arte barocca

Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, 1633-39, Salone di Palazzo Barberini, Roma.

 

 

di Massimo Lapponi

 

Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae

 

Vi sono epoche nella storia umana in cui intere generazioni sembrano essere investite da una straordinaria energia creativa. Come se una speciale benedizione del cielo scendesse sulla terra, innumerevoli individui, spesso lontani tra loro nello spazio e nel tempo, ma non nello spirito, sembrano partecipare ad un’opera comune e i popoli rimangono come abbagliati dallo splendore delle loro realizzazioni, tanto profuse e varie, quanto intimamente imparentate da una comune ispirazione.

Uno di questi straordinari momenti creativi fu l’opera barocca, tra metà Seicento e fine Settecento, quando musicisti di varie nazioni, soprattutto italiani e tedeschi, inondarono l’Europa, dall’Elba al Tevere, dal Tamigi alla Neva, dalla Senna al Danubio, di celesti melodie. In questi ultimi decenni, oltre ai già conosciuti Händel, Vivaldi, Gluck, si vanno rapidamente riscoprendo innumerevoli musicisti che il tempo aveva ingiustamente messo da parte e che furono artisti non meno fecondi e ispirati di quei maestri più celebri.
Scegliendo nel grappolo gustoso in cui brillano i nomi di Caldara, Hasse, Bononcini, Graun, Pergolesi, Rameau e altri numerosissimi, un solo esempio potrà offrirci un barlume dell’afflato di divina ispirazione che investì l’Europa in quella straordinaria stagione:

 

Ma accanto a questi periodi creativi, in cui gli uomini sembrano partecipare di comune accordo alla stessa divina fecondità, dobbiamo anche annoverare periodi in cui sembra, invece, che dominino incontrastate la morte e la disgregazione. “Dove è finita” ci si chiede allora “quella celeste ispirazione, quell’onda di vita che sembrava sgorgare inesauribile da sorgenti nascoste in un inattingibile regno sovrumano?”
Sembra che il Creatore, sdegnato per i peccati degli uomini, abbia nascosta da loro il suo volto e che, perciò, tutto sia precipitato nel nulla:

«Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro, muoiono
e ritornano nella loro polvere» (Salmo 103, 29).

Tale alternanza di periodi di vita creativa e di decadenza distruttrice si registra anche nella vita della Chiesa, e non c’è dubbio che la stagione che stiamo vivendo sia uno dei peggiori momenti di sterilità spirituale e di agonia mortifera per la vita cristiana. E le parole del salmo che abbiamo riportato ce ne indicano efficacemente la causa: «Se nacondi il tuo volto, vengono meno». È, infatti, l’offuscarsi del volto di Dio nelle coscienze e nel cuore degl uomini che dovunque genera la morte.

Dobbiamo qui richiamare l’attenzione di tanti fedeli, soprattutto italiani, su un fenomeno di grande portata che si sta ampiamente manifestando da decenni, ma che la maggior parte dei credenti fa fatica a comprendere, perché le sue origini sono in un ambiente che è del tutto estraneo alla cultura italiana e alla tradizione cattolica, cosicché avviene facilmente che, quando improvvisamente esso ci si manifesta, rimaniamo interdetti come di fronte all’arrivo degli alieni.

Nel mondo di lingua tedesca, già da un paio di secoli e più, si è diffuso uno stile argomentativo, in campo filosofico e teologico, che ha finito per stravolgere i più elementari principi della ragione. Questa incredibile sofistica – che non si distingue sostanzialmente dall’antica – non rappresenta affatto la cultura tedesca nel suo insieme, ma ne è soltanto un aspetto, tanto parziale quanto problematico. Essa, tuttavia, approfittando della decadenza attuale degli studi, ha finito per assumere, con arroganza, il ruolo di arbitra della cultura, emanando le sue sentenze di condanna inappellabile su tutto ciò che non le si conforma.

