di Gianni Silvestri
“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro” (Lc 6,39).
Oggi si discute tanto su dottrina e pastorale, (quasi fossero esigenze alternative), utilizzando quest’ultima per motivare le tante “novità” che si sperimentano in ambito ecclesiale. Tale “esigenze pastorali” hanno radici antiche (o profonde) e spesso denotano nella chiesa le diverse posizioni tra chi intende difendere l’integrità del “depositum fidei” come tramandatoci dalla tradizione apostolica e chi lo ritiene in qualche modo adattabile alla mutevoli esigenze dei tempi (la semplificazione è d’obbligo per meglio intendere- in poco spazio- la complessità delle posizioni).
Lo stesso Concilio Vaticano II, per tanti, ha avuto una funzione preminentemente “pastorale” vista la stessa volontà di Papa Giovanni XXIII che lo convocò.
Giova ricordare che esso (dal 1962-al 1965) ha prodotto sedici documenti tra cui quattro “costituzioni”: ( oltre nove “decreti” e tre “dichiarazioni”).
La “Dei Verbum” è al vertice, perché il ritorno alla Sacra Scrittura è fondamentale per meglio comprendere non solo tutti i documenti conciliari, ma i contenuti stessi della fede.
La “Lumen gentium” affronta la natura della Chiesa, che non può prescindere dalla riforma liturgica codificata nella “Sacrosanctum concilium”.
Nella “Gaudium et spes” si tenta di cogliere le trasformazioni della società moderna per fondare una nuova modalità di “essere Chiesa” nel mondo contemporaneo.
Sul complesso tema del Concilio e “post-Concilio” mi rifaccio alla chiara interpretazione di Benedetto XVI sulla “ermeneutica della continuità”, come illustrata nel suo noto discorso del 22 Dicembre 2005 alla Curia Romana.
Papa Benedetto (esplicitando una concezione già presente in San Giovanni Paolo II), ha letto il Concilio nel solco del cammino e della tradizione della Chiesa che sempre cerca di meglio adattare le modalità di annuncio del suo messaggio di salvezza in un mondo che cambia (aggiornare le modalità di annuncio del messaggio, non certo i suoi contenuti, come qualcuno vorrebbe).
Tale lettura si pone in contrasto con l’altra ermeneutica “di rottura” di matrice “progressista” che sottolinea la discontinuità del cammino della Chiesa dopo il Concilio e la necessità di una evoluzione che adatti lo stesso messaggio di fede, alle “diverse sensibilità” del mondo moderno.
E quando tale discontinuità non appare nei documenti conciliari, negli anni del post-concilio si è creato il concetto di “spirito del Concilio” alla luce del quale giustificare ogni tipo di novità, non prevista dai documenti, per “avvicinare il mondo” (i più critici sostengono “per avvicinarsi” al mondo, ma questa è un’altra storia).
Orbene, anche le novità del pontificato di Papa Francesco necessitano di una lettura precisa: per alcuni cardinali, ad esempio, quelle della “Amoris Laetizia” sono state talmente atipiche da suscitare dei dubbi che rispettosamente hanno comunicato, purtroppo senza ricevere chiarimenti, che di certo avrebbero giovato all’intero popolo cristiano.
Le tante scelte “o aperture” di questo pontificato sono giustificate e/o motivate, da tanti suoi interpreti, proprio da esigenze di natura pastorale, rifacendosi alle parole dello stesso papa che ha spesso parlato della necessità di pastori che “conoscano l’odore delle pecore”.
Questa impostazione pastorale, per tanti, vorrebbe segnare addirittura “un cambio di paradigma” non solo nell’azione, ma persino nella concezione che la chiesa ha di sé, quasi a voler segnalare la preminenza della funzione pastorale, dell’agire rispetto a quella dottrinale, spesso ridotta a freddo rigidismo intellettuale rispetto alle pressanti esigenze della vita “concreta” (senza pensare che la dottrina guida la catechesi che appare quanto mai necessaria, vista la bassa consapevolezza del “cristiano qualunque”).
