Papa San Giovanni Paolo II e don Luigi Giussani
Papa San Giovanni Paolo II e don Luigi Giussani

 

di Mattia Spanò

 

“Giussani […] ha voluto che la Fraternità fosse riconosciuta come «associazione universale di fedeli»: se avesse voluto diversamente, avrebbe senza dubbio potuto farlo. […] Ha chiesto cioè che l’autorità della Chiesa confermasse ciò che era nato attraverso di lui, perché ciascuno di noi potesse seguire il cammino del movimento sicuro di seguire in questo modo il cammino della Chiesa. […] Don Giussani ha dunque voluto che la Fraternità di CL fosse una associazione di fedeli e perciò che avesse degli statuti […]. Rimane il fatto che l’ultima volontà di Giussani è stata che la Fraternità di CL avesse gli statuti che ha, e a questa volontà noi dobbiamo attenerci […] Credo che Giussani avrebbe impedito che avessimo questo tipo di regolamenti, a meno di pensare che il don Gius volesse bypassare le indicazioni la Chiesa, cosa che spero nessuno di noi ritenga credibile. No, don Giussani ha voluto che la Fraternità fosse ciò che è”.

Questa parte della seconda comunicazione di Davide Prosperi alla Fraternità di Comunione e Liberazione sembra rispondere ad un dibattito tra Rodolfo Casadei e il sottoscritto. Sostenevo che don Giussani non volesse il riconoscimento né dei Memores Domini, né della Fraternità. Casadei documentò che Giussani avesse descritto il riconoscimento pontificio come la più grande grazia nella storia del movimento.

Avendo ricevuto due conferme indipendenti tra loro e dalla testimonianza originale della veridicità di quanto ho scritto, ribadisco: don Giussani non voleva alcun riconoscimento. A suo giudizio, il problema della Chiesa non era fondare l’ennesima organizzazione, perché già allora nella Chiesa ve n’erano per tutti i gusti. Ciò che gli stava a cuore era la vita: la Chiesa mancava di vita. Per il cristiano, “il vivere è Cristo e il morire guadagno” (Fil., 1:21).

Chi provò – e riuscì – a fargli cambiare idea furono Enrico Manfredini ed Eugenio Corecco. Due uomini di rilievo nei primi decenni del movimento, e in ascesa nella Chiesa, scomparsi prematuramente. Non si tratta di assegnare torti e ragioni postumi, ma di vedere ciò che oltrepassa anche il momento attuale cogliendo, per quanto possibile, quegli elementi che muovevano don Giussani sia nel manifestare contrarietà al riconoscimento pontificio, sia nell’accettarlo con gratitudine.

Ancora in occasione dei 50 anni di CL, nella lettera a S.S. Giovanni Paolo II del 26 gennaio 2004, Giussani scrive: “Non solo non ho mai inteso «fondare» niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta. […] Per questo non ci sentiamo portatori di una spiritualità particolare, né avvertiamo il bisogno di identificarla”. Senza bisogno di identificarla, figuriamoci disciplinarla canonicamente.

Il punto non è perpetrare una polemica a pelo d’acqua fra Prosperi, Casadei, me e quanti avessero preso posizione pubblica sul fatto – ad oggi, mi risultano le persone testé menzionate. Mi dispiacerebbe se i fatti ricordati venissero usati contro Prosperi, tuttavia non faccio ammenda per le bassezze altrui, che ne ho abbastanza delle mie.

La questione è che in un momento drammatico come quello presente nella vita di un movimento della rilevanza di CL, tornare alle tensioni iniziali aiuta a vederci chiaro. La vita non è una bella favola per nessuno, nemmeno per i geni profetici come Giussani, ed è ricca di scelte dure e incerte. Prosperi, oltre ad essere un uomo di fede, affezione e pace del cuore, è senza dubbio intelligente e perciò avverte l’esigenza di tornare al nocciolo della questione.

Esauriti i salamelecchi e provando a mettere il naso fuori dal budello di cosa Giussani volesse o non volesse – entrambe le cose, ho scritto, il che sfugge alle nostre misere intelligenze computazionali – mi permetto di sottolineare uno spunto citato da Giussani nella lettera a Giovanni Paolo II: la “fraternità sacramentale”.

