La profezia non è solo dei consacrati, ma proviene – a volte – da chi ignora e rigetta qualsiasi idea di Provvidenza. Il filosofo rumeno Emil Cioran (1911-1995) ha elencato, con largo anticipo, i mali del vecchio continente e ne ha prospettato la dissoluzione, tra l’indolenza delle masse e la mediocrità di chi avrebbe dovuto intervenire.

 

Emil Cioran, filosofo rumeno

Emil Cioran, filosofo rumeno

 

di Silvio Brachetta

 

Già nel 1956, Emil Cioran intonava il suo canto del cigno per l’Europa moribonda. È pura profezia, quella che filtra dalle pagine del suo libro La tentazione di essere (Adelphi, 1984). Notevole è pure il titolo del capitolo in questione: “Su una civiltà esausta”. Cioran è del tutto esplicito:

«Se anche non avessi mai intuito l’irreparabile, un rapido sguardo all’Europa sarebbe bastato a farmene provare il brivido. Preservandomi dal vago, essa giustifica, attizza e lusinga i miei terrori, ricopre per me la funzione assegnata al cadavere nella meditazione del monaco».

Il filosofo rumeno non parla di crisi, ma di situazione «irreparabile». Non difficile, «irreparabile» – umanamente, da scettico qual’era. Predice, con più di mezzo secolo d’anticipo, l’invasione immigratoria:

«Non tutto è perduto: restano i barbari. Da dove emergeranno? Non importa. Per il momento, ricordiamoci che presto si metteranno in marcia, e che, pur preparandosi a festeggiare la nostra rovina, meditano sui mezzi per risanarci, per porre termine al nostro raziocinare e ai nostri sproloqui.

Nell’umiliarci, nel calpestarci, ci conferiranno energia sufficiente per aiutarci a morire, o a rinascere. Che vengano a sferzare il nostro pallore, a rinvigorire le nostre ombre, che ci riportino la linfa che ci ha abbandonati».

I barbari alle porte, dunque, come del resto cantava il poeta Konstantinos Kavafis, in Aspettando i barbari:

«[…] Perché mai tanta inerzia nel Senato?

E perché i senatori siedono e non fan leggi?

Oggi arrivano i barbari.

Che leggi devon fare i senatori?

Quando verranno le faranno i barbari. […]»

Cioran ha la stessa sensazione d’inerzia, di colpevole apatia da parte degli europei, incapaci ormai di aggregarsi o federarsi contro chi attenta alla civiltà, all’ordine:

«Avvizziti, esangui, non possiamo reagire contro la fatalità: gli agonizzanti non si coalizzano né si ammutinano. Come contare sul risveglio, sulle collere dell’Europa? La sua sorte e persino le sue rivolte sono decise altrove.

Stanca di durare, d’intrattenersi ancora con se stessa, l’Europa è un vuoto verso il quale muoveranno ben presto le steppe… un altro vuoto, un vuoto nuovo».

Vi è, anzi, un potere che rema contro – «La sua sorte e persino le sue rivolte sono decise altrove» – del quale oggi conosciamo i connotati e che smantella due millenni di giudeo-cristianesimo, comodamente assiso sugli scranni di Strasburgo e di Bruxelles.

Nessuno è in grado d’intervenire, immobilizzato nella paralisi, poiché «l’Europa è un vuoto», contro cui «muoveranno ben presto le steppe», magari camuffate dietro l’innocua via cinese della seta.

Su tutto questo Cioran ci va giù pesante. E preconizza:

«Quando passo in rassegna i meriti dell’Europa, mi intenerisco e me ne voglio per tutto il male che ne dico; se, invece, enumero i suoi punti deboli una rabbia mi scuote. Vorrei allora che sparisse al più presto e che ne svanisse il ricordo. Ma altre volte, nell’evocarne e gli onori e le vergogne, non so verso quali inclinare: la amo con rimpianto, la amo con ferocia, e non le perdono di avermi costretto a dei sentimenti tra i quali non mi è consentito scegliere.

Se almeno potessi starmene indifferente a guardare la delicatezza, le attrattive delle sue piaghe! Per gioco ho aspirato a crollare con lei, e a questo gioco mi sono appassionato. Nessuno sforzo mi è sembrato troppo grande per riappropriarmi della grazia che fu sua e di cui conserva ancora alcune tracce, per riviverla, per perpetuarne il segreto. Vana fatica! – Un uomo delle caverne impigliato in merletti…»

Terribile e impietoso, il filosofo confessa quindi il suo stato d’animo nei confronti del vecchio continente: «Vorrei allora che sparisse al più presto e che ne svanisse il ricordo». Nel 1956. Prima di ogni immigrazione di massa. Prima di Strasburgo e Bruxelles. Prima del Sessantotto. Prima della dittatura radicale e progressista. Prima del gender e del pansessualismo. Prima, tra l’altro, del Concilio Vaticano II.

 

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