Sergio Mattarella

 

 

di Antonio Caragliu

 

Luca De Netto affronta nel suo intervento un tema di stringente attualità: le limitazioni e finanche la totale soppressione di fondamentali libertà della persona, in spregio dei principi contemplati dalla Carta Costituzionale, in nome della tutela della salute pubblica.

Dico subito che, pur condividendo il bersaglio polemico del Collega, non ne condivido né la diagnosi e né la prognosi.

 

1. Innanzitutto bisogna constatare che le voci critiche circa le problematiche determinate dalla gestione governativa del lockdown non sono state affatto poche, ma numerose ed autorevoli. Un nome su tutti: Sabino Cassese, esimio accademico e giudice emerito della Corte Costituzionale. Tuttora la discussione è aperta e vivace tra gli studiosi e gli addetti ai lavori.

Ciò che, a tutt’oggi, suona privo di vivacità è il tetro silenzio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella su tali questioni. La ragione politica di un simile atteggiamento è evidente. Mattarella  ha sempre fatto pressioni per formare un governo composto dal Partito Democratico e dal Movimento 5stelle. Il secondo Governo Conte ha trovato nel Presidente una sponda molto simile ad una regia. Ora che, nel mezzo di una crisi sanitaria ed economica di dimensioni epocali, emerge l’ineludibile pochezza del Governo Conte, Mattarella è privo di margini di manovra nei confronti delle forze parlamentari e, soprattutto, nei confronti di Giuseppe Conte, con il quale si è politicamente compromesso in un modo e in una misura poco consoni al suo ruolo di organo, politicamente neutro, di controllo e garanzia. La discussa normazione a colpi di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) da una parte ha permesso al Presidente della Repubblica di tenersi in una posizione defilata, non trattandosi di atti che richiedono la sua firma, dall’altra ha evitato al Governo pericolosi confronti parlamentari. Di qui il rifugiarsi del Nostro, che tra l’altro è un ex giudice della Corte Costituzionale (sic!), in discorsi pubblici dal carattere omiletico nei quali la specialità è il richiamo all’unità e alla coesione sociale, presentati come articoli di fede di una agonizzante religione secolare.

Ora, queste sono considerazioni di bassa cucina politica e il mio Collega offre una lettura filosofica di ben più ampio respiro e profondità. Ciononostante mi pareva opportuno svilupparle a mò di introduzione: le contingenze della cronaca contribuiscono a spiegare le ragioni di una crisi di sistema, a mio giudizio irreversibile.

 

Platone

Platone

2. Luca De Netto riconduce la ragione “filosofica” del vulnus alle libertà costituzionali alla crisi del costituzionalismo, presentato come «l’idea che basti una Costituzione, ossia una legge scritta e formale, quand’anche nella sua dimensione “materiale”, a tutelare i cittadini nei loro diritti e alla tenuta di un ordine che si presuppone pluralista e popolare». Ora, questo non è il “costituzionalismo”, ma la concezione formale della costituzione elaborata e promossa nel ‘900 da Han Kelsen. Un autore che, non a caso, il Collega cita e critica richiamandosi alla teoria dello stato di eccezione di Carl Schmitt. Il punto è che costituzionalismo e giuspositivismo sono due cose diverse. Costituzionalismo non significa “fede in una Costituzione scritta”: l’Inghilterra, che è la patria del costituzionalismo, non ha mai avuto una costituzione scritta.

Il costituzionalismo è quell’insieme di tecniche giuridiche volte a garantire il cittadino dal potere dello stato moderno (termine invero pleonastico, essendo lo stato per definizione moderno).

In questo senso il costituzionalismo nasce con la modernità, pur avendo le proprie radici ideali proprio nella tradizione del diritto naturale.

Perché, allora, De Netto riconduce il costituzionalismo all’utopia? In che cosa consiste questa non corrispondenza con “la realtà ontologica” dell’uomo? Dov’è la prova di questa non corrispondenza?

Invero il costituzionalismo liberale si fonda su una concezione dell’uomo tutt’altro che utopica. Ciò che lo muove e lo ispira è la diffidenza per il potere ed i suoi abusi. Ma, se da una parte De Netto imputa un carattere utopico al costituzionalismo, richiamandosi ad Ayuso, dall’altra gli imputa, con Castellano, di fondarsi su una “visione pessimistica – e quindi ideologica e non veritiera – della natura umana”. De Netto afferma con Castellano che la Costituzione “consente solo una razionalizzazione del potere”, “non offre garanzie per difendersi dal potere, né per chiedere e pretendere che l’esercizio del potere politico avvenga nel rispetto della verità e della Giustizia”.

Ora, la questione è: qual è l’alternativa che propone De Netto?

È un richiamo al diritto naturale. Un diritto naturale che, a differenza del giusnaturalismo moderno, è “un Diritto fondato sull’essere”, in opposizione alla “vecchia linea liberale che assumeva la libertà come indifferenza garantita dall’ordinamento giuridico positivo” e alla “libertà, fondata sull’individuo astratto e non sulla vera natura umana”, che trasforma la libertà in licenza e il diritto in mera regola.

