Autore: Robert Spaemann

Pagine: 128 

Prezzo€18,00 €17,10

Editore: Edizioni Cantagalli

 

Ecco un estratto del libro

 

NOTA DEL CURATORE

 

Alcune cose sono cambiate da quando, nel 1993, fu pubbli- cata la prima traduzione italiana di questo libro1. Allora il nome di Robert Spaemann non era conosciuto in Italia al di fuori di una cerchia estremamente ristretta. Negli anni successivi, inve- ce, il filosofo tedesco fu più volte invitato nel nostro Paese per conferenze e convegni. Adesso molti suoi libri sono disponibili in italiano e non mancano diverse monografie che trattano vari aspetti del suo pensiero.

A parte la più larga recezione dell’opera di Spaemann in Italia, è lecito chiedersi se nei decenni trascorsi vi siano stati cambia- menti rilevanti per le cose di cui si parla in questo libro. Le con- versazioni da cui esso ha origine, infatti, furono tenute nel 1981 e, almeno da un certo punto di vista, le riflessioni di Spaemann appaiono legate ai dibattiti in corso in quegli anni nella filosofia e nella teologia morale. Chi ha qualche familiarità con tali discus- sioni non potrà fare a meno di notare la netta presa di posizione dell’autore contro le concezioni «teleologiche» secondo cui la bontà o malvagità di un’azione dipende dalla bontà delle conse- guenze previste. In filosofia, concezioni di questo tipo vengono oggi più comunemente discusse parlando di «consequenziali- smo». Nella prospettiva consequenzialista nessuna azione di un certo tipo potrebbe essere considerata buona o cattiva in asso- luto: quello che è male in una circostanza potrebbe essere bene in una circostanza diversa. Contro le concezioni di questo tipo, Spaemann ribadisce la dottrina secondo cui c’è un’asimmetria tra azioni buone e azioni cattive: non si può dire che un’azione di un certo tipo (per es. fare un’elemosina) sia tale che sia bene compierla in qualsiasi circostanza, ma ci sono azioni che è sem- pre e comunque male compiere (per es. uccidere un innocente). Sullo sfondo delle considerazioni di Spaemann in questo libro si può dunque cogliere la polemica che lo aveva impegnato a lungo contro le concezioni teleologiche diffuse in particolare fra i teologi morali cattolici, una discussione che troverà un riflesso nel 1993 anche nell’enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor (in particolare n. 75 e n. 79).

Può sembrare superfluo menzionare queste discussioni in un libretto come questo che non si rivolge agli specialisti della filosofia o della teologia morale. Molti lettori continueranno a leggere questo libro nello spirito in cui è stato scritto, come un invito a riflettere seriamente sulla propria vita, e probabilmente saranno da esso aiutati a scoprire la rilevanza che hanno per la propria vita le questioni morali. Per Spaemann, tuttavia, è preci- samente nella prospettiva della rilevanza esistenziale delle que- stioni morali che assume il suo senso anche la polemica contro le concezioni teleologiche. Al di là degli argomenti che possono essere portati contro la concezione consequenzialista, ciò che innanzi tutto preoccupa Spaemann è il fatto che quella conce- zione corrompe il giudizio morale della persona. È vero che il riferimento a immodificabili principi astratti può portare a non coinvolgersi adeguatamente con le circostanze reali in cui uno è chiamato ad agire. Ma considerando le possibili conseguenze buone di un’azione che altrimenti si riterrebbe essere cattiva di- venta troppo facile giustificare qualsiasi comportamento. La de- cisione del martire che sacrifica la propria vita per non fare ciò che è male finisce per apparire come un’esagerazione insensata. Il ragionamento consequenzialista mette a tacere la voce della coscienza che suggerisce che non è possibile comportarsi in un certo modo quali che siano le conseguenze buone che si posso- no attendere o le conseguenze cattive che si possono evitare. La persona in cui tace la voce della coscienza, poi, si immiserisce. Il fine che giustifica qualunque mezzo non è il fine che rende grande la persona.
Le questioni di cui parla la morale sono quindi questioni serie che riguardano la vita di ogni persona. Nelle sue conversazioni Spaemann si basa su una conoscenza approfondita della tradi- zione filosofica, come mostrano le numerose e svariate citazioni che affiorano nel suo discorso. Sarebbe interessante considerare le diverse fonti del pensiero di Spaemann e chiedersi come esse contribuiscano a dare forma a un discorso che ha però una sua intima e profonda unità. Ciò che caratterizza più profondamente queste pagine, infatti, è la convinzione che per l’essere umano sia bene essere buono. Detto in altri termini, Spaemann riesce a mostrare efficacemente la rilevanza esistenziale degli imperativi morali. In questa prospettiva si potrebbe leggere la singolare sin- tesi che egli propone, anche nella sua opera maggiore Glück und Wohlwollen (1989, pubblicata in traduzione italiana nel 1998 con il titolo Felicità e benevolenza), tra un eudemonismo di origine aristotelica e un deontologismo che recepisce in qualche modo l’in- segnamento kantiano. La preoccupazione del proprio bene deve portare la persona ad aprirsi all’altra persona fino a riconoscere il bene dell’altro in un atteggiamento di attenzione amorevole. Non c’è agire morale se non si rispetta la dignità di ogni persona, ma la nostra dignità di persone sta nell’essere soggetti di agire morale. Nella prospettiva di Spaemann, per gli esseri razionali che noi siamo è fondamentale trattare la realtà giustamente, in un modo adeguato, trattarla così come deve essere trattata («der Wirklichkeit gerecht zu werden»). Questo rapporto giusto con le cose, con gli altri esseri viventi e, in particolare, con le perso- ne richiede che siano soddisfatte quelle che sono propriamente le esigenze della giustizia (Gerechtigkeit) ma va anche al di là di quelle per diventare amore, interesse al bene altrui.

