Rilanciamo l’opinione di Robi Ronza sul prossimo Referendum per il taglio dei parlamentari pubblicato sul suo blog.

Voterò “no” al referendum popolare del 20-21 settembre prossimi e mi sento in dovere di spiegarne qui i motivi.
In linea di principio non sono contrario a una riduzione del numero dei seggi delle Camere, che in caso di vittoria del “sì” diminuiranno da 315 a 200 (più i senatori a vita) nel caso del Senato e da 945 a 600 nel caso della Camera dei Deputati. Sono però contrario a che una modifica del genere si faccia isolatamente, e non nel quadro di una riforma complessiva delle istituzioni della Repubblica. Da sé sola infatti tale riduzione è a mio avviso come un colpo di scure calato a caso su una catasta di legna.
Tenacemente voluta dal Movimento 5 Stelle, tale modifica è del tutto coerente con la filosofia politica di tale forza politica, che esplicitamente si ispira al progressismo autoritario del pensatore ginevrino settecentesco Jean-Jacques Rousseau e al suo giudizio negativo sulle istituzioni parlamentari. Ironizzare troppo sui 5 Stelle, sui loro deputati e senatori spesso improvvisati e sul fatto che il loro fondatore è un ex-comico non aiuta a capire che il loro è un progetto tanto preoccupante quanto nient’affatto casuale. Ha infatti un solido impianto culturale che è una sciocchezza non prendere sul serio. Caso mai c’è da domandarsi perché alle Camere la loro proposta sia stata condivisa da uno schieramento di forze tanto ampio quanto è bastato per farla giungere fino a questo punto.
Come già ricordavo (cfr. in questo stesso sito Taglio dei parlamentari: il cruciale referendum di cui non si parla, 19 agosto 2020), il referendum del 20-21 settembre è il punto d’arrivo di una campagna di delegittimazione del sistema parlamentare, ispirata a nobili intenti ma molto pericolosa, che iniziò oltre dieci anni or sono. Il voto all’imminente referendum si situa in tale contesto. Occorre tenerne conto. Né va dimenticato che nel caso dei referendum costituzionali non c’è il quorum. Valgono quale che sia il numero degli elettori che si recano alle urne. Quindi l’astensione non equivale al “no”.
Detto questo, resta vero che il sistema istituzionale definito dalla nostra Costituzione è da rifare. E per parte mia sono fra quelli che ritengono lo si debba rifare nel segno del riconoscimento del principio di sussidiarietà con tutto ciò che ne deriva innanzitutto nel rapporto tra società civile e istituzioni; e nel segno dell’autonomia piena e responsabile dei territori nonché di un governo e di un parlamento entrambi forti perché entrambi eletti direttamente dal popolo. Rispetto a una prospettiva del genere il “sì” al referendum del 20-21 settembre non vale tuttavia nemmeno come primo passo. E’ anzi un passo nella direzione opposta. Dunque ribadisco che voterò “no”.
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