Il tema“dottrina-pastorale” , così come risultante dall’attuale rappresentazione mediatica, necessita di un chiarimento per poter meglio comprendere come i termini non siano in contrapposizione e come una “sana dottrina” sia necessaria per un’ altrettanto sana pastorale.
Le scelte pastorali concrete, infatti, non sono improvvisate o non dovrebbero essere frutto di “un carico emozionale” o della “spinta dei tempi”, altrimenti il rischio è che siano dettate da semplici reazioni istintive e che siano diverse a seconda del carattere dei pastori che nella chiesa affrontano, ai vari livelli, le tante problematiche.
Il tema teoria e prassi (dottrina e pastorale) è inoltre generale e vale anche per le scelte che noi stessi facciamo che devono essere frutto di un chiaro giudizio e discernimento:
– Le scelte sono solo il frutto di una reazione alle sollecitazioni esterne?
Se così fosse non saremmo noi a scegliere, ma saremmo determinati solo dalle condizioni che ci interpellano.
– Le scelte sono invece frutto del sentimento? O delle emozioni del momento? In questo caso corriamo il rischio che esse siano condizionate dallo stato d’animo in cui ci troviamo o dal carattere di chi le fa o le subisce: saremmo nel regno dell’incertezza e dell’improvvisazione.
Potremmo continuare, analizzando anche l’inaffidabilità del tornaconto che è un altro principio predominante nei comportamenti odierni, ma penso sia il momento di tirare le fila del nostro ragionare.
E’ indubbio che uno dei principali progressi del cammino umano è il progressivo uso della ragione, della logica che ci sottrae dalla mutevolezza dello stato d’animo e/o delle passioni e/o interessi vari, per elevare i nostri comportamenti ai principi ritenuti giusti, improntati al rispetto ed all’umanità. Ogni essere umano si trova di fronte alla scelta di agire per “il bene o per il male’ ed usa la ragione ed i “buoni principi morali” (per chi crede, quelli della fede) per orientarsi, come avviene di solito per i tanti “padri o madri di famiglia” che sacrificano il proprio tornaconto per il bene altrui o per i chi dona il proprio tempo in attività altruistiche. Nel mondo d’oggi è ancora più necessario avere idee chiare e riuscire ad individuare la via giusta da seguire, in quanto “la confusione è tanta sotto il cielo”, il danaro sta sostituendo ogni altro valore e le voci “concorrenza e competizione” sembrano giustificare ogni tipo di sfruttamento pur di arrivare al tanto agognato “benessere” (salvo poi scoprirsi sempre più soli e più vuoti: ma anche a questo la società ha trovato il rimedio, promuovendo la cultura dello sballo e delle varie sostanze che ci tolgono lucidità e ci impediscono persino di pensare).
Per questi motivi, la chiarezza di principi e di valori è ancor più necessaria “nei pastori”, in coloro cioè che hanno nella Chiesa la responsabilità di guidare gli altri nelle scelte e nei comportamenti. E’ ancor più necessario che i pastori abbiano idee chiare e conoscano le strade dove condurre il gregge, perché in caso contrario il danno sarebbe ancora maggiore, in quanto la rovina coinvolgerebbe chi – per fiducia- si è lasciato guidare. Fuor di metafora, mi sembra che oggi ci sia ancor più bisogno di una sana e lungimirante dottrina- conoscenza e chiarezza della fede- vista la confusione imperante e la nuova “etica fai da te” che la società propone in varie nuove situazioni di vita (i temi gender, i più vari comportamenti sessuali, le problematiche di fine vita, le nuove dipendenze -anche tecnologiche- che svuotano dall’interno la stessa esistenza ecc).
