di Giuliana Ruggieri
In questi giorni, alcuni amici hanno ripreso e condiviso sui social un vecchio articolo dell’8 dicembre del 2016 scritto da Caterina Pasolini e pubblicato da Repubblica.
Si tratta di una intervista al prof. Mario Sabatelli, primario al Gemelli di Roma, un ospedale di forti tradizioni cattoliche. Guida “Nemo”, il reparto all’avanguardia per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (SLA): 10 letti,140 nuovi pazienti ogni anno, 250 in cura.
Il titolo dell’articolo è di per sé fuorviante: “Io, medico e cattolico spengo le macchine ai malati che lo chiedono”. Nell’intervista si può leggere: “Piergiorgio Welby e Walter Piludu? Fossero stati miei pazienti, avrei seguito le loro decisioni senza bisogno di tribunali. Perché il rifiuto delle cure non è eutanasia ma una questione di buona prassi medica. Già oggi la legge, la Costituzione e il codice deontologico lo consentono. Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un ‘diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana’”.
Tali affermazioni non sono corrette.
Per affrontare la questione è necessario fare alcune precisazioni, la più importante delle quali è certamente la questione della relazione medico-paziente (evidente nell’intervista al Prof. Mario Sabatelli).
OCCORRE RIBADIRE LA CENTRALITÀ DI QUESTA RELAZIONE ANCHE SE ORAMAI DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SEMBRA TOTALMENTE ANACRONISTICA.
Il MEDICO CHE LA CORTE COSTITUZIONALE HA IN MENTE SERVE PER SOMMINISTRARE IL TRATTAMENTO LETALE.
Fin dal tempo della diagnosi, in particolare per i malati di SLA di cui parla il prof. Sabatelli, è necessario un PIANO ANTICIPATO DI CURA, un percorso di continua condivisione con il paziente e con i suoi familiari della situazione, della diagnosi, delle terapie possibili durante tutte le fasi della malattia, costruite in anni di rapporto con questi pazienti.
Per comprendere a fondo i termini di tale delicata questione bisogna però riflettere sul concetto di proporzione e quindi sul concetto di accanimento terapeutico.
L’anestesista Corrado Manni, che operava proprio al Policlinico Gemelli, aveva elaborato nel 1996 una definizione davvero calzante di accanimento terapeutico, secondo la quale si tratta di “un trattamento di documentata inefficacia, a cui si aggiunge una particolare gravosità per il paziente, che rende il trattamento medesimo chiaramente sproporzionato rispetto agli obiettivi della condizione specifica. In una simile prospettiva, l’accanimento o sproporzione non coincide con ogni trattamento che il paziente rifiuti, ma con una valutazione clinica, anche alla luce della risposta soggettiva del paziente.”
Ciò non si discosta molto da quanto precisato da Massimo Antonelli, direttore del Centro di rianimazione e terapia intensiva sempre del Gemelli, “se in un malato di Sla la ventilazione non risultasse più sufficiente, ma anzi complicasse ulteriormente la situazione del malato, si potrebbe emettere un giudizio di sproporzione e dunque desistere dal trattamento”. Ma, precisa, “si tratta di casi estremi”.
Ordinariamente, in effetti, la ventilazione meccanica nei malati di Sla è un trattamento indicato, che interviene ben prima dello stadio terminale di malattia, mantenendo la vita senza prolungare inutilmente l’agonia, anzi agevolando la funzione respiratoria compromessa e dunque offrendo un indiscutibile beneficio al paziente.
Dopo anni di continua condivisione della malattia il consenso informato acquista qui il suo vero significato, accompagnando il paziente anche nella scelta di non essere intubato.
E nello stesso tempo come dice dice il dott. Andrea D. M. Manazza, specialista in oncologia, Palliativista:
“Non abbiamo bisogno delle Dat per sospendere la ventilazione meccanica, la dialisi, le trasfusioni, quando non sono più utili o sono nocive: lo facciamo già, ogni giorno. Parte del nostro lavoro, consiste nel capire se una terapia, che è un mezzo di sostegno vitale ordinario e proporzionato, sia diventata, per il signor Mario Rossi, una terapia purtroppo inefficace o sproporzionata; allora cerchiamo di aiutare il signor Rossi e i suoi familiari a capirlo, e a permetterci di sospenderla. Senza imporci; ma senza mentire.”
Diverso è invece il caso di un paziente che sia già sottoposto ad un trattamento salvavita come la respirazione artificiale, in cui non si riscontrino gli elementi clinici della sproporzione e in cui l’interruzione del trattamento, effettuata da un medico, abbia come risultato principale la morte del paziente.
Qui l’etica professionale, il codice deontologico impone di non cooperare, per non eseguire un atto dal carattere fondamentalmente eutanasico. Altrimenti, non si vede quale sarebbe la differenza sostanziale tra la richiesta di un farmaco letale per ottenere la morte e il richiedere – allo stesso scopo – la sospensione di un trattamento necessario alla sopravvivenza.
E il ruolo e la responsabilità del medico nella morte del paziente avrebbero qui un peso morale decisivo.
NON CI SONO DAT O SUICIDI ASSISTITI CHE POSSANO IMPORCI UN ALTRO MODO DI ESSERE MEDICI.
Scrivi un commento