Purtroppo questa mentalità – di cui vedremo tra poco un esempio – si sta diffondendo anche in altri ambienti, a livello mondiale, e anche in Italia. Gli italiani che studiano in Germania, infatti, quasi fatalmente cadono in una deleteria illusione. La lingua tedesca è, per noi, di difficile apprendimento e sono pochi quelli che riescono ad impadronirsene. E tanto è difficile, altrettanto essa è affascinante per uno straniero di origini latine. Avviene, allora, con estrema naturalezza, un fenomeno per lo più inconscio: il giovane privilegiato che, tra mille rimasti indietro, ha superato un ostacolo così formidabile, non può non sentirne soddisfazione e perciò è portato a considerare come una sorta di oracolo straordinario qualsiasi affermazione espressa in quella lingua magica, quand’anche fosse una banalità. Ecco, dunque, che, per un meccanismo inconsapevole a cui è difficile sottrarsi, il nostro giovane studioso si lascia affascinare dalla cultura oggi più diffusa in Germania, senza saper distinguere il grano dal loglio. E che gusto, in una conferenza tenuta di fronte ad un pubblico italiano che ti ascolta a bocca aperta, fare una citazione niente meno che in lingua tedesca!

Ma cosa ci vengono a dire questi giovani così infervorati del nuovo – anzi, vecchio! – verbo germanico?
È uscito recentemente un saggio del gesuita Paolo Gamberini dal titolo: “La fede cristiana in prospettiva post-teistica” – vedi qui .

Discepolo della sofistica tedesca, l’autore ci offre il vantaggio di mettere a nostra disposizione un’esposizione ben caratterizzata della deriva nichilista che sta invadendo la teologia e dei principi a cui essa si richiama. Il suo lavoro, dunque, può servire da punto di riferimento esauriente per un ampio ambito teologico non solo europeo, ma possiamo dire ormai planetario.

La sua argomentazione di fondo è molto semplice: rispetto al Dio della Bibbia, il Dio della metafisica, quale appare soprattutto in autori come Agostino e Tommaso, si distinguerebbe sostanzialmente per una sorta di demitizzazione; analogamente dobbiamo ora procedere ad un’ulteriore demitizzazione anche rispetto al Dio della metafisica.
Cerchiamo di chiarire meglio.

Il Dio della Bibbia ha caratteri fortemente antropologici. La metafisica, e San Tommaso in particolare, ha tolto a Dio gli aspetti antropologici, soprattutto affermando la sua immutabilità e la sua trascendenza assoluta rispetto al mondo creato, e postulando, perciò, l’esistenza di una mera “relazione di ragione” tra Dio e le creature. Agli occhi dell’autore del saggio, questa “relazione di ragione” sarebbe contraddittoria, e ciò metterebbe in crisi il concetto di Dio tramandato dalla tradizione metafisica.

Ad esso egli propone di sostituirne un altro, che, a suo giudizio, sarebbe più razionale.
Ma vediamo come egli stesso riassume il suo pensiero:
«Ciò di cui ha urgente bisogno la teologia cristiana – in dialogo con la modernità, le scienze e il pluralismo religioso – è assumere criticamente il paradigma del cosiddetto teismo personale, per avviare un ripensamento della teologia da un punto di vista post-teistico. Tale “nuovo” paradigma permette una comprensione di Dio riferita alla creaturalità fin dalla sua iniziale definizione, evitando così una visione interventistica e soprannaturalistica dell’azione divina. In tal modo sarà possibile definire Dio come “persona” in maniera dinamica e relazionale».
L’autore parla di «un punto di vista post-teistico». Ora la preposizione “post” indica una situazione in cui un precedente elemento non c’è più. Se un elemento non c’è, il fatto che non ci sia ancora, o che non ci sia mai stato, o che sia venuto meno è secondario. Ciò che è essenziale è che l’elemento manca. Quindi il suo «punto di vista post-teistico» si può a buon diritto definire: «punto di vista a-teistico», se la parola Dio significa ancora qualche cosa. Senonché, pur avendo escluso il concetto di Dio, lo stesso autore nello stesso tempo lo reintroduce, affermando candidamente che il nuovo paradigma post-teistico – cioè a-teistico – permetterebbe «una comprensione di Dio riferita alla creaturalità fin dalla sua definizione». Ma, di grazia, di che Dio sta parlando ora, visto che siamo in una situazione post-teistica? È chiaro che qui sta giocando con le parole: la stessa parola – Dio – ha per lui significati equivoci. Il primo è il Dio personale del teismo, che egli considera non razionalmente fondato, e perciò da abbandonare. E l’altro? Non si sa cosa sia! In tutte le sue successive elucubrazioni, interamente appoggiate ai nomi altisonanti di una certa cultura teologica tedesca, non fa che arrabbattarsi intorno al concetto contraddittorio di un Dio a cui è negata l’azione interventistica e soprannaturalistica, che è nello stesso tempo libero e non libero di creare e che, pur non avendo il volto del Dio personale del teismo tradizionale, potrà essere definito «“persona” in maniera dinamica e relazionale».