Se l’agire morale è essenziale per la fioritura di ogni essere umano, si capisce quale importanza decisiva abbia l’educazione morale della persona. L’attrattiva di questo libretto sta probabil- mente nel fatto che ponendosi in questa prospettiva Spaemann riesce a fondere efficacemente il contenuto che vuole trasmette- re con la forma in cui lo comunica. In effetti, sarebbe sbagliato pensare che quello qui pubblicato sia un testo di carattere divul- gativo. Un testo di carattere divulgativo comunica in forma sem- plificata i risultati delle ricerche degli esperti a coloro che esperti non sono. In filosofia però – e in particolare in filosofia morale – non ci possono essere divulgatori perché non ci sono esperti: in filosofia non ci sono questioni che qualcuno può risolvere al po- sto di un altro. Le questioni essenziali, proprio perché sono tali, devono essere affrontate e risolte da ciascuno personalmente. Il successo di uno scritto filosofico consiste perciò nel far fare al lettore quell’esperienza di pensiero che è la riflessione filosofica. Spaemann è convinto che ciò che ci spinge a parlare di morale non sia una pura curiosità intellettuale. D’altra parte egli non pensa neppure che sia necessario studiare la filosofia per agi- re bene. Tanti esempi noti e meno noti ci mostrano al di là di ogni dubbio che si può essere una persona buona anche senza conoscere i ragionamenti dei filosofi morali. Potremmo anche aggiungere che non è certamente sufficiente conoscere le regole corrette per comportarsi bene. È pure vero, però, come abbiamo già visto, che una teoria morale sbagliata ha un effetto negativo. Come Spaemann chiarisce già nella premessa, per lui la filosofia ha fondamentalmente una funzione difensiva: si tratta di difen- dere il giudizio della persona dagli errori che possono portarlo fuori strada. Una volta feci notare a Spaemann che Kant para- gona la funzione della critica a quella della polizia che impedi- sce le violenze fra i cittadini (Kr. d. r. V. B XXV), osservando che trovavo curiosa questa concezione poliziesca della filosofia. Egli replicò che da parte sua riteneva che la filosofia fosse piuttosto paragonabile a una sorta di corpo di autodifesa civica. Con la filosofia, la ragione difende sé stessa dai propri possibili abusi.

Questo impegno della filosofia nell’autodifesa della ragione non ha una fine prevedibile: a ogni argomento si può rispondere con un altro argomento. Da questo punto di vista non c’è da stupirsi che le questioni che trenta o quaranta anni fa sembra- vano risolte tornino a essere controverse. Questo non significa che i buoni argomenti di allora smettano di essere tali. Tanto meno significa che non ci sia più bisogno di quella maturazione del giudizio cui Spaemann sollecitava allora i suoi lettori. C’è da credere, anzi, che, percorrendo queste pagine, altri scopriranno anche adesso la serietà delle questioni etiche e la fondatezza per la propria vita delle risposte che il filosofo suggerisce.

