Rilanciamo un articolo di Daniele Capezzone sulla nuova ordinanza del Ministro Speranza sull’uso delle mascherine in luogo pubblico.

 

Giuseppe Conte Ride

Ieri La Verità ha svelato il reale obiettivo politico perseguito dal governo attraverso l’ordinanza post Ferragosto del ministro Roberto Speranza: mantenere ben tesa la corda della paura, drammatizzare dati sanitari che invece (per fortuna) restano largamente sotto controllo, colpevolizzare i cittadini, prefigurare giustificazioni per i pasticci e i ritardi accumulati verso la ripresa dell’anno scolastico, e infine riaprire la corsa affannosa al Mes (tema rilanciato ieri da Nicola Zingaretti in persona).

La logica del governo è sempre la stessa – paternalista e illiberale – che abbiamo imparato a conoscere dalla primavera scorsa: se qualcosa va bene, è merito di Giuseppe Conte; se qualcosa va male, è invece colpa dei cittadini irresponsabili (stavolta il bersaglio prescelto sono le ragazze e i ragazzi).

Conte e i suoi hanno provato ad applicare questo stesso schema al rapporto con le regioni, tendenza che il governo ha cercato di imporre sin da maggio, al momento della pianificazione dell’uscita dal lockdown, scaricando le responsabilità sui governatori. Come se un’eventuale futura risalita dei contagi dovesse finire moralmente sulle spalle delle regioni.

Dentro questa cornice, già assai discutibile, per non dire inaccettabile, spiccano almeno quattro clamorose anomalie nell’ordinanza del ministro della Salute.

Primo: gli orari in cui scatta l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto. Recita l’ordinanza: “E’ fatto obbligo dalle ore 18 alle ore 6, sull’intero territorio nazionale, di usare protezioni delle vie respiratorie anche all’aperto”. Se non parlassimo di cose serie, ci sarebbe perfino da sorridere, come se il Coronavirus avesse un ‘orario di lavoro’ da metronotte o da portiere notturno, a riposo di giorno e invece pericolosamente operativo dal tardo pomeriggio in poi.

Ancora una volta assisteremo alla limitazione di diritti e libertà costituzionali da parte di un Dpcm?

Secondo: l’incredibile vaghezza delle indicazioni sui luoghi dove sarà imposto l’obbligo della mascherina. Ecco l’elenco contenuto nell’ordinanza: “all’aperto, negli spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico, nonché negli spazi pubblici (piazze, slarghi, vie, lungomari) ove per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea e/o occasionale”. Chi stabilisce dove sia “più agevole” il potenziale formarsi di un assembramento? Chi decide il momento in cui può scattare una concentrazione di persone anche “spontanea e/o occasionale?”. Elementare, Watson: tutto sarà nelle mani del vigile che potrà multarci, con un inevitabile corredo di liti, bisticci, incomprensioni, tensioni evitabilissime. Solo a chi è sconnesso dalla realtà e pensa di poter ingabbiare dentro una regolamentazione serrata ogni singolo aspetto della vita umana poteva venire in mente di partorire una norma che – potenzialmente – può rendere passibile di multa anche chi stia passeggiando mangiando un gelato in una strada piuttosto affollata.

Terzo, e qui la questione si fa ancora più seria e delicata: la clamorosa restrizione delle possibilità di deroga consentite alle regioni. Recita l’ordinanza: “Le regioni possono introdurre ulteriori misure solo in termini più restrittivi rispetto a quelle di cui ai punti a) e b)” (ndr: il punto a riguarda le mascherine, il punto b la chiusura delle discoteche). Morale: secondo l’ordinanza dell’altro ieri sera, le regioni possono prevedere correzioni soltanto in senso ancora più punitivo rispetto alle decisioni del governo. Peccato che esattamente tre mesi fa, in una norma sovraordinata nella gerarchia delle fonti, cioè un decreto-legge (che vale come una legge, è fonte primaria, ben superiore a una mera ordinanza ministeriale) il governo avesse previsto il contrario, dopo un lungo negoziato con le regioni: e cioè che queste potessero derogare agli standard nazionali sia nel senso di una maggiore chiusura che nel senso di una maggiore apertura. Leggere per credere l’ultima parte del comma 16 dell’articolo 1 del decreto legge 33 del 16 maggio (poi convertito in legge dal Parlamento nel luglio scorso): La regione, informando contestualmente il ministro della Salute, può introdurre misure derogatorie, ampliative o restrittive”. Come si spiega questa correzione di rotta effettuata attraverso una norma di rango subordinato? Quarto, e qui si torna al tasto dolente dei Dpcm, cioè dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. L’ordinanza di Speranza rinvia infatti a un ennesimo futuro Dpcm: “La presente ordinanza produce effetti dal 17 agosto 2020 sino all’adozione di un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto- legge 25 marzo 2020, n. 19”. Formalmente, gli uomini del governo hanno già la giustificazione pronta: sì, è vero, decideremo ancora con un Dpcm, ma quel Dpcm risulta già autorizzato da un decreto legge convertito dal Parlamento, dunque c’è un avallo preventivo da parte delle Camere. Vero, l’obiezione in termini di stretto diritto sta in piedi: ma il punto di sostanza è cosa verrà scritto in quel decreto. Ancora una volta assisteremo alla limitazione di diritti e libertà costituzionali da parte di un Dpcm, cioè, vale la pena di ricordarlo, dall’equivalente di un decreto ministeriale (adottato però da Palazzo Chigi)? Stiamo parlando, in termini di gerarchia delle fonti, di un mero atto amministrativo.

E dunque torna più vivo che mai l’allarme lanciato proprio in un’intervista sulla Verità da uno dei più autorevoli giuristi italiani, l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, che ha denunciato il rischio di una sorta di “assuefazione”, che “si crei una consuetudine per cui con atti amministrativi si incida su diritti di libertà”. Eppure il governo insiste…

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