Vincenzo Paglia

Vincenzo Paglia, vescovo

 

di Giorgia Brambilla

 

L’idea di una “Bioetica globale” non mi ha mai convinta. Né come cattolica, nè come bioeticista.

Come cattolica, perché il cattolicesimo non ha bisogno di attingere a valori laici e illuministi; non ha bisogno di “fraternità” perché ha la carità; non ha bisogno di “umanesimo” perché conosce il valore della persona umana dall’atteggiamento che Dio ha nei suoi confronti; non ha bisogno di “sogni”, perché ha la virtù della speranza; non ha bisogno di costruire un “dialogo interculturale” perché ha la Rivelazione che avanza la pretesa irrinunciabile di dire la verità sull’uomo e una verità da proporre e annunciare pubblicamente ad ogni uomo e per questo già universale, senza bisogno di farsi “globale”.

Come bioeticista, perché l’accezione “globale” fa riferimento sì al padre del neologismo “Bioethics”, ma fondamentalmente a un’idea di Bioetica molto distante, non solo da come siamo abituati a considerarla oggi, ma soprattutto dalla ricchezza della morale cattolica, sulla quale essa dovrebbe costitutivamente fondarsi.

Fatto sta che, invece, stando all’intervista per Radio Vaticana sul dopo pandemia, mons. Paglia avrebbe ribadito la necessità di costruire una “Bioetica globale” (qui) riprendendo, di fatto un’idea  precedentemente proposta (qui) che già faceva riferimento ad una «nuova Bioetica globale nell’era della robotica». Ciò che colpisce di più è l’assenza di riferimenti fondativi legati alla fede – visto che peraltro se ne sta parlando all’interno di un contesto cattolico e non laico o laicista. Nessun accenno al valore della vita terrena considerato non in sé, ma in relazione a quella eterna – tanto più che il discorso è calato all’interno della pandemia – e nemmeno un riferimento alla legge morale naturale, caposaldo del giudizio etico sull’atto che la Bioetica è chiamata a svolgere.

Proviamo a ragionare sui rischi di una revisione di questo tipo per la disciplina della Bioetica e soprattutto per il suo ruolo. Oggi è lampante il fatto che un’etica costruita alla luce della sola ragione sarà in grado soltanto di stabilire dei limiti approssimativi alla oggettivazione dell’altro che però risulta di per sé inevitabile. L’uomo, infatti, è sempre tentato da una forma di utilitarismo. Del resto, se egli da solo deve garantirsi la sua esistenza, il suo futuro non potrà mai essere completamente disinteressato: l’altro gli apparirà sempre in qualche modo come un mezzo per la sua felicità, un mezzo per sé, per garantirsi la sua esistenza (J. Ratzinger, La Bioetica nella prospettiva cristiana). La delimitazione formale della Bioetica come etica filosofica, antropologicamente e metafisicamente fondata, ma separata dalla Teologia, presuppone la stessa concezione razionalistica e riduttivistica della ragione di stampo moderno.

È impossibile non rendersi conto che c’è bisogno di quella sapienza sull’uomo senza cui le soluzioni morali non soddisfano. Infatti, la questione alla radice delle problematiche bioetiche è quella di senso; e forse è proprio per sfuggire a tale angosciante domanda che l’uomo cerca di assicurarsi un controllo completo sulla vita attraverso la pretesa di assoluta libertà illudendosi di avere potere su di essa, ricalcando l’antico sogno di autofabbricarsi.

Dunque, non si può costruire la morale a partire dall’etica, cioè a partire dalla ricerca di soluzioni particolari, senza confrontarsi sulla scelta fondamentale che tutte le sostiene e le motiva. Ed è per questo che non solo l’esclusione della Teologia dal dibattito pubblico, ma anche la separazione dalla Teologia persino da parte di quei bioeticisti della parte cattolica – i quali rifiutano la qualifica di “cattolica” per la Bioetica da loro elaborata, preferendo dedurla da una metafisica garantita nel suo valore universale dal rigoroso riferimento alla sola ragione – ha comportato un notevole prezzo da pagare (L. Melina, Riconoscere la vita. Problematiche epistemologiche della Bioetica). Invece, il discorso rigorosamente razionale della Bioetica trova un suo naturale prolungamento nella Teologia, e nella fattispecie in quella morale. Questa, occupandosi delle questioni riguardanti la vita umana e la sua integrità, riceve dalla Bioetica lo status quaestionis, cioè l’analisi del problema etico – che comprende la definizione delle componenti biomediche e le interpretazioni fornite da altre discipline – insieme alle conclusioni della riflessione propria della filosofia morale, il che ordinariamente facilita un primo discernimento fra il lecito e l’illecito, il bene e il male.