L. F. T.

 

PREMESSA

Che cosa sia morale è evidente, si dice. Se è così, ogni parola in proposito è di troppo. Ciò che è evidente non lo si può spiegare per mezzo di qualcos’altro che sarebbe ancora più chiaramente comprensibile; e neppure ricorrendo ad analogie tratte dal regno animale: in fondo comprendiamo le oche cenerine perché co- nosciamo noi stessi e non viceversa. A ciò che è evidente si può soltanto alludere, non lo si può propriamente dire. Per questo Ludwig Wittgenstein scrisse: «È chiaro che l’etica non la si può esprimere». Platone già sapeva che non si può dire con «parole di scuola» che cosa significhi la parola bene. «Soltanto dopo fre- quente familiare conversazione a proposito di questo oggetto e dall’intima convivenza con esso sorge improvvisamente nell’ani- ma quell’idea, come da una scintilla nasce la fiamma e si sviluppa poi da sé stessa» (Lettera VII).

Se, ciò nonostante, si deve continuamente tornare a parlare di ciò che è evidente, è soltanto perché esso viene continuamen- te rimesso in discussione. In realtà esso non si presenta mai in forma pura. Ogni ethos reale stabilito in una società non è mai semplicemente evidente. Sempre reca tracce di ignoranza, rimo- zione, repressione. Rispetto ad ogni ethos dominante vi è perciò sempre anche la possibilità di affermare che esso non è altro che l’ethos dei dominatori, che l’abuso della parola bene è il suo unico uso appropriato, che quando consideriamo qualcosa come evi- dente in realtà inganniamo noi stessi. Che ciò sia falso lo si può mostrare facilmente. Ma per mostrarlo si deve però per l’appun- to parlare di ciò che è evidente.

Rousseau ha compreso il dilemma: «Non mi permetterei di impartire insegnamenti alla gente, se altri non la conducessero in errore». L’insegnamento può però avvenire su diversi piani. Sul piano delle questioni fondamentali si può cercare di ricondurre ciò che noi conosciamo come doveri morali, virtù, norme o va- lori a una radice comune e facendoli derivare da questa radice connetterli sistematicamente – è questo il tradizionale compito dell’etica filosofica. Sul piano dell’applicazione si possono trat- tare questioni particolari: menzogna, eutanasia, aborto, servizio militare, questioni della sessualità e del rapporto con la natura ecc. Fino a Kant, filosofi e teologi non hanno considerato lesivo della loro dignità il trattare anche tali questioni casuistiche. L’eti- ca non è tanto interessante che valga la pena occuparsene anche se non si andasse al di là di vuote formule e si rimanesse privi di indicazioni per il proprio agire.

Gli otto capitoli di questo volumetto non fanno né l’una né l’altra cosa. Questo libro, infatti, si muove – tra questioni fon- dazionali e casuistica – su un piano intermedio di astrazione. I diversi capitoli trattano alcune di quelle nozioni elementari che noi tutti usiamo quando riflettiamo con noi stessi o con altri sull’aspetto morale delle nostre azioni. Senza eccessivo impegno terminologico e senza presupposti eruditi viene fatto il tentativo di avviare la riflessione su queste nozioni.

Si trattava originariamente delle puntate di una serie trasmes- sa dalla Radio bavarese nel gennaio e febbraio 1981. Non ho mo- dificato il carattere improvvisato delle trasmissioni. Il mio desi- derio era di approssimarmi in qualche modo a quella «frequente familiare conversazione» di cui parla Platone. L’effetto che ne speravo può essere soltanto indiretto. Non è possibile volerlo provocare intenzionalmente.

 

1.

L’ETICA FILOSOFICA

OVVERO:

BENE E MALE SONO RELATIVI?