Parto da questa formula impervia per sviluppare una breve riflessione. Impervia perché Giussani, a dispetto della vulgata, usava un linguaggio potente ma di complessità frattale, e perché i cattolici versano in uno stato di gongolante ignoranza circa ciò che Cristo, la Chiesa e il cristianesimo sono realmente. La riduzione dell’esperienza cristiana a emozione, sentimento o tutt’al più mucillagine psichiatrica ha generato una sterilità culturale e un ritiro dalla vita pubblica allarmanti. Questa deriva spariglia tutti, anche me, com’è ovvio. L’unica esile distinzione la possiamo stabilire fra chi se ne rende conto, e chi pensa che una crema calda e marrone sia per forza cioccolata.

Se poi aggiungiamo un ministero petrino claudicante – sono tempi difficili – e il drammatico ammutinamento in pandemia di una parte maggioritaria del clero, carname frollato dalla paura della morte, che si è spavaldamente eclissata ad esempio evitando d’impartire i sacramenti ai moribondi, la tempesta perfetta è servita. 

A questo proposito persino don Julian Carròn diede, su Avvenire, un giudizio strabiliante. Ad una ragazza che lamentava di non poter vedere il nonno morente, e morente da solo, Carròn risponde che “è evidente qui che la circostanza richiede e in un certo senso impone un sacrificio: quello che vorremmo fare non è realizzabile, ci è impedito. Ma il punto è di nuovo se la circostanza, così come essa ci è “data”, cioè nella sua inevitabilità […] è tomba […] o è vocazione,  […] il modo con cui il Mistero […] provoca me al compimento del vivere […]. Se riconosce la realtà come una chiamata, quella ragazza può dire, come infatti ha detto […]: «Anche questa circostanza è per me. Anche questa impotenza è per me. Anche la solitudine di mio nonno in ospedale è per lui”. 

Se capisco bene, crepare soli come cani non è un segno della rivoltante viltà degli uomini, ma una grazia di Dio. Se così è, allora vale tutto. Il confine fra il mettersi in relazione col mondo –  che a voler essere puntigliosi è una condizione oggettiva, dunque mi sembra azzardato imbastirvi un pensiero men che ridicolo – e l’acquiescenza deve stagliarsi netto davanti agli occhi, altrimenti il cristianesimo diventa incomunicabile. Nessuno avrebbe motivo per accostarsi al fatto cristiano se si rimuove Colui che ha vinto la morte, e dal quale ogni istante prende luce e forza. E in quale buco di pazzia conduca il terrore della morte lo stiamo vedendo.

Ecco perché occorre riandare alla “fraternità sacramentale” cui accenna Giussani. Che mi pare essere l’Ut Unum Sint del Vangelo di Giovanni: «Non soltanto per questi io prego ma anche per quelli che, attraverso la loro parola, crederanno in me, che tutti siano una cosa sola (ut omnes unum sint), e come tu, Padre, sei in me e io sono in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola (ut et ipsi in nobis unum sint), affinché il mondo creda che tu mi hai mandato, e io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, perché essi siano una cosa sola, come una cosa sola siamo noi, io in loro e tu in me … affinché il mondo sappia che tu mi ha mandato e hai amato loro come hai amato me». 

Il riferimento anche all’enciclica Ut Unum Sint di Giovanni Paolo II appare tanto più chiaro non appena Giussani prosegue: “E forse proprio questo ha destato possibilità imprevedibili di incontro con personalità del mondo ebraico, musulmano, buddista, protestante e ortodosso, dagli Stati Uniti fino alla Russia, in un impeto di abbraccio e di valorizzazione di tutto ciò che di vero, di bello, di buono e di giusto rimane in chiunque viva un’appartenenza”.

Alla fine è questione di appartenenza, cioè unione fraternamente sacramentale col Padre e il Figlio, per noi e per chi vorrà guardarci con simpatia.

 

 

 

 

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