di Silvio Brachetta
Due sono i mondi, il naturale e il soprannaturale. Due le speranze, quella disillusa, in questa vita, e quella appagata, nella vita eterna. Due le realtà della sostanza umana, la corporale e la spirituale. Due le città, la città dell’uomo e la città di Dio. Due i luoghi sempiterni, l’inferno e il paradiso. Due le paternità, la terrena e la divina. Due le maternità, la carnale e la mariana.
Sono due, anche, gli Avventi, le venute del Cristo nella storia: una nel tempo, a Betlemme, che conosciamo come incarnazione – e una alla fine del tempo, quando il Signore tornerà a giudicare i vivi e i morti. Non è strano tutto ciò – dice san Cirillo di Gerusalemme, nella quindicesima Catechesi – poiché «quasi sempre nel nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice». E, dunque, è «duplice la generazione [del Verbo], una da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana, da una Vergine nella pienezza dei tempi». Non solo, ma «due sono anche le sue discese nella storia: una prima volta è venuto in modo oscuro e silenzioso, come la pioggia sul vello; una seconda volta verrà nel futuro, in splendore e chiarezza davanti agli occhi di tutti».
Secondo Cirillo, duplice è l’affetto del Cristo (sofferenza e gioia), come duplice è il suo giudizio (la croce e la gloria): «Nella sua prima venuta fu avvolto in fasce e posto in una stalla, nella seconda si vestirà di luce come di un manto. Nella prima accettò la croce senza rifiutare il disonore, nell’altra avanzerà scortato dalle schiere degli angeli e sarà pieno di gloria».
La presenza gloriosa del Cristo
È necessario – continua Cirillo – non limitarci a meditare solo sulla prima venuta, ma vivere in attesa della seconda. La magia del freddo Natale è un preludio alla magia del Natale perpetuo, perché il Verbo è generato eternamente dal Padre e questa generazione è fonte di beatitudine infinita, a cui l’uomo è chiamato a partecipare. Soprattutto chi è nella sofferenza e piange per la mancanza di giustizia, deve guardare a Gesù con amore e credere fermamente che «vi sarà la fine di questo mondo e la nascita di un mondo nuovo».
L’Avvento del Cristo alla fine dei tempi è chiamata anche “parusia” che, secondo il significato greco, si può tradurre con “presenza”. La parusia, nel senso generale, è la presenza del Re, del divino. Non è sbagliato considerare la parusia un “ritorno”, seppure non sia opportuno ritenerla tale: la presenza, infatti, è uno stato dell’essere che va oltre il tempo, così come Dio non ha bisogno di andare e tornare fisicamente in alcun luogo. C’è una differenza, inoltre, tra la prima e la seconda parusia. Nella prima – l’incarnazione – Dio si spoglia di se stesso e viene al mondo nella povertà, nella sofferenza della croce. Nella seconda – alla fine della storia – Dio viene nella gloria e nella potenza.
San Paolo, nella Lettera a Tito (11-13), attesta dell’incarnazione del Verbo nella storia: «È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo». E non solo (o non tanto) per via della nostra vita secolare, ma «nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Qua san Paolo chiama «beata» la speranza, perché la parusia del Signore è la realizzazione della salvezza umana, dopo che Gesù ci ha redenti e perdonati nel suo sangue. La parusia finale è anche il giorno del giudizio, nel quale il Cristo «è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai» (Ml 3, 1-3). Egli «siederà per fondere e purificare»: chi mai «sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?». I penitenti certamente sopporteranno e resisteranno nel giorno del giudizio e, anzi, pronunceranno nuovamente il soave cantico natalizio: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21, 9).
Non solo due, ma quattro Avventi
Quanto a Dio, allora, vi è una duplice operazione che, dal seno della Ss. Trinità, emana nella storia, prima con l’incarnazione del Verbo e poi con la parusia finale. In questo senso, gli Avventi sono due. Ma proprio perché il Signore è presente nella storia, la sua operazione coinvolge l’uomo, la sua vita, la sua libertà e la sua possibilità di scegliere il bene e il male. Per questo motivo sant’Antonio di Padova, nel Primo Sermone di Avvento, espande la presenza di Dio e parla di quattro Avventi – nei quali l’uomo ha una parte attiva: egli non è mero spettatore, ma è il soggetto al quale Dio rivolge tutta la sua attenzione e il suo amore. Il primo Avvento è la presenza di Cristo nella carne (incarnazione), il secondo è la presenza di Cristo nella mente umana (conversione), il terzo è la presenza di Cristo al momento della nostra morte (scelta), l’ultimo Avvento è la presenza di Cristo nella maestà (giudizio).