 

La domanda sul significato delle parole bene e male, buono e cattivo è una tra le più antiche domande della filosofia. Ma non è forse questa domanda di pertinenza anche di altre discipline? Non si va forse dal medico a chiedere se si può o no fumare? Non vi sono forse psicologi che aiutano nella scelta della professione? E il consulente finanziario non dice forse a un cliente: «È bene che con questi soldi lei acquisti degli immobili; i prezzi tendono a salire ed è un investimento sicuro»? Dove emerge allora pro- priamente l’aspetto etico, filosofico?
Facciamo attenzione a come nei contesti citati viene usata la parola bene. Il medico dice: «È bene che lei rimanga ancora un giorno a letto». A rigore, usando la parola bene egli dovrebbe fare due precisazioni. Dovrebbe dire: «È bene per lei»; e dovrebbe inoltre ancora aggiungere: «È bene per lei, nel caso in cui lei vo- glia innanzi tutto guarire». Queste precisazioni sono importan- ti, perché, nel caso, per esempio, che uno per un determinato giorno mediti una rapina, sarebbe senza dubbio «meglio» da un punto di vista generale che questi si prendesse una polmonite che gli impedirebbe di realizzare il suo piano. Può anche darsi, però, che noi stessi in un determinato giorno abbiamo un impe- gno improcrastinabile così importante che non diamo retta al medico che ci prescrive il riposo a letto ed affrontiamo il rischio di una ricaduta. Sulla questione se sia «bene» agire così, il medico in quanto medico non può assolutamente pronunciarsi. «Bene» nel suo linguaggio significa infatti: «Bene per lei, nel caso che le importi innanzi tutto della sua salute». Questo è ciò di cui egli è competente. Rispetto alla questione se sia giusto o no che mi importi innanzi tutto della mia salute egli può pronunciarsi in quanto uomo, ma non in virtù della sua specifica competenza come medico.

E se io, invece di investire i miei soldi in immobili, preferi- sco semplicemente sperperarli oppure regalarli a un amico che ne ha urgente bisogno, il consulente finanziario non può dirmi nulla. Quando ha detto «bene» intendeva dire: «Bene per lei, nel caso che le importi innanzi tutto di aumentare nel tempo il suo patrimonio».

In tutti questi consigli la parola bene significa pressappoco:

«bene per qualcuno da un determinato punto di vista». Può an- che darsi infatti che la stessa cosa per la stessa persona sia, da diversi punti di vista, buona e cattiva. Per esempio fare molte ore di straordinario è un bene per il tenore di vita, ma è un male per la salute. E può darsi che la stessa cosa sia per l’uno buona e per l’altro cattiva – la costruzione di un’autostrada è un bene per gli automobilisti, ma è un male per chi vi abita vicino ecc.

Noi usiamo però la parola bene anche in un altro senso, in un senso per così dire «assoluto», cioè senza l’aggiunta di «per» e «da un determinato punto di vista». Questo significato diventa rilevante quando si presenta un conflitto tra interessi o punti di vista, anche quando si tratti degli interessi e dei punti di vista di una stessa persona, per esempio tra i punti di vista del tenore di vita, della salute e dell’amicizia. Qui emergono le due questioni: che cosa è in fondo davvero bene per me? Qual è la giusta ge- rarchia dei punti di vista? E l’altra questione: l’interesse di chi, il bene di chi deve prevalere in caso di conflitto? Anticipando un attimo possiamo dire: è una verità che fa parte delle idee basilari della filosofia di tutti i tempi che queste due questioni non pos- sono essere affrontate indipendentemente l’una dall’altra. Ma vi ritorneremo più avanti. Ad ogni modo la riflessione su queste questioni è quella che noi chiamiamo riflessione filosofica.

Per prima cosa però dobbiamo mettere in chiaro che tali do- mande sono legittime. La loro legittimità viene infatti continua- mente contestata. Si sente continuamente ripetere che le que- stioni etiche sono insensate, in quanto non vi è risposta ad esse. Secondo questo modo di pensare, gli enunciati etici non sono tali da poter essere veri. Nell’ambito del «bene-per-Giorgio dal pun- to di vista della salute» oppure del «bene-per-Michele dal punto di vista del risparmio sulle imposte» si possono raggiungere co- noscenze razionali e di validità universale. Ma là dove la parola bene venga usata in senso assoluto, le asserzioni sono al contrario relative, dipendenti dall’ambito culturale, dall’epoca, dallo strato sociale e dal carattere di colui che le fa. Stando ai suoi sostenitori questa opinione trova abbondanti conferme nei fatti di cui abbia- mo esperienza. Non vi sono forse culture che ritengono un bene il sacrificio umano? Non vi sono società schiavistiche? Non han- no forse i romani concesso al padre il diritto di esporre il figlio appena nato? Mentre i maomettani permettono la poligamia, nell’ambito culturale cristiano esiste come istituzione soltanto la monogamia ecc.

