Ursula von der Leyen
Ursula von der Leyen

Alle formali proteste del governo cinese inviperito per l’affronto dei tamponi ai cittadini cinesi la UE, come uno Speranza qualsiasi, risponde “noi seguiamo la scienza” e offre vaccini ai cinesi, che incredibilmente rifiutano.

Alberto Mantovani, direttore sanitario del gruppo Humanitas e indice HR più alto d’Italia, dice che i dati forniti dalla Cina non collimano con “stime epidemiologiche indipendenti”. Dati che devono risalire a prima di Natale, perché la Cina da allora non li pubblica più.

C’è poi il neo “indipendenza delle stime”: ammesso che siano indipendenti – ci fidiamo di Mantovani – restano comunque aleatorie. Bontà delle stime basate su evidenze zero, ci si chiede piuttosto quando mai e a che proposito la Cina abbia tenuto un atteggiamento trasparente e collaborativo verso l’esterno riguardo ciò che accade entro i propri confini. Almeno quanta trasparenza e onestà teniamo noi al nostro interno sulle nostre disavventure covidiane.

Lucia Annunziata sostiene che frotte di cinesi stiano arrivando in Italia per vaccinarsi, dal momento che i loro vaccini “non funzionano” – i nostri, com’è noto, funzionicchiano: coi tempi che corrono è roba da baciarsi i gomiti. 

Per l’effetto paradosso, l’abbondanza di informazioni e la loro accessibilità (ormai è l’informazione che cerca te) invece di rendere l’umanità più cosciente, progredita e aperta, ha generato una sorta di “effetto Alzheimer” nelle persone. Le ha fatte invecchiare e rimbecillire di colpo.

Non ricordano, hanno paura, focalizzano e semplificano.

Non ricordano che l’ipotesi del “virus di Wuhan” ha tenuto banco per un anno e tuttora regge.

Non ricordano che, nonostante questa presunta gravissima responsabilità storica, la Cina sia stata elogiata per l’efficienza già nel marzo 2020 mentre abbracciavamo cinesi nella Milano che non si ferma – ricordate gli ospedali costruiti in dieci giorni? Erano i mesi in cui Giovanna Botteri da Fazio a Che tempo che fa parlava di “di modello cinese sicuramente esportabile“.

Abbiamo esportato democrazia a suon di bombe, possiamo ben importare totalitarismo in sala agrodolce-piccante. La fissa per l’import-export di ideuzze sgangherate meriterebbe una trattazione ampia e circostanziata.

La politica “zero Covid”, oltretutto perseguita con strumenti inefficaci e brutalmente repressivi, ha ispirato governi e sistema informativo un po’ ovunque, ma in Italia ha assunto i soliti toni da commedia dell’arte. Anzi: tragedia dell’arte.

La paura e la speranza – ne usciremo in due settimane, i vaccini sono l’unica via – usate come leve spregiudicate sulla psiche delle persone hanno letteralmente imbambolato la gente, devastando ancor prima del sistema immunitario lo spirito critico, va detto già largamente compromesso da decenni di ozi e di vizi.

Nel tourbillion di notizie palesemente contraddittorie i più hanno alzato le braccia: si sono “fidati” sotto minaccia di ritorsioni inaudite, hanno adottato comandamenti semplici e semplicemente idioti come “facciamo questo o quello per il bene degli altri, per il bene di tutti” (prendo una medicina perché sto male io, degli altri poco mi cale), ed hanno spalmato ed appiattito l’intera esistenza sul problema “salute”.

Risultato: gente che prima compulsava le etichette sulle scatolette di tonno per controllare che non venisse dai mari antistanti Fukushima (correva il 2013), si è fatta serenamente inoculare un preparato galenico mai testato prima, di cui nulla si conosce – potrebbe contenere marmellata di fichi come dosi equine di curaro – perché coperto da segreto militare – e ritiene normale che a bambini che giocano al parco venga l’ictus.

In realtà si tratta degli effetti di meccanismi antichi come le piramidi, ribattezzati in tempi recenti propaganda. Ai quali l’intelletto più si evolve, più si emancipa acquisendo competenze e informazioni viziate all’origine, più facilmente si prostra.

In dosi omeopatiche, la propaganda è persino inevitabile ed anche buona cosa: immaginate cosa accadrebbe se, per completezza dell’informazione, la pubblicità di una macchina la mostrasse in fiamme schiantata contro un albero, o mostrasse ciccioni smisurati che muoiono d’infarto mentre addentano un hamburger.

Ciò che viene accuratamente taciuto è che siamo in guerra con l’Oriente: la Cina, la Russia, la Corea del Nord, forse presto anche l’India, l’Iran. Perfino il papa, proponendosi come mediatore di pace, descrive i russi come torturatori, prontamente sostenuto nella finissima strategia diplomatica da esperti di queste cose, impegnati a fugare pensieri inconsulti circa il fatto che il pontefice parli a vanvera quando “in realtà” è un “fine conoscitore del mondo russo”.