Sant’Antonio dà una lettura molto originale del celebre passo lucano d’Avvento: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle» (Lc 21, 25). Il sole è Gesù Cristo, che è «sol, solus»: è solo, nel senso che «abita una luce inaccessibile», come dice l’Apostolo. E questo sole «è divenuto nero come un sacco di crine» (Ap 6, 12), ovvero la natura divina del Verbo assunse la natura umana, come se un sacco coprisse una grande luce. Ecco dunque che l’Emmanuele prende la carne della Vergine, che è carne non corrotta dal peccato, come quella di Adamo prima della caduta. I «segni nel sole» – dice Antonio – rappresentano le cinque piaghe del corpo di Gesù, alle mani, ai piedi e al costato. Piaghe di passione e di amore, per aprire all’uomo le porte del paradiso. Dalle piaghe esce il sangue, che «grida misericordia», non come quello di Abele «che gridava vendetta». In questo primo Avvento, in questa prima presenza del Re dei Re, «suona la tromba della predicazione», per annunciare al mondo la salvezza.
Il secondo Avvento è nella mente dell’uomo, di cui parla il Vangelo: «Vi saranno segni nella luna», laddove la luna «diventò tutta simile al sangue» (ibidem). La luna è la figura dell’uomo – in quanto è uno tra le luci – e il sangue è il simbolo della purificazione. Quando, pertanto, Dio si manifesta nella mente, l’uomo è tenuto alla contrizione e al pentimento, seguendo la via della castità, dell’umiltà, dell’astinenza e della povertà. Viceversa, il peccato allontana la pace interiore e rende il cuore dell’uomo sempre più avaro, più idolatra, più cieco. Il sangue è anche il simbolo della «contrizione del cuore», per cui dice l’Apostolo che «senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Eb 9, 22), proprio nel senso che non si entra nella salvezza senza contrizione.
Il Signore chiama alla salvezza
Il terzo Avvento ha a che fare con la morte corporale, quando il Signore si fa presente per il giudizio particolare di ciascuna anima. A questo è riferita la terza affermazione evangelica summenzionata: «Vi saranno segni nelle stelle». Le stelle – prosegue il santo di Padova – sono gli uomini viventi, che «dal cielo caddero sopra la terra» (Ap 6, 13). Questo significa che la natura umana dovrà cadere, alla fine dei giorni di ciascuno, verso la polvere dalla quale fu tratta da Dio. La morte del giusto o del penitente è, però, beata e l’uomo può affermare: «Io gioisco pienamente nel Signore e la mia anima esulta nel mio Dio» (Is 61, 10). Differente è la morte disperata dell’empio, che non resiste allo sfinimento delle membra e all’angoscia che gli trasmette il demonio. Sono appunto le creature infernali che cercano di portare lo spirito umano alla disperazione, immettendo in esso la «paura della geenna», specialmente nell’ultima fase della vita terrena. La volontà di Dio è ben diversa: il suo amore desidera che l’uomo non sia «deriso dai nemici», né che muoia avvelenato dal pungiglione della morte.
La parusia finale, ossia il giorno del giudizio, è il quarto e ultimo Avvento del Cristo, che verrà in «potenza e maestà». Sant’Antonio precisa che la potenza «riguarderà coloro che saranno condannati», mentre la maestà «coloro che saranno salvati». I giusti guarderanno un Gesù maestoso, pieno di gloria e splendore, mentre il loro sguardo s’illuminerà di meraviglia benevola verso la fiamma dell’amore. I reprobi, al contrario, resteranno paralizzati dallo sguardo tremendo e potente del Giudice, che infliggerà loro una fiamma di rigore.
Il Verbo, che davanti a Pilato e nel corso della storia umana è stato in silenzio, nell’ultimo giorno «griderà come una partoriente», lasciando in tal modo «libero corso al rammarico sì a lungo represso». Se lungo i secoli il Cristo è rimasto nell’attesa paziente del pentimento dei peccatori, ora – nel giorno dell’ultimo Avvento – Egli ridurrà al nulla la superbia, l’idolatria e le vane ricchezze materiali. In questo giorno eterno della salvezza, i giustificati dal sangue dell’Agnello «non resteranno delusi», poiché «saranno finiti i giorni del lutto», come profetizzò Isaia (60, 20).
Proprio perché tutti «vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria», il Vangelo lucano avverte: «Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
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