Che i sistemi di norme dipendano in grande misura dalla cul- tura, è un’obiezione che viene sempre mossa alla possibilità di un’etica filosofica, cioè alla possibilità di una trattazione razio- nale della domanda sul significato della parola bene in senso as- soluto, non relativo. Ma questa obiezione non tiene conto che l’etica filosofica non si regge certo sull’ignoranza di questo fatto. Al contrario. La riflessione razionale sulla questione di un bene universalmente valido cominciò in realtà soltanto a causa della scoperta di questo fatto. Nel V secolo a. C. esso era infatti già suf- ficientemente noto. Vi erano allora in Grecia numerosi resoconti di viaggi che raccontavano particolari fantastici sui costumi dei popoli circostanti. I Greci, però, non si contentarono di trovare questi costumi semplicemente assurdi, spregevoli o primitivi; alcuni di essi, i filosofi, cominciarono a cercare un criterio in base al quale si potessero misurare i diversi modi di vivere e i diversi sistemi di norme, per arrivare forse, infine, a scoprire che alcuni sono migliori di altri. Questo criterio essi lo chiamarono physis: natura. Misurata con questa criterio per esempio la norma delle fanciulle della Scizia di tagliarsi un seno era peggiore della norma opposta, di non farlo. Certo questo è un esempio particolarmen- te semplice e suggestivo. Il concetto di natura non bastava certo per risolvere indubitabilmente tutte le questioni su quale sia la vita retta. Per il momento ci basta la constatazione che la ricerca di un criterio universalmente valido per la vita buona e cattiva, per le azioni buone e cattive, deriva dall’osservazione della di- versità dei sistemi di norme morali e perciò il fatto che vi sia tale diversità non è di per sé un argomento contro questa ricerca.

Ma che cosa spinge a questa ricerca? Che cosa porta a formu- lare l’ipotesi che le parole bene e male, buono e cattivo abbiano non soltanto un significato assoluto, ma anche un significato uni- versalmente valido? Questa domanda è posta in modo scorretto. Infatti non si tratta affatto di una supposizione o di un’ipotesi, si tratta di una certezza che noi tutti possediamo fin al momento in cui non cominciamo a riflettervi espressamente. Se sentiamo che dei genitori picchiano crudelmente un bambino perché questi l’ha fatta involontariamente nel letto, non giudichiamo che que- sto comportamento sia stato soddisfacente per i genitori, dunque

«buono», mentre è stato «cattivo» per il bambino, ma disappro- viamo puramente e semplicemente il comportamento dei geni- tori, perché riteniamo un male in senso assoluto che dei genitori facciano qualcosa che per un bambino è un male. E se sentiamo di una cultura dove questo è l’uso corrente, il nostro giudizio è che quella società ha un uso cattivo. E quando un uomo si comporta come il francescano polacco padre Massimiliano Kol- be, che si offrì liberamente di morire nel bunker della fame di Auschwitz al posto di un padre di famiglia, salvandogli la vita, noi non riteniamo che questo gesto sia stato un bene per quel pa- dre e un male per il religioso e sia stato invece indifferente da un punto di vista assoluto, ma pensiamo che un uomo simile abbia salvato l’onore dell’umanità che era stato vilipeso dai suoi assas- sini. E questa ammirazione sorgerà spontaneamente dovunque la storia di quest’uomo verrà raccontata, tra gli aborigeni austra- liani come da noi. Non abbiamo però assolutamente bisogno di stare a cercare tali casi drammatici ed eccezionali. I punti in co- mune tra le idee morali in diverse epoche e culture sono infatti molto più numerosi di quanto vediamo generalmente.

Siamo spesso semplicemente soggetti ad un’illusione ottica. Le differenze ci impressionano maggiormente perché gli aspetti comuni li diamo per scontati. In tutte le culture vi sono doveri dei genitori nei confronti dei loro figli e dei figli nei confronti dei genitori; ovunque la gratitudine viene considerata «buona»; ovunque l’avaro è disprezzato e il magnanimo è stimato; quasi ovunque l’imparzialità è considerata la virtù del giudice e il co- raggio la virtù del combattente.