Il punto però è: chi dovrebbe far rispettare questo diritto?

De Netto si limita a richiamarsi alla figura del Giurista, definito come “il Sacerdote che tratta le cose sante, secondo la nota espressione di Ulpiano poi ripresa dai re normanni e tenuta presente per tutto l’ordine giuridico medievale, dove Teologia e Diritto viaggiavano di pari passo ed erano al vertice dell’assetto sociale”.

Purtroppo una simile prospettiva, oltre che fondata su un’immagine del Medioevo più ideale che reale, elude il problema istituzionale. È una prospettiva filosofica la cui matrice è chiaramente riconducibile all’utopia politica platonica. Un’utopia che, aggiungo, mi pare abbia ben poco di cristiano e cattolico. Leggendo il discorso di De Netto mi sono chiesto quale potesse essere il ruolo della Chiesa in un mondo sociale nel quale il Giurista ricopre un ruolo spirituale ascrivibile a quello del re filosofo platonico.

john locke

john locke

3. L’errore logico di fondo della prospettiva filosofico giuridica esposta da De Netto, per il quale l’unico vero diritto è il diritto al vero bene, è riconducibile alla teoria di Danilo Castellano, più volte citato nel suo discorso.

Per Castellano la filosofia dei diritti umani concepisce la dignità della persona come libertà e la libertà come “libertà negativa” e, identificando la natura umana con questa libertà, alla fine nega la stessa sussistenza della natura umana e riduce la libertà a licenza e arbitrio. Di qui la sua critica al liberalismo e alla modernità.

È una critica, a mio avviso, niente affatto centrata. Identificare la libertà negativa con l’autodeterminazione assoluta è un arbitrio logico. Il concetto di “libertà negativa” non è una novità moderna. La libertà negativa è figlia del diritto di proprietà, il diritto soggettivo per eccellenza. L’azione lecita è l’azione non impedibile da altri: di qui il concetto di libertà negativa, che significa assenza di impedimento, non arbitrio o autodeterminazione assoluta come pretende Castellano.

Da un punto di vista storico questa derivazione del costituzionalismo liberale dal giusnaturalismo antico e, soprattutto, medievale, è evidente nel padre del liberalismo moderno: John Locke.

La modernità di Locke, infatti, non consiste certo nella sua concezione della proprietà come comprensiva dei beni della vita, della libertà e dei beni. In questo Locke si attiene alla tradizione medievale dei legisti inglesi e della Magna Charta. Locke innova la concezione della proprietà unicamente perché ne fa valere un carattere pieno ed esclusivo, di contro alla tradizione feudale per la quale sullo stesso bene potevano inerire più diritti.

E, d’altra parte, nessuno dei cosiddetti “nuovi diritti”, giustamente criticati dal Magistero della Chiesa cattolica, è riconducibile allo schema di un diritto negativo di libertà. Sono tutti diritti positivi che obbligano gli altri consociati ad un riconoscimento, non ad una mera astensione.

Il fatto è che il diritto non ha una funzione pedagogica, ma di garanzia. Ed è in virtù di questa funzione di garanzia che noi distinguiamo il diritto dal bene morale. Una distinzione che non nega il carattere etico del diritto, ma che, riconosce il valore dell’autodeterminazione dell’uomo oltre che quello della certezza dei rapporti giuridici. Certezza che non è di certo garantita dal giudizio di un “Sacerdote Giurista”, di specchiata moralità, provvidenzialmente vincitore di un concorso pubblico in magistratura.

 

4. Tutto ciò considerato, il costituzionalismo liberale e le tecniche giuridiche da esso approntate (costituzioni scritte, Corti Costituzionali, indipendenza della magistratura, divisione dei poteri, dichiarazioni dei diritti…) ha da tempo mostrato la sua inadeguatezza a limitare il potere e a garantire con efficacia le libertà del cittadino. È un tema ricorrente nella riflessione degli studiosi, specialmente a partire dall’affermazione della democrazia di massa.

Ma la crisi, al fondo antropologica, della modernità non è quella di una libertà negativa mal assimilata all’arbitrio e alla licenza. È la crisi della sovranità. È la crisi della (pretesa e  illusoria) razionalizzazione del potere che pone lo Stato come istanza sovraordinata ed esclusiva: la vera novità moderna che spazza il pluralismo potestativo medievale in nome della reductio ad unum. Significativamente Ernst-Wolfgang Böckenförde intitola un suo saggio del 1967 “La nascita dello stato come processo di secolarizzazione”.

A me pare che la soluzione offerta da certa filosofia tradizionalista cattolica, volta a instaurare un sacerdozio politico votato al vero bene o al vero essere, elude il problema istituzionale, e, paradossalmente, si mantiene nel solco di una modernità che non distingue la Chiesa dallo Stato.

 

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