Che queste acrobazie mentali siano più comprensibili del concetto della “relazione di ragione” tra il Dio trascendente e immutabile e il mondo creato e contingente di Tommaso, di Scoto e di tanti altri illustri teologi, c’è veramente da dubitarne. E del resto l’affermazione iniziale su cui si basa l’autore, che cioè il Dio della metafisica sarebbe sostanzialmente diverso dal Dio antropomorfico biblico, è molto discutibile. Nella Bibbia il concetto di Dio attraversa una storia immensa e presenta aspetti estremamente vari e un continuo approfondimento. Oltre a espressioni certamente antropomorfiche, vi sono, di là da ogni dubbio, esplicite, solenni e tali da imporsi come prevalenti, manifestazioni di fede in un Dio assolutamente trascendente rispetto a tutto il mondo creato:
«Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui, come niente e vanità sono da lui ritenute» (Is 40, 17).
Non è certamente un caso che i teologi cristiani, come Agostino, Tommaso e Scoto, abbiano modificato il concetto della divinità dei greci alla luce della rivelazione biblica, esaltando al di sopra di tutto l’assoluta trascendenza di Dio!
In realtà il nostro autore non si accorge di essere assai poco critico e razionale e di meritare di rientrare nella condanna emanata già centocinquant’anni prima da Pio IX, quando individuò la falsa opinione secondo cui «non esiste niun essere divino, supremo, sapientissimo, provvidentissimo, che sia distinto da quest’universo, e Iddio non è altro che la natura delle cose», al punto che «Dio è una sola e stessa cosa col mondo» (Syllabus, I-I). Né si vede come il Dio in prospettiva «post-teista» del Gamberini e della sofistica tedesca possa distinguersi dalla concezione panteista condannata da Pio IX.
Ma il punto di arrivo di tutta questa teologia, oggi inflazionata, è che, nonostante la rassicurante intenzione di voler definire Dio «“persona” in maniera dinamica e relazionale», in realtà il volto di Dio sta scomparendo in vaste aree geografiche, a livello planetario. E quale sarà la conseguenza, se non quella già indicata dal salmo?

«Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro, muoiono
e ritornano nella loro polvere» (Salmo 103, 29)

Un’atmosfera di morte si sta stendendo su tutta la terra. Alla vitalità luminosa dei tempi di fecondità, sta succedendo la disgregazione della dissoluzione, e con essa non il dialogo creativo, bensì il cedimento mortifero alla modernità, alle scienze, al pluralismo religioso.

«Tu hai rigettato il tuo popolo,
la casa di Giacobbe,
perché rigurgitano di maghi orientali
e di indovini come i Filistei;
agli stranieri battono le mani (…)
Il suo paese è pieno di idoli;
adorano l’opera delle proprie mani,
ciò che hanno fatto le loro dita» (Is 2, 6.8).

Come ha scritto di recente Emanuele D’Agapiti – vedi: https://www.sabinopaciolla.com/il-volto-che-si-nasconde-dietro-la-maschera/ – le attuali tendenze a perdere la propria identità di popolo di Dio, fondata sulla rivelazione sinaitica e sul nuovo patto cristiano, non sono affatto una novità, ma non fanno che riesumare l’antica infedeltà a Dio dell’antico Israele e la tentazione di seguire i costumi dei popoli pagani. E ciò è dimostrato dall’esito di tanta parte della teologia e del costume, che si riduce a nient’altro che all’abbandono della morale sessuale biblica – esattamente come avveniva con l’infedeltà del popolo eletto:

«Non diventate idolàtri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandonarono alcuni di essi e ne caddero in un solo giorno ventitremila» (1Cor 10, 7-8).

È nostro stretto dovere di teologi e di credenti reagire a questa situazione di disgregazione e di morte. Tutti noi che abbiamo ricevuto una formazione sana, non inquinata da una sofistica che si raccomanda sontanto per la propria presunzione pseudo-culturale e per la nostra ingiustificata timidezza, dobbiamo con fiducia ripetere le parole del salmo:

«Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra» (Salmo 103, 30).

Preghiamo, dunque, il Signore che non ci nasconda più il suo volto e che al periodo della sterilità e della morte succeda infine la primavera di una nuova stagione di incontenibile forza creativa. E nello stesso tempo cerchiamo di raccogliere le nostre forze per un progetto comune.

 

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