L’obiezione che si tratta di norme ovvie, norme inoltre che possono essere senza difficoltà fatte derivare dall’utilità biologica e sociale, non è un’obiezione seria. È naturale che le leggi mora- li universali che sono proprie dell’uomo siano ovvie per chiun- que ha un’idea di che cos’è l’uomo. Ed è altrettanto ovvio che il seguirle sia utile per il genere umano. Come potrebbe essere comprensibile per l’uomo una norma, il seguire la quale provo- cherebbe danni generali? Che cosa potrebbe essere più utile per l’uomo di ciò che corrisponde alla sua essenza? Ciò che è decisi- vo però è che l’utilità biologica o sociale non è per noi la ragione della stima; che la moralità e quindi il bene morale non sono de- finiti da quella. L’azione di Massimiliano Kolbe la stimeremmo anche se quel padre di famiglia fosse morto il giorno successivo.

E un gesto di amicizia o di riconoscenza sarebbe qualcosa di buo- no anche se il mondo finisse domani. Questa esperienza del pre- valere dei punti in comune nella morale delle diverse culture, da una parte, e, dall’altra parte, l’immediatezza della nostra assoluta stima di determinati comportamenti è ciò che giustifica lo sforzo teorico di darsi ragione di questo comune e incondizionato, di questo criterio della vita retta.

Sono però appunto le differenze culturali che ci spingono ad interrogarci su un criterio di giudizio. Esiste un tale criterio? Fi- nora abbiamo preso in considerazione soltanto delle argomen- tazioni provvisorie, dei primi indizi, per così dire. Vogliamo adesso avvicinarci ad una risposta definitiva a quell’interroga- tivo, esaminando due punti di vista radicalmente opposti, che concordano soltanto nel negare che vi sia un qualche contenuto universalmente valido; due varianti, quindi, del relativismo eti- co. La prima tesi dice pressappoco: ogni uomo deve seguire la morale dominante nella società in cui vive. La seconda afferma invece che ogni uomo deve seguire il suo parere e piacere e fare ciò di cui ha voglia.

Entrambe queste tesi non reggono ad un esame razionale. Consideriamo dapprima la tesi: «Ognuno deve seguire la morale dominante nella società in cui vive». Questa massima cade in tre contraddizioni.

In primo luogo essa si contraddice già in quanto colui che la pone vuole con ciò stabilire per lo meno una norma univer- salmente valida ovvero la norma secondo cui si deve sempre seguire la morale dominante. Si potrebbe obiettare che non si tratta qui di una norma contenutistica, ma di una sorta, per così dire, di sovra-norma o meta-norma, che non potrebbe in alcun modo entrare in concorrenza con le norme della morale stessa. La cosa però non è così semplice. Una componente della morale dominante può essere per esempio di giudicare negativamente le morali di altre società e di condannare gli uomini che seguono queste altri morali. Se nella mia cultura quella dominante è una morale di questo tipo e io la seguo, devo unirmi alla condanna delle altre morali. Forse fa parte della morale dominante di una determinata cultura persino uno slancio missionario che spinge gli uomini a penetrare nelle altre culture e a trasformare le loro norme. In questo caso è impossibile seguire la regola citata, cioè dire che tutti gli uomini dovrebbero seguire la morale dominan- te nel loro paese. Se io seguo la morale dominante nella mia cul- tura devo appunto tentare di dissuadere altri uomini dal vivere secondo la loro morale. In una cultura di quel tipo, dunque, sem- plicemente non è possibile vivere secondo quella regola.

In secondo luogo: non esiste sempre la morale dominante. In una società pluralistica quale quella in cui noi viviamo, diverse concezioni morali sono in concorrenza tra loro. Una parte della società per esempio condanna l’aborto come un delitto. Un’altra parte lo accetta e combatte addirittura contro i sensi di colpa che ad esso si colleghino. Il principio di uniformarsi in ogni caso alla morale corrente non ci insegna dunque in alcun modo per quale tra le morali correnti noi dobbiamo optare.

In terzo luogo: vi sono società nelle quali al comportamento di un fondatore, di un profeta, di un riformatore o di un rivolu- zionario viene attribuito un valore esemplare – un uomo che da parte sua non si è affatto uniformato alla morale del suo tempo, ma l’ha invece trasformata. Può darsi che noi consideriamo va- lidi i suoi criteri e non riteniamo necessario un nuovo cambia- mento radicale. Ma questo lo pensiamo perché siamo convinti della correttezza contenutistica delle sue indicazioni e non per- ché riteniamo semplicemente che uniformarsi sia quello che è giusto fare. Infatti qui esemplare per noi è appunto uno che da parte sua non si è uniformato. A chi dunque deve qui uniformar- si colui che per principio si uniforma?

 


 

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