Solo che in seguito il fine conoscitore di cose russe si scusa, come una Madame qualsiasi. Capita che la conoscenza più fine debba sottomettersi alla forza bruta della ragion di Stato.

Sotto altri rispetti irrispettosi, il quadro generale appare come lo ius primae noctis della ragione: hai appena sposato la verità, e arriva il primo notabile di contea a violentartela sotto gli occhi.

Ragione o no, fede o no, ci sono fatti, popoli e paesi la cui barbarie offende tanto i nostri animi sensibili, ma che qualche vantaggio e senso di rivalsa nei nostri confronti lo possiedono e lo coltivano.

Da alcuni di loro dipendiamo per ragioni di approvvigionamento energetico e di materie prime, da altri per queste cose e per la produzione di beni e servizi, in particolare la tecnologia alla quale abbiamo legato le nostre vite a doppio filo: diciamo pure che il digitale made in Usa è in realtà made in India.

L’unica cosa che siamo ancora capaci di produrre è una quantità industriale di volponi che spiegano che le cose non stanno così: le sanzioni alla Russia tanto caldeggiate da Draghi e Von der Leyen sono talmente efficaci che la Russia è appena entrata nel club delle dieci economie più forti al mondo ma, se saremo pazienti, tempo qualche millennio e il prossimo pacchetto di 16.000 sanzioni spezzerà le reni a Putin. Ci sembrerà, è vero, che l’economia Russia arrivi sul podio delle potenze mondiali, ma è tutta disinformatija: se sbielli la sonda, cazzi la randa e sdrumi il pappafico, la Russia fa schifo.

Qualche crepa nella narrazione europoide si fa largo: peccato leggere le dichiarazioni di Guy Verhofstadt in cui lamenta l’effetto paradosso delle sanzioni contro la Russia – breviter: non funzionano e ci danneggiano – su Al Mayadeen, una cooperazione mediatica fra Egitto, Tunisia ed Iran con sede in Libano. Saranno anche barbari e arretrati, ma tengono le antenne belle dritte. Noi siamo troppo signore e signori per le evidenze empiriche: a noi piacciono i teoremi scientifici, le verità pitagoree, gli slogan banalizzanti come “vaccino atto d’amore” o “pandemia di non vaccinati”, le stime indipendenti.

L’Italia già nel 2016 si collocava fra gli ultimi paesi OCSE per competenze cognitive. Andrea Tosatto ha efficacemente tradotto il concetto per i meno dotati fra i poco dotati: “Il quartultimo posto nella classifica OCSE significa che solo in tre paesi su trentatré la gente non capisce un c***o più che da noi”.

Lasciando perdere l’Italia imbolsita da sole, mare, pizza, mandolino e il mitologico stellone apotropaico che terrebbe a galla il genio italico. Dati macroeconomici alla mano, l’Occidente dispone di un oceano di denaro e un’assoluta scarsità di ricchezza.

Anche la capacitazione di disporre della ricchezza presente, per citare il Nobel per l’economia indiano Amartya Sen, sta scemando rapidamente: non si tratta di formare tecnici minerari e petroliferi (orrore: il merlo dolomitico in via d’estinzione nidifica in prossimità del giacimento d’oro) panettieri e scienziati più interessati al Telegatto che alla medaglia Fields che contendano lo scettro catodico a Bassetti, Burioni, Capua, Pregliasco e Viola, ma di trovare gente che porti un toast al tavolo dei clienti. Sempre da Sen: l’importante non è la ricchezza, ma la capacità di disporne.

Non stiamo parlando di pokerie o campi di padel: magari gonfiano il conto in banca a qualche influencer o mafioso, ma la ricchezza è altro. Il Nobel indiano studiò le recenti carestie in Bangladesh, scoprendo che la disponibilità di cibo era massima, mentre era scomparsa la capacità delle persone di disporre di quel cibo in seguito a scelte politiche scellerate.

Per dirne una. La digitalizzazione del denaro non solo porterà ad un controllo sempre più violento, ricattatorio e repressivo del sistema sull’individuo – che, per inciso, se lo merita alla grande – ma ne moltiplicherà a dismisura l’immaterialità, la capacità di occultamento e la predazione: state pur certi la vicenda di quel ladro di polli di Sam Bankman-Fried è solo l’aperitivo. Altro che evasione fiscale (sarà ora di chiamarla “intrattenimento fiscale” per invogliare la gente a pagare: evasione sa molto di fuga da Alcatraz).

In un mondo sano, concreto, normale, nessuno potrebbe rubare trentasei miliardi di dollari come ha fatto il turbo-nerd finanziatore di Biden (come Pfizer, del resto, ha finanziato il suo insediamento alla Casa Bianca) perché non esisterebbero le condizioni minime che gli consentano di farlo. In un mondo sano, concreto, normale, il problema non sarebbe dichiarare i propri conflitti d’interesse, ma escludere in via preventiva che simili cose possano accadere. Il mio problema non è che Escobar ammetta di essere l’emiro mondiale della cocaina in ossequio a leggi sulla trasparenza. Il mio problema è la cocaina.

