Nella Chiesa Cattolica torna il tema delle scuse pubbliche e formali. Papa Francesco si è scusato con gli ortodossi per i crimini e peccati commessi nei loro confronti. Pare lo abbia fatto senza nemmeno verificare la sussistenza delle richieste di scuse fornite in una lista scritta dai chierici ortodossi. Nel 2016 invece, in un’intervista ad Asia Times, aveva benedetto i cinesi, tutt’altro che teneri coi cristiani e non solo, consigliando loro di riconciliarsi con il proprio passato, che per la verità ricorda da vicino anche il presente. Una simile disparità di trattamento (devo chiamare male solo quello che commetto io?) non lascia indifferenti.
L’ufficio Sinodale Vaticano si è poi scusato con un’associazione di consacrati LGBTQ denominata New Ways Ministry per la rimozione di un loro video dal sito ufficiale. Alla rimozione, il gruppo aveva reagito pubblicando due lettere autografe ricevute da Francesco, in cui il papa sottolinea la sofferenza patita e la non facile storia del fantomatico ministero LGBTQ. La coincidenza di questi due atti forse richiede una riflessione più ampia.
Chi pensava che la richiesta di perdono che San Giovanni Paolo II rivolse a Dio per il male commesso dalla Chiesa fosse l’ultima parola, deve probabilmente ricredersi. Ancora più lontana dalla sensibilità corrente, l’idea di felix culpa espressa da Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e San Tommaso. Inoltre si vede bene che mentre il sovrano addita peccati, i cortigiani si scusano per il colore del divano di casa.
L’esuberanza di scuse col tempo si è estesa fuori dall’ambito religioso: si scusano i capitani d’industria per errori di comunicazione, si scusano gli stati per schiavismo e colonialismo, ci si scusa in generale per qualsiasi offesa arrecata, cadendo qua e là nel paradosso di scusarsi per aver fatto notare il peccato al peccatore urtandone la sensibilità (ad esempio, la crisi franco-turca del 2006 sul genocidio armeno).
La colpa irredimibile è un pilastro della cancel culture woke statunitense. Si può dire, con una punta di divertita amarezza, che le scuse siano l’unico caso recente in cui la Chiesa Cattolica è stata fonte d’ispirazione globale. Un modello schiacciato sulla dimensione terrena, che travisa la prima e più pura intenzione di Giovanni Paolo II: è Dio che perdona. Il perdono umano o è un riflesso di quello divino, o è altro e come tale va interpretato.
Al tempo stesso infatti, congiuntamente alla formulazione forsennata di scuse sempre più capillari, si rigetta in blocco la teologia penitenziale: la nozione di peccato, la distinzione fra pena e colpa, l’idea di espiazione, il miserere, l’ammonimento circa la possibilità dell’inferno, la funzione del purgatorio. Le scuse sono una prassi laica depurata dal soprannaturale, un atto sostanziale di sottomissione di uomini ad altri uomini, sovente non molto migliori del penitente. Si cerca la benevolenza dell’offeso, benevolenza che quasi mai arriva se non sotto forma di richiesta di ulteriori scuse, in un climax umiliante che mira all’azzeramento dell’autorità morale e del bene fatto dall’altro.
Tutto viene compresso nella colpa insanabile. La differenza con la teologia cristiana in materia, giudicata opprimente, è lampante. Mentre il cattolico confessa al riparo del confessionale i propri peccati al sacerdote, che ha il divieto assoluto di divulgarli – procedura che a quanto pare fa inorridire la maggioranza delle persone – di contro le scuse per colpe risalenti a seicento anni fa (in sostanza, screzi fra gente morta) devono essere formulate nell’agorà mondiale, cioè deve investire anche persone storicamente del tutto estranee ai fatti. Si è introdotta l’idea di colpa storica, senza però bilanciarla con la possibilità della redenzione storica. Si parla sempre di scuse pubbliche, mai di pubblico perdono eventualmente accordato.
Allora vale la pena chiedersi: cui prodest? Soprattutto: quali benefici ha portato lo “scusantismo militante”? Alla prima domanda si può rispondere che giova a piccoli sottogruppi fortemente identitari votati a lucrare benefici politici e finanziari, nonché visibilità, che si garantiscono così la sopravvivenza sulla scena e soprattutto il potere e l’impunità che derivano dall’intangibilità critica e culturale. Comminare punizioni senza subirne è la quintessenza del potere. Chi vedesse in segni come questo il crollo del potere ecclesiastico – da giudice a imputato permanente – forse non sarebbe del tutto fuori strada.
Alla seconda si deve rispondere: nessuno. È la stanca ripetizione di un rituale esangue e privo di significato che non porta pacificazione né progresso nelle relazioni, siano esse ecumeniche o di altro genere. A quanto pare, sono solo i cattolici ad aver commesso atrocità assortite. Nessun atto di reciprocità. I posteri domanderanno: fu vera riconciliazione?
Senza scomodare evidenti tratti psicopatologici, occorre mettere a fuoco tre punti essenziali. Il primo: attenzione a considerare ogni offesa una colpa. Offesa e colpa sono semanticamente differenti, come lo squalo e la cassapanca. La verità può urtare la sensibilità di qualcuno, anzi lo fa infallibilmente, ma rinunciarvi per non urtare l’altrui amor proprio, o addirittura mentire per compiacere qualcuno, non è una buona idea. Il secondo: occorre ripristinare il trittico peccato, penitenza e perdono. Sono le fondamenta della nostra civiltà. Da ultimo: l’annullamento dell’autorità spirituale attraverso la denigrazione precede molto da vicino quello dell’autorità civile. Dopo viene il caos. Prendere nota.
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