C’è un brandello di frase pronunciato da Mario Draghi tre sere fa sul quale vale la pena tornare. A proposito della chiusura delle frontiere e le misure contro la variante Omicron, il premier ha concluso: “Non credo ci sia molto da riflettere”. Un effetto simile me lo fecero le parole del presidente Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi alla vaccinazione”. Si tratta di quelle voci ‘dal sen fuggite’ che rivelano molto, a patto di non gravarle di massimalismo. Bisogna prenderle per suggestioni che in modo praeter-intenzionale aprono nuove prospettive.
Keine Metaphysik mehr!, mai più metafisica, è uno dei più celebri imperativi marxiani. Frantz Fanon ne I dannati della terra (a mio parere il massimo teorico del ‘900 dell’uso della violenza come diritto politico) scrive “ciò che conta non è conoscere il mondo, ma cambiarlo”. Liquidare certe tesi mettendone in luce aporie e falle – come cambiare qualcosa che non si conosce? E chi viene dopo, all’interno di quale paragone colloca il cambiamento? – può far perdere di vista importanti sfumature, capaci di descrivere un’epoca in modo icastico: quello che sostengono Marx e Fanon è la fotografia del nostro tempo. Un’altra frase, pronunciata da Margareth Thatcher, è stata spesso saccheggiata negli ultimi vent’anni di politica europea e italiana: there is no alternative, non c’è alternativa.
Partiamo dall’ultima: per la maggior parte degli opinionisti, anche i più critici, a Mario Draghi non c’è alternativa. Quando mai si è cercata? Soprattutto, da questa tragica penuria di opportunità sono investite non solo le scelte politiche – ricette, riforme, direttive – ma le persone stesse. Torna in mente l’accorato “fate presto” per chiamare in servizio il salvatore della patria Mario Monti, o l’ansioso “non c’è più tempo” di Greta Thumberg, la diciottenne che salverà il pianeta. E così l’ideologia post-bellica del “cambiare il mondo”, travasata di bocca in orecchio in bocca, sublima nell’idea di salvarlo. Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle.
Draghi non ha pronunciato la formula magica T.I.N.A. ma è come l’avesse fatto, aggiungendo una punta di avversione nei confronti di chi perde tempo a riflettere. In filigrana una logica a suo modo ferrea, perché risalendo la corrente del ragionamento privi di ogni alternativa – in ultima analisi se non posso scegliere, a che serve la libertà? – si giunge in effetti all’inevitabile fastidio per il pensiero, la riflessione, la speculazione, il dubbio, la critica.
La nostra cultura è intrisa da una strana fretta venata di disperazione. Il rifiuto del pensiero, della riflessione, del dubbio, della prudenza è l’àpeiron del nostro tempo. Quando Massimo Cacciari accusa il salto da un’emergenza all’altra senza soluzione di continuità e il brusco passaggio allo stato d’eccezione – modo elegante di ribadire l’anomia denunciata dal professor Agamben – dice, piaccia o meno, qualcosa di perfettamente sensato. Prendiamo atto che questa sensatezza invece di incuriosire, scatena un odio furioso malcelato dallo scherno. Un tempo i grandi sovrani venivano educati e consigliati dai filosofi. Alessandro Magno ebbe come precettore Aristotele, e non c’è dubbio che senza l’Ellenismo la storia del mondo sarebbe stata profondamente diversa. Gli stessi romani, poco inclini al pensiero speculativo, avevano tuttavia una sconfinata ammirazione per la cultura greca. Oggi no: non c’è tempo di pensare, il morbo Omicron incombe, chi pensa è nemico del popolo.
Oggi in campo politico, economico e scientifico assistiamo al trionfo terminale della prassi. Una prassi sfrenata, evasiva, ostinatamente acritica, che reagisce a stimoli pavloviani e non sa che farsene della ragione e della persuasione. In campo religioso facciamo i conti, e anche questo è un segno dello Zeitgeist, con un papa che lamenta la scarsità dei vaccini ai poveri, preoccupato per gli immigrati, l’economia che uccide, la cultura dello scarto, il pettegolezzo, la catastrofe ecologica, la guerra mondiale a pezzi, contrario ai populismi, animato da nobili propositi di fratellanza universale. Tutte intenzioni encomiabili – gli anglosassoni parlerebbero di wishful thinking – chiaramente filtrate da categorie sociologiche, ma fattibili? Non a caso il papa utilizza con una certa insistenza una parola cara alla contemporaneità ma del tutto estranea alla dottrina e al magistero cattolici: la parola “sogno”. Lo fa senz’altro nel tentativo di combattere il fuoco col fuoco, ma è una scelta che presenta diversi azzardi morali e non poche incognite di scopo.
Gli esempi brevemente esposti definiscono una visione del mondo “in frantumi”. La tumultuosa rincorsa alle soluzioni diventa sempre più estrema. L’azione politica è robotica. L’economia rantola emettendo slogan sempre più esili: sostenibilità, transizione, ripresa, resilienza, nuova normalità. La notizia è che, non essendo sostenute da un pensiero collaudato né una visione strategica definita da obiettivi, e non soltanto dai tempi, sono formule che per lo più non significano nulla. A meno di non sostenere che mitragliate di frasi fatte comprensibili anche a bambini speciali si possano chiamare pensiero.
Goya ammonì visivamente circa il fatto che il sonno della ragione genera mostri. Il sonno è il contenitore privilegiato del sogno. Il sogno è il luogo in cui è perfettamente ammissibile star seduti su una baionetta masticando un copertone alla crema in compagnia di una lontra volante. Il fatto è che da tutti i sogni ci si risveglia. La realtà ha una sua adamantina durezza che non si piega né si spezza. Viene da chiedersi se il pensiero irriflesso di Mario Draghi è lo stesso di quando disse che il green pass è “la garanzia di trovarsi fra persone che non sono contagiose”? Visto che a lui non ci sono alternative sarebbe meglio se invece di non riflettere, lo facesse anche per gli altri. Per il bene dell’Italia e degli italiani, perché il conto al ristorante rischia di essere salatissimo.
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