nella fattispecie l’orsa. Bravi, proprio vero. Peccato che siano anni o decenni che ci vengono propinati documentari fantastico-didattici da far invidia ad Esopo e La Fontaine, nei quali gli animali non hanno la saggezza o l’astuzia delle antiche favole, ma presentano tutte le caratteristiche delle moderne scienze sociali, e perciò il piccolo macaco, falco o pangolino devono lavorare sull’autostima per sperare di farcela, le iene devono risolvere le dinamiche di gruppo, gli gnu elaborare strategie vincenti se vogliono sfangarla nella stagione secca. Che poi, se pensiamo alle strategie anti contagio messe in atto dai nostri governi, beh, allora parlare di strategie per gli gnu o anche i capibara non sembra così esagerato. In un documentario ho persino sentito parlare di un cambiamento dalla ferocia alla tenerezza in vista dell’accoppiamento, e si stava parlando di un alligatore.

Intanto l’orsa JJ è una mamma, bisogna capirla, soffrirà senza i suoi piccoli, i quali soffriranno e forse moriranno senza la loro mamma (anche se mi è giunta la notizia confortante che li hanno soccorsi, stanotte dormo meglio).

Infine c’è il discorso etico filosofico in tono woke, e mica tanto vagamente: abbiamo oppresso per secoli gli orsi, li abbiamo strappati dai lidi natii, mentre il loro pensiero andava sulle ali dorate, e poi mentre si riappropriano del territorio, e persino della loro identità più riposta, ecco che uno sprovveduto runner, e perciò in qualche misura colpevole, li va a disturbare, li mette a disagio.

Infine, si tocca il punto delicatissimo della linea tra giustizia e vendetta: giustizia non ci può essere perché l’orso non è libero di scegliere, e allora qualunque misura suona come vendetta: di abbatterla non si parla, in punta di diritto, relegarla in gabbia è come metterla al 41 Bis, l’onorevole Michela Brambilla è andata a parlarle (vedere Trentotoday).

Letto questo, incomincio a pensare che abbiano ragione gli antispecisti che hanno sfilato a Trento.

Conclusioni.

L’orso va abbattuto, sine ira et studio, ma con tutti i crismi. Punto.

Gente che approva l’aborto, estensibile a piacere sino al nono mese, tanto per far capire quanto fosse pretestuoso e capzioso il discrimine tra grumo di cellule, embrione ed essere umano, si commuove per i patimenti del plantigrado? Abbatterlo subito e con lui le altre lettere dell’alfabeto.

Gente che augurava una morte ripugnante e dolorosa ai no-vax ora discetta di serenità di giudizio e controllo degli istinti? Abbatterlo subito, e già che ci siamo, anche tutti i suoi guagliune.

L’Occidente è un adolescente viziato che deve essere messo in collegio, e già si vede qualcuno che lo farà.

P.S.

Per finire, quando leggo le rassicuranti parole che ad esempio i lupi generalmente non attaccano l’uomo, è proprio quel “generalmente” che mi lascia insoddisfatta.

 


Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.


 

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