Come sarebbe possibile affrontare tali temi, senza una chiara dottrina e solo con una risposta “di pancia” o di convenienza sociale? Senza una chiara consapevolezza culturale che deriva dalla fede, è ben difficile concepire una pastorale che non si faccia “trascinare” o condizionare dalla mentalità del mondo, sempre più veicolata dalla stampa, dai media tecnologici, dal web, dai “social”, dalle stesse scuole sempre più smarrite ecc. Per questo nella Chiesa il più importante dicastero è sempre stato quello per la dottrina della fede che ha sempre vigilato sulle varie deviazioni, spesso pericolose per il popolo di Dio. D’altronde i frutti di un “pastoralismo” non guidato da una sana dottrina, li vediamo, da anni, nelle celebrazioni liturgiche spesso piene di sciatterie, nelle dichiarazioni improvvide di “sacerdoti e vescovi inclusivi” sui temi gender, nella adesione ad iniziative pro creato che nascondono il Creatore e via via salendo di livello sino alle richieste pastorali eretiche del sinodo tedesco, per non parlare degli accordi – perché poi tenuti segreti?- con la Cina che sembrano incrementare la persecuzione dei cristiani rimasti fedeli a Roma (nel dolore dell’inascoltato card. Zen, miglior conoscitore del regime e contrario a tali “compromessi pastorali”).
Ma fermiamoci qui “per carità di patria” sperando che questi esempi concreti ed attuali siano la comprova della necessità di una dottrina, chiara e chiarificatrice, che guidi ogni scelta .
Concludo con le illuminanti parole del cardinale Ratzinger, nell’omelia della “missa pro eligendo romano pontefice” celebrata in S. Pietro il 18.4.2005:
“Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… : dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Questa descrizione dei tempi moderni, con la necessità di una chiara dottrina, è talmente lungimirante da venir spesso citata ed accolta da vari studiosi anche non credenti, affascinati da una tale consapevolezza (uno tra i tanti è Marcello Pera, docente universitario ed ex presidente del Senato, non certo uno sprovveduto).
Il Cardinal Ratzinger proseguiva:
“Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo”.
Come si puo’ guidare la Chiesa, locale o universale, senza la chiarezza della fede e senza lo stesso aiuto del Cristo? Lui è stato il vero pastore e come prima attività ha voluto parlarci e testimoniare l’amore del Padre, chiamandoci ad affidarci alla sua volontà più che alle nostre deboli e confuse capacità. (il Suo annuncio, le Sue stesse parabole non sono “dottrina” sia pur comunicata nelle forme allora comprensibili?). Questo è il fine della pastorale: rendere evidente all’uomo ed al mondo l’Amore di Dio e la Sua Parola, che non va nascosta o diluita in “tecniche di marketing” o espedienti retorici.
La vera pastorale non può essere “il liberi tutti” come stanno da decenni sperimentando le chiese anglicana e protestante, che hanno sdoganato i temi del gender, dell’omosessualità, del sacerdozio femminile ecc: ma i mesti frutti di chiese deserte e vocazioni inesistenti sono sotto gli occhi di tutti, nonostante una ricerca spasmodica di novità con cui coinvolgere i fedeli sempre più stanchi e demotivati (questo è il tempo dell’ambientalismo spinto con invocazioni alla Madre Terra e con “spruzzate di Pachamama”).
Di fronte a tali spinte protestantiche, lo stesso Papa Francesco il 6.11.22, parlando in aereo delle assurde pretese del cammino sinodale tedesco ha affermato: «Ai cattolici tedeschi dico: la Germania ha una grande e bella Chiesa Evangelica; io non ne vorrei un’altra, che non sarà tanto buona come quella; ma la voglio Cattolica, alla cattolica, in fratellanza con quella Evangelica».
La vera pastorale – sinodale o meno- deve tendere a far emergere- e non nascondere- la Bellezza e la Potenza del nostro Dio, nel volto umano del Cristo, in cui si è rivelato.
La vera pastorale è conoscere ed affidarsi al Buon Pastore e non alle tecniche dei cosiddetti esperti (che vorrebbero trasformare un sinodo consultivo, in una sorta di Concilio Vaticano III- gestito dai gruppi di pressione e dai media). I trucchi da imbonitori, lasciamoli al mondo in quanto noi cristiani abbiamo conosciuto già la Verità e la Vita che è anche la Via, e non abbiamo necessità di inventare surrogati.
In pace.
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