Ricevo e volentieri pubblico.
di Francesco Santoni
Quante volte abbiamo dovuto ascoltare la lezioncina politicamente corretta che recita «Non esiste la teoria del gender!»?. Peccato che basti leggerne una delle sue massime propugnatrici, Judith Butler, per convincersi che non solo esiste, ma anche che così viene chiamata proprio là dove è stata concepita, nel mondo accademico anglosassone: gender theory[1] (teoria di genere, anche se spesso si preferisce non tradurre gender per rendere chiaro in quale accezione si usi il termine). È opportuno ricordare cosa dica esattamente questa teoria, che comunemente viene fraintesa per una forma di dualismo per cui da un lato ci sarebbe il corpo sessuato, e dall’altro la mente o coscienza, svincolata dai limiti del corpo e libera di definire da sé e per sé la propria identità di genere. La Butler rifiuta esplicitamente il dualismo. Primo, perché il soggetto non è mai disincarnato, ma è sempre cosciente di sé attraverso il corpo. Secondo, e questo è l’aspetto più interessante, perché il corpo non sarebbe concepibile come realtà naturale data e fissata. Il corpo per la Butler è situazione, un termine di relazione e centro di tensione che si dà sempre già in un contesto di rapporti e di possibilità. Il corpo è uno stato che nel suo darsi è già superato. Ciò relativizza il sesso stesso come realtà naturale stabile, in quanto anche il sesso avrebbe significato solo in situazione. Se dunque ha senso classificare gli individui in base al sesso in ordine alla riproduzione, tale classificazione non ha nulla di assoluto e di stabile, così che la classificazione degli individui come maschi o femmine non avrebbe alcun titolo di privilegio rispetto a classificazioni basate su qualsiasi altra caratteristica anatomica, come ad esempio la forma delle orecchie. A fondare la distinzione tra sesso e genere non è dunque un rigido dualismo tra mente e corpo. Qualsiasi tentativo della mente di prescindere da una realtà naturale stabile che la precede, sarebbe infruttuoso. Né si dà il caso che il soggetto preceda il corpo, nel quale invece è incarnato a priori della propria consapevolezza di sé e capacità di autodeterminazione. È invece perché il corpo puro non può essere trovato, ma solo il suo esser situato, che è garantita al soggetto la possibilità di diventare il suo proprio genere come continua interpretazione e reinterpretazione del proprio corpo.
Dicevamo che questa relativizzazione del corpo è l’aspetto più interessante della teoria perché con essa viene relativizzata la stessa distinzione tra sesso e genere, di modo che non solo il secondo sarebbe una costruzione psico-sociale, ma lo sarebbe anche il primo. E questa è infatti la tendenza espressa dal costruttivismo psico-sociale più recente.
Il fatto dell’interpretazione e reinterpretazione del proprio genere parrebbe quasi presentare un aspetto di teatralità, di rappresentazione, di gioco. La realtà purtroppo ci dice che la fluidificazione dell’identità porta a problemi seri e a patologie vere e proprie. Ed ancora più problematico è il fatto che non si vede come il libero sviluppo delle interpretazioni possa trovare un limite, con tutti i problemi etici che da ciò derivano. Nell’ambito giuridico invece, ogni istituzione che si voglia democratica, finirebbe per trovare la sua legittimazione solo attraverso la progressiva inclusione di ogni interpretazione, e dunque il continuo allargamento dei diritti individuali sino alla legittimazione del capriccio stesso.
Abbiamo così esposto quelle che sono le premesse teoriche dell’incredibile battaglia politico-culturale che ad oggi sta infuriando intorno al gender. Il fronte su cui lo scontro è più acceso è sicuramente la questione dei cosiddetti matrimoni egualitari, comunemente chiamati matrimoni gay, e la possibilità di adozione di figli da parte di queste coppie, anche mediante, ma non necessariamente, la controversa pratica dell’utero in affitto. E questo è un altro aspetto su cui batte il politicamente corretto: «Esistono trent’anni di studi che confermano che le coppie omogenitoriali sono, per i figli, indifferenti da quelle “tradizionali”, anzi, in certi casi sono anche migliori». Peccato che anche a proposito di questi “trent’anni di studi” esistano ormai molte prove di come essi siano basati su statistiche viziate, pregiudizi inindagati ed interpretazioni tendenziose. Come ci sono altresì evidenze delle conseguenze negative sui figli cresciuti nell’ambito di questi “nuovi tipi di famiglie”[2]. Si tratta dunque di studi che dietro la facciata scientifica, sono portatori di un’istanza ideologica, proprio quella che siamo adusi chiamare “ideologia gender”. Anche su questo punto i padroni del discorso politicamente corretto attaccano: «Non esiste l’ideologia gender!». Ovviamente noi critici non ci aspettiamo che i propugnatori di questi studi ne ammettano il carattere ideologico. Il loro linguaggio è fatto di termini neutri: teoria di genere, studi di genere, linguaggio di genere, etc.
Ora però è accaduto un fatto notevole. Uno dei summenzionati studiosi, pentitosi, ha scoperto le sue carte, mettendo nero su bianco le sue confessioni in cui ammette come i suoi precedenti lavori siano senza fondamento scientifico, di come né lui né nessun altro abbia mai davvero dimostrato che il genere sia un costrutto sociale, e che l’attuale consenso accademico sulla questione sia fondamentalmente un’ideologia che difende se stessa rifiutando di confrontarsi a priori con qualsiasi argomento di segno opposto, e accettando come validi solo studi che giungano a conclusioni prestabilite. Questo studioso è il canadese Christopher Dummitt, storico della cultura e della politica, professore associato alla Trent University’s School for the Study of Canada, che il 17 settembre 2019 ha pubblicato sulla rivista on-line Quillette le sue Confessioni di un costruttivista sociale, un articolo che è stato pubblicato ieri in traduzione integrale su questo blog (leggi qui).
Riassumendo dunque, la teoria gender esiste, non presenta quel carattere scientifico che i suoi propugnatori sbandierano, e si sorregge fondamentalmente su presupposti ideologici, come adesso anche un ex-propugnatore ammette. È abbastanza sorprendente come proprio ora che questa forma di pensiero sembra essere vincente sul piano politico-culturale, emergano con chiarezza nella sua struttura portante sempre più crepe e cedimenti. Forse è proprio perché questi problemi diventano sempre più evidenti anche ai suoi seguaci, che oggi il loro attivismo appare sempre più infervorato e politicamente aggressivo. La società e la politica si dimostrano ancora per lo più sorde agli argomenti dei critici della teoria gender, ma ci sentiamo di pronosticare che una divulgazione seria, precisa, continua e caparbia, abbia concrete possibilità, con il tempo, di incidere sulla cultura di massa, producendo nella maggioranza delle persone quel cambiamento di mentalità necessario a costringere la politica a riorientarsi. La decisione di tradurre e diffondere le confessioni di Dummitt fa parte di questa operazione educativa ed informativa di lungo periodo.
[1] Cfr. Judith Butler, Sex and Gender in Simone de Beauvoir’s Second Sex, Yale French Studies, No. 72, Simone de Beauvoir: Witness to a Century (1986), pp. 35-49; doi: 10.2307/2930225
[2] Per un’analisi critica approfondita dei “trent’anni di studi” e delle conseguenze sui figli, vedasi: Walter Schumm, Same-Sex Parenting Research. A Critical Assessment, Wilberforce Publications, London, 2018; Elena Canzi, Omogenitorialità, filiazione e dintorni, Quaderni del Centro Famiglia, n. 29, Vita e Pensiero, Milano, 2017.
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