Un articolo scritto dal prof. Leonardo Lugaresi e pubblicato sul suo blog

 

Esplosioine nucleare - Foto: shutterstock)

 

Penso che Putin non ami la Russia più di quanto Hitler amava la Germania. E quanto la amasse colui, lo si vede bene dai suoi atti: pur sapendo che la guerra era perduta, almeno dai giorni della sconfitta di Stalingrado (perché era tutto fuorché stupido), non cercò mai una via d’uscita per il bene del suo popolo. L’annientamento della sesta armata di Paulus, che egli volle ad ogni costo, fu anzi l’inizio della sua guerra contro la Germania, che portò avanti fino al giorno della sua morte con una determinazione incrollabile e con una ferocia non inferiore a quella rivolta ai nemici. Colpevole di non corrispondere alla volontà del suo capo, il popolo tedesco doveva morire con lui. Tutto quanto. Tale fu l’amore di Hitler per la Germania, a cui diceva di aver dedicato l’intera sua esistenza! Se, come si dice da parte di tanti qui da noi che pretendono di saperla lunga, “Putin è come Hitler”, che cosa dovrebbe mai trattenerlo dal fare altrettanto, qualora si vedesse perduto? L’amore per la Russia?

Non so se «il patriottismo» sia – come diceva Johnson (Samuel, non Boris) – «l’estremo rifugio delle canaglie», ma temo che i patrioti, di regola, amino non la patria, come proclamano sempre, ma solo l’idea che se ne sono fatti: in definitiva, tengono più che altro a se stessi. Ma che cos’è poi la patria? Uno semplice, come me, risponderebbe: è un popolo in un territorio. Il territorio è sì importante, ma secondario: la storia ci mostra che i confini delle nazioni si allargano e si restringono continuamente, nel corso dei secoli. La retorica dei «sacri confini» è pura menzogna: se volessimo prenderla sul serio, quella presunta sacralità, dovremmo cominciare a riconoscere che i confini degli stati europei attuali sono quasi tutti “blasfemi”, perché frutto di innumerevoli guerre di aggressione, annessioni e unificazioni violente che “il sacro suolo della patria” l’hanno violato mille volte. Il controllo e la difesa delle frontiere, beninteso, sono un dovere primario di ogni stato (cosa di cui, per inciso, ci si dovrebbe ricordare anche quando si fa l’altra retorica, quella dei “migranti”), ma è una materia esclusivamente politica, che non ha nulla di “sacro”.

Il popolo è più importante del territorio, perché senza di esso l’individuo non può sviluppare una vita pienamente umana, anzi nemmeno si realizza come persona umana. Non è semplice, però, spiegare cosa sia un popolo: probabilmente è fatto di tante cose, tra cui in primis una cultura, una storia, una lingua comune eccetera. Ma prima di tutto questo, non bisogna dimenticare che un popolo è fatto di persone, e ogni singola persona è diversa da tutte le altre, unica ed irripetibile, a immagine e somiglianza di Dio che l’ha creata. Ogni singola persona umana, quindi, in forza di questo rapporto costitutivo con l’ontologia divina vale più di qualsiasi altra cosa materiale o spirituale che si possa pensare a questo mondo, tranne una sola: il rapporto con Dio che, appunto, la fa essere. In altre parole, nulla vale quanto una singola vita umana, tranne l’appartenenza di quella vita a Dio, e c’è una sola cosa per cui è sempre e comunque obbligatorio sacrificare la vita: fare la volontà di Dio. Nessun altro valore, per quanto alto sia, può stare al di sopra della vita umana ed esigerne il sacrificio. Non la patria, non il popolo, non la libertà, a meno che questi non siano il nome, o il volto, che il comandamento divino dell’amore assume in una certa circostanza. Una persona può infatti decidere di morire per la patria, per il popolo, per la libertà o per qualche altro grande valore perché è convinta che quello è il modo che Dio gli indica per “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13), cioè realizzare l’amore più grande che ci sia. E questa è santità.

Uno può anche decidere di morire per una causa che reputa nobile, e sbagliarsi nel giudizio perché non è ciò che Dio gli chiede, e il bene per cui dà la vita vale meno della vita stessa. Si potrà dunque, e forse talvolta perfino si dovrà, disapprovare la sua decisione, ma bisogna comunque guardarla con religioso rispetto: ha dato la sua vita! Ma nessuno, nessuno mai, per nessuna ragione e in nome di nessun principio ha il diritto di far morire gli altri: per la patria, per il popolo, per la libertà, per la giustizia, per la pace, o per qualsiasi altra bella parola. “Libertà o morte!”, vedo che si proclama qui da noi, sempre più imperiosamente, dai più diversi pulpiti mediatici, in queste orribili settimane di guerra altrui, mentre si lavora alacremente a una guerra ancor più grande. Si intende la libertà politica, quella “della patria”, che sola renderebbe la vita degna di essere vissuta; e soprattutto si sottintende la morte degli altri: oggi “l’eroico popolo ucraino” che combatte contro l’invasore, e che è fatto di persone, uomini donne e bambini i quali non vorranno tutti – io penso – morire per quello. Domani toccherà a qualcun altro. Ma “Libertà o morte!” è un discorso che, per essere non dico veri ma almeno decenti, bisogna fare mettendo seriamente in gioco se stessi e i propri cari. Se davvero voglio sostenere che la vita senza libertà politica non è degna di essere vissuta, devo essere seriamente pronto a volere la morte mia, dei miei figli e dei miei nipoti. Devo prendere tra le braccia il mio bambino, guardarlo negli occhi, e dire, sul serio: “tu devi morire!”.

Joseph e Magda Goebbels, 77 anni fa, giusto in questi giorni, ritenendo che la vita senza il Führer non meritasse di essere vissuta, nel bunker della cancelleria uccisero i loro sei figli e poi si suicidarono. L’impronta diabolica di quell’orrore è, io spero, riconoscibile da tutti. Eppure si deve riconoscere che furono seri e coerenti nel porre l’alternativa: “x o morte”. Si dirà che la loro x era orribile, mentre la nostra è bellissima, e che quindi il confronto è improponibile, ma se ci resta un briciolo di raziocinio non si potrà non vedere che, quando si ammette che in nome di un “grande valore” qualcuno ha il diritto-dovere di disporre la morte di un altro, è in quell’orrore che prima o poi si va a finire.

«È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» è sì una frase del vangelo, ma l’ha detta Caifa, non Gesù.

Leonardo Lugaresi

 


 

Sostieni il Blog di Sabino Paciolla

 





 

 

Facebook Comments
Print Friendly, PDF & Email