Diversamente, il rischio è quello di cadere in un umanesimo secolarizzato, in cui l’uomo è considerato nell’orizzonte immanentistico e temporale, in un’ottica riduzionista e in chiave individualista e punta a una specie di salvezza terrena.

E, in effetti, era proprio questa l’idea di “Global Bioethics” dell’ideatore del neologismo “Bioetica”. Il cancerologo V.R.Potter, che quando scrisse “Bioethics: bridge to the future” pensava a una «biologia combinata con le varie forme del sapere umanistico in modo da forgiare una scienza che stabilisse un sistema di priorità mediche e ambientali per la sopravvivenza» (V. R. Potter, Global Bioethics. Building on the Leopold Legacy). Dicevo, infatti, che la Bioetica nacque con un’accezione completamente diversa da come siamo abituati a pensarla oggi. Lo stesso inventore del termine chiamò “primo bioeticista” Aldo Leopold, un ecologista americano che, dopo la rivoluzione darwinista e quella freudiana, sosteneva la necessità di promuovere “costumi antropologici” per l’equilibrio dell’ecosistema, nella convinzione che certi stili di vita avrebbero potuto favorire un’evoluzione negativa del mondo e della specie umana. Questo stampo promuoveva una “nuova etica della sopravvivenza” dove la qualità della vita fisica (Medical Bioethics) fosse coordinata alla qualità della vita ambientale ed ecologica (Ecological Bioethics), da cui si formulò una sorta di criterio di eticità secondo cui un comportamento è giusto o sbagliato in funzione della sopravvivenza e della protezione della biosfera e dove solitamente l’essere umano è uno degli esseri viventi e solitamente il più dannoso.

Dunque, sebbene probabilmente l’intervista non volesse riprendere in toto questi contenuti, per noi costituisce un’occasione per riflettere e per chiederci se sia opportuno fare riferimento a una fetta di storia della Bioetica così lontana dal bagaglio già ricco della nostra morale cattolica in cui, invece, il valore della persona umana è inalienabile e fondativo nei confronti dei cosiddetti “principi non negoziabili”.

In altre parole, se la Bioetica ha qualcosa da dire in questa pandemia, è in riferimento al valore dell’essere umano a scanso di derive riduttiviste ed eugenetiche, che invece, purtroppo, sono state numerose. Basti pensare al rifiuto dei ventilatori polmonari ai disabili in USA (qui) o all’eutanasia preventiva proposta agli anziani in Olanda (qui). In tempi così difficili, la Bioetica ha il compito di aiutare a comprendere il ruolo fondamentale della famiglia per il bene comune o quello di mostrare il vero volto della libertà che è la responsabilità e non la cieca autodeterminazione. Deve, oltre a questo, smascherare le strumentalizzazioni della malattia stessa in favore di abusi contro la vita umana, come la spinta sull’aborto chimico (qui) e sulla maternità surrogata (qui).

Perché tanta insistenza sulla «fraternità e sulla solidarietà, intese non come valori cristiani», come riporta l’intervista? Spesso, siccome le tematiche bioetiche si svolgono nell’arena pubblica, in cui si incontrano culture e religioni differenti, si crede che il dialogo sarebbe favorito da una discussione impostata sulla sola ragione e la morale si dovrebbe accontentare di una “grammatica minima” e di un’antropologia debole. Ma c’è un pericolo; il pluralismo rischia di essere un “paravento”, se non addirittura uno strumento ideologico, per escludere a priori la verità fino a considerarla dannosa, compromettendo la ragione stessa fino all’implosione dell’Etica – e in questo caso della Bioetica – che diventa incapace di indicare chiaramente cosa è giusto e cosa è sbagliato e viene meno al suo mandato più profondo, diventando non una “Bioetica-per tutti”, ma una “Bioetica-per nessuno”.

Resto fermamente convinta, invece, che sia urgente oggi più che mai riscoprire la Bioetica (qui) come disciplina costruita sulla “roccia” più sicura e stabile, cioè quella del Magistero perenne della Chiesa, per combattere la “buona battaglia” per la vita, specialmente in momenti così drammatici come quello che stiamo vivendo.

Bisogna diffidare in Bioetica dalla pretesa moderna di creare un piano di morbida tolleranza che si mette a “dialogare” con il male morale, anziché denunciarlo, e spende sofisticamente tante parole quando ne basterebbero due, quelle indicate da Nostro Signore: “Sì” e “No”.

 

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