Nel metaverso in cui stiamo migrando queste cose sono invece possibili, eccome.

Mentre calciatori investono milioni per comprare isole virtuali, solo una percentuale irrisoria di persone possiede terra (Bill Gates a parte, diventato il maggior proprietario americano di terreni agricoli), e se andiamo a vedere chi tra questi la mette in produzione, dobbiamo probabilmente aggiungere altri zeri dopo lo zerovirgola.

Ci hanno gabellato boiate come l’obsolescenza programmata o la possibilità di comprare il frullatore a rate, oppure che scrivere e leggere libri di qualità sia roba da matusa. Guadagni, spendi e se sei fortunato in capo a qualche anno non hai più nulla perché Dio è morto, Marx è morto e anche la cassettiera Mobilgratis fatta di “materiali riciclati rispettosi dell’ambiente” (leggi: munnezza) non si sente tanto bene.

L’Occidente è preda della “sindrome pensionato”: vecchi che non avendo niente da fare si aggirano dispensando consigli, raccontando frottole sulla loro vita passata, curando il prato e lamentandosi della qualità dell’aria, dell’olio di palma nei biscotti, degli anticrittogamici. La salute da giusta preoccupazione diventa ossessione quando realizzi che è tempo di mettersi a dieta per la prova cassa da morto.

Il concreto è roba popolare, democratica, da sciocchi: è il superfluo a renderci così vispi, allegri e ottimisti. Quale miglior incarnazione del superfluo di un vaccino che non serve a una beata ceppa, o del tifare Ucraina con la simpatia con cui tiferemmo San Marino in una partita contro l’Argentina.

Nelle more del ragionamento: non è che prima dell’Inps, delle Ztl e del verde pubblico in cui non si può giocare a calcio i vecchi morissero di freddo e altri stenti, perché erano considerati come autorità centrali nelle comunità, benvoluti, accuditi, ascoltati. L’autonomia degli anziani è, sovente, un escamotage per liberarsene. Non a caso il mantra pandemico è stato: proteggiamo gli anziani.

Che ad Oriente – anche a sud: la gente nulla sa dell’Africa, un continente ricco che ribolle di vita e di morte mentre noi facciamo pilates e la ceretta, e sorseggiamo Beaujolais nei locali che vietano l’ingresso ai bambini dove i nostri amici pelosi sono più che benvenuti – le cose stiano diversamente, e soprattutto non siano più disposti a bersi le nostre fanfaluche, lo hanno capito in pochi, oppure la gente tace per paura di sentirsi dare dell’ignorante complottista.

Il modello “+ denaro – cose in un mondo più pulito e child-free” è l’orizzonte del desiderio occidentale. Tipica di molti anziani è la ricerca spasmodica di un ordine e una pace cimiteriali: i prati curati, i fiori alle finestre, l’aria profumata, niente schiamazzi, lapidi splendenti da far male agli occhi, saltare nel nulla che ci attende dolcemente e senza soffrire, finire compostati per concimare altre petunie in un circolo virtuoso a sprechi zero.

Sperando sempre che questo nulla che ci attende non sia una fake-news: se per disgrazia ci fosse un Padreterno che non sia il vecchio rimbecillito che ci piace pensare, una volta morti e riciclati potremmo passare qualche istante di palpabile imbarazzo scoprendo di essere stati ingannati non solo circa l’ante tomba, ma anche a proposito dell’oltre.

Se queste possibilità tengono botta nel futuro, che è per tutti l’aldilà (nulla permettendo), non possono reggere nell’aldiquà, il che porta inevitabilmente alla guerra. Ma per fare la guerra bisogna essere in grado di combatterla: servono uomini giovani pronti a morire, armi, determinazione, qualità morali ormai spente sotto la sindrome del giardinaggio – lo stesso Borrell, omologo dell’ex-ministro degli Esteri Di Maio per l’Unione Europea, ha paragonato l’Europa ad un “giardino” e il resto del mondo alla “jungla”. Sempre Borrell ha definito il genocidio dei nativi americani “quattro indiani morti“. Tutto, agli occhi del vecchio rimba, appare un sacrificio minimo rispetto al Moloch della sua personale tranquillità e tran-tran.

Ciò che occorrerebbe per fare la guerra non si compra su Amazon, e il negro in bicicletta non te le consegna a casa. Infatti diamo cataste di armi e denaro ad altri: agli ucraini, all’Isis, a Boko Haram e Al-Shabaab perché si facciano ammazzare e ammazzino al posto nostro. Ciò che ieri era undercover, la guerra di prossimità come si chiama in gergo, oggi è di pubblico dominio: è diventata narrazione ufficiale. Da sempre, il modo migliore per nascondere un abominio è renderlo normale e all’apparenza innocuo come il Tg1.

La domanda a questo punto è semplice: per quanto ancora i quattro indiani nella jungla accetteranno lo status quo occidentale? Astenersi ottimisti.

 


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