Monaci che lavorano nei campi

 

di Pierluigi Pavone

 

1.

“Fuori del tempo politico, lontano dalla storia”. Ciò che in questa frase de Vogüe (San Benedetto uomo di Dio, San Paolo, 1999, p. 44) attribuisce a San Benedetto stride con le intenzioni monastiche.

E non solo per il fatto che il monachesimo occidentale fu l’immenso orizzonte di significato che alimentò e conferì limite, identità e senso a secoli interi di papi e sovrani, diritto e tradizione scritta, economia e evangelizzazione. I monaci furono allo stesso tempo le radici di un mondo che sopravvisse alla barbarie e le fronde di un universo di fede e lavoro.

Il monachesimo benedettino fu questo anche di diritto. Papi e Imperatori “dipesero” dal monastero: la teologia, fino alle Università, fu una teologia monastica, figurativa e meditativa. E proprio la meditazione, la lectio divina, la lettura dei Salmi, mediava la preghiera e l’attività lavorativa, l’occupazione pratica.

Nessuno fuggiva. Si combatteva il diavolo; si arava il campo; si confermava la Chiesa nell’opera di evangelizzazione dei pagani; si mediava tra Cielo e Terra, in una trasformazione visibile del mondo e in una traslatio dall’Impero Romano all’Impero Sacro. Assoluta politica. Assoluta storia.

2.

L’otium era piuttosto ciò che il monaco rifuggiva. Quell’otium che invece era il vanto e privilegio del saggio greco, di chi contemplava e godeva della sua libertà “dalle” attività lavorative. Libertà dal lavoro, secondo una sensibilità che nessun uomo moderno avrebbe mai compreso.

I moderni infatti faranno del lavoro l’azione di emancipazione, oggettivazione della propria umanità, legittimazione del possesso. Ma per Aristotele è l’agire costretto. Per definizione non libero e dell’uomo non libero, perché determinato dalle necessità biologiche. Se per Locke  e Smith (i padri del liberalismo politico ed economico) la libertà come diritto naturale è la libertà di determinare il profitto, la proprietà mediata proprio dal lavoro, per Aristotele il lavoro è del servo, nel senso che è l’attività servile.

3.

Si tratta della più grande differenza “sociale” tra Aristotele e san Tommaso: se entrambi, e diversamente dai moderni, sono convinti che l’uomo sia un animale politico, non allo stesso modo valutano il lavoro. Già il Dio di Aristotele, pur compreso e valorizzato nelle “cinque vie” della teologia razionale tomista, era comunque un Dio che non creava e non si interessava del mondo. Ora, il saggio – l’uomo libero, il maschio-adulto-cittadino, che già partecipa della vita politica, proprio perché è libero dal lavoro – imita Dio, proprio nell’otium di chi contempla se stesso, realizza le virtù etiche (giustizia su tutte) e soprattutto dianoetiche (arte, saggezza, scienza, intelligenza, sapienza). Persino Platone aveva reso la filosofia più funzionale alla vita politica (i saggi erano coloro che governavano e dovevano farlo, perché sapienti e col fine di realizzare la giustizia come bene di tutti): nello Stato organico di Platone, che pur contempla una distinzione in classi e un comunismo per la classe dirigente, il lavoro ha una sua dignità politica. I lavoratori sono comunque una delle tre classi, in un sistema generale di parità dei sessi e assenza di schiavitù. Per Aristotele, invece, la società deve contemplare gli schiavi, in quanto lavoratori.

4.

A essere precisi, però, non in senso razzistico. I moderni saranno coloro che vedranno lo schiavo come colui che lavora per il padrone, nella proprietà dell’uomo libero, in quanto è inferiore, sul piano “raziale”. La razza è la causa della inferiorità. E il lavoro senza diritti ne è la logica conseguenza. Per Aristotele, invece, i rapporti sono invertiti, perché il criterio non è la razza, ma l’elevazione dell’uomo al di sopra della bestia. In questo caso, lo schiavo è colui che umanamente si rende inferiore perché – lavorando – resta legato ad un’attività animale: nel senso che l’uomo non si eleva dalla sua bestialità, proprio perché compie un lavoro in analogia alla caccia della bestia. Attività, entrambe, che vengono realizzate per rispondere alle necessità biologiche. Il lavoro è la causa della “inferiorità umana”, è ciò che rende schiavi.

Nella valorizzazione monastica, al contrario, persiste l’idea che il lavoro sia un’attività propria dell’uomo, perché apparteneva già ad Adamo, prima del peccato originale, il quale ha aggiunto la fatica come punizione e pena.

 

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