Ricevo e volentieri pubblico.
Ormai stiamo tutti aspettando la grande cancellazione dei nostri diritti, oltre che dei nostri redditi e dei nostri risparmi. Il tema è diventato l’argomento dominante di una parte consistente di persone che cercano risposte ai tanti dubbi. Klaus Schwab e il WEF da una parte, ma anche numerosi commentatori e uffici di ricerca hanno aperto un fronte di confronto da cui se ne esce solo con un posizionamento di tipo calcistico: o pro o contro, senza quasi altra soluzione.
Proviamo a fare qualche ragionamento differente, basandoci su quanto sta accadendo adesso. Concentriamoci sull’inflazione; attualmente in Italia è pari al 6,8% su base annuale (fonte Istat), il dato più alto da diversi anni e sta continuando a crescere con un’accelerazione impressionante.
Possiamo osservare questa situazione già sui costi dei nostri consumi: i prezzi dei beni sono cresciuti del 9,7% tendenziale, mentre i servizi si sono fermati ad un “ridotto” 3,1%, in crescita entrambi di un punto percentuale rispetto al mese di aprile. Avete provato a verificare l’impatto di questi dati sul vostro bilancio familiare? A me sembra che già così sia significativo.
E qui nasce la mia provocazione. Se ipotizziamo che questo trend continui ancora per qualche mese, fino a superare le soglia del 10% e lì rimanga per tre/cinque anni, avete pensato a quali danni potrebbe fare? Pensate ai costi da noi sostenuti e alle nostre fonti di reddito. Ci potremmo trovare di fronte ad una situazione in cui le nostre uscite, soprattutto quelle di base: alimentari, affitti, carburanti, ecc., continueranno ad aumentare, mentre le entrate, rappresentate da stipendi e pensioni, resteranno sostanzialmente al palo (a differenza di quanto avvenne 40/50 anni fa quando c’era la scala mobile che compensava ampiamente la perdita di valore reale dei flussi monetari).
Avete provato a fare quattro calcoli? 10% annuale di inflazione, cumulati per 5 anni, significa una perdita di valore reale del 61% e questo vale per tutti i valori non protetti, quindi anche per i risparmi che sarebbero così più che dimezzati nel loro valore reale.
E questo non potrebbe essere considerato come l’attuazione di un reset ben programmato, ma fuori dall’attenzione generale?
Ma non è ancora finita. Le banche centrali, che controllano la politica monetaria degli USA e della UE hanno cominciato a far crescere il costo del denaro. Secondo la teoria classica, una politica monetaria più restrittiva è necessaria per fronteggiare e contenere la crescita del costo della vita generata dalla domanda: se aumentano i tassi ufficiali i consumatori avranno meno spazio per indebitarsi e la domanda di beni e servizi diminuirà, riportando in equilibrio il mercato, con un danno probabile dell’occupazione.
Ora, invece, l’inflazione deriva dalla crescita dei costi e i prezzi che i consumatori subiscono non nascono dall’eccesso di domanda, bensì dall’eccesso di costo. L’aumento dei tassi ufficiali, quindi, ridurrà ulteriormente la già scarsa domanda e lascerà del tutto indifferente l’offerta. In questi casi occorre un intervento deciso da parte delle autorità centrali, finalizzato al controllo della catena dei prezzi siano essi delle materie prime, piuttosto che dei fattori di produzione. In effetti non so chi di voi non abbia notato che molti dei prezzi al dettaglio sono esageratamente cresciuti … “a prescindere” … come diceva Totò, cogliendo solo l’occasione offerta, con uno spirito squisitamente speculativo. Ecco, è questo che dovrebbero fare le autorità centrali: controllare che nessuno “peschi nel torbido”.
Invece l’aumento dei tassi ufficiali non farà altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco dell’inflazione, giusto per realizzare il progetto di riduzione non marginale del valore reale dei beni e dei flussi monetari sotto gli occhi di tutti che sono invece concentrati a reagire quando qualcuno schiaccerà il pulsante del grande azzeramento. Non vi sembra che potrebbe essere un diversivo efficace?
Claudio Izzo
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