Caro Mattia, ho letto con molto interesse il tuo articolo “Il duello” in cui avanzi l’ipotesi che dietro le apparenze della crisi di governo e successive elezioni anticipate, ci sia il venir meno della sintonia tra Mattarella e Draghi e la successiva trasformazione in duello, sia pure non all’ultimo sangue.
Vero che le elezioni segnano l’eclissi di Draghi, ma la questione mi pare un po’ più complessa, occorre guardare con occhi disincantati al desiderio di tutti i leader dei partiti di governo di uscire da uno stallo della loro credibilità, seriamente minacciata da quella ancora crescente di Draghi. Sottesa a questa inquietudine stava una certa aspettativa di modifica della legge elettorale in senso proporzionale, non disdegnata dall’establishment della cosiddetta società civile, che temeva l’allontanamento di Draghi dopo l’eventuale vittoria elettorale di uno dei due poli, grazie all’effetto maggioritario del Rosatellum.
In questo clima il primo evento destabilizzante è la scissione del M5S. La scelta di Di Maio, a giudicare dal suo esito, appare sciagurata e incomprensibile. Il risultato è un auto-annientamento, fatta salva una scialuppa di salvataggio per lo stesso e occasionalmente per Tabacci: un paio di seggi sicuri, senza aver fatto un gran danno a M5S. Ma il senso politico della scissione era comunque chiaro: offrire a Draghi una sponda provvisoria per portare a termine la legislatura, con un appoggio numericamente adeguato in Parlamento, anche dopo la prevedibilissima ritirata del M5S di Conte. Meno chiaro è chi abbia promosso e garantito la scissione, ma mi pare difficile che sia solo farina del sacco di Di Maio: difficilmente potrebbe essere stato lo stesso Draghi, più probabilmente Letta (l’indizio è il salvataggio postumo del neo moderato-progressista), però sarebbe strano che Mattarella non ne fosse informato e consenziente.
La stranezza aumenta nella fase successiva: il salvagente della legislatura si trasforma in detonatore della sua esplosione: con assoluta evidenza Draghi non ci sta a proseguire senza Conte, con la coperta corta di Di Maio; perché? Non me lo so spiegare: la stanchezza evocata da Berlusconi, la delusione per la mancata elezione a Presidente, secondo l’ipotesi di Spanò, il tentativo di sopprimere definitivamente le velleità di spesa elettoralistica di tutti i partiti? Fatto sta, che porre la fiducia sulla mozione di Casini, l’ultimo dei mohicani, e non su un documento sottoscritto dai capigruppo della maggioranza, (è ovvio che la fiducia si pone su una mozione sola, quella che rispecchia la posizione del governo, normalmente nel suo complesso e non del solo suo presidente) tira uno sgambetto ai partiti del centrodestra governativo e li spinge inevitabilmente nelle braccia di Meloni e della sua diuturna richiesta di elezioni. Perché?
Meloni esulta, gli alleati le si accodano non proprio di buon grado, perché forse avrebbero preferito vedere se la crescita elettorale di FdI nel tempo si poteva arrestare o invertire, ma tant’è, si lascia un governo sicuro per uno probabile, ma se si tratta di vincere facile non si sta a sottilizzare sullo svarione dell’avversario.
Meno chiara è la ragione per cui Letta e Mattarella si siano infilati in questo cul-de-sac, non essendo politici improvvisati e sprovveduti. Cominciamo dal Presidente della Repubblica che rimanda alle Camere il Presidente del Consiglio che lamenta di avere sì ricevuto una fiducia (non una sfiducia) ma dimezzata dall’assenza di alcuni protagonisti, da Lui ritenuti essenziali (il troncone di Conte). Il significato di questo gesto è duplice, come duplice può essere l’esito (che però in politica deve essere previsto e preparato): “torna indietro, crexxxo, che hai comunque la maggioranza e continua così”, oppure: “fatti certificare la sfiducia che sciolgo le Camere”. Per la verità ci sarebbe stata una terza soluzione: verificare con le consultazioni di rito e magari con un po’ di moral suasion, la possibilità di una maggioranza che continuasse la legislatura, ipotesi che, sottolineo stranamente, Mattarella si è ben guardato di attuare. Perché?
La frittata è stata fatta con il concorso di molte mani, ma poi si prova e si riesce a scaricare la colpa unicamente sul centrodestra, per la plausibile ragione che ne trae il massimo beneficio, operazione ben realizzata dai cosiddetti giornaloni, un pochino dalla RAI, insomma dal complesso finanziario e mediatico cui interessa attingere alla spesa pubblica governata da Draghi. Ma perché Letta e Mattarella non sono riusciti ad impedire la crisi? Forse non hanno voluto e forse non avevano tutti i torti.
Meglio liberarsi dell’imbarazzante connubio col populista Conte, sfidare il centrodestra quando è visibilmente un destra-centro e accusarlo globalmente di parafascismo, filo-Orban e filo-Putin e comunque limitare i danni rispetto a quelli possibili alla scadenza regolare. Ma soprattutto meglio impedire la nascita del polo di centro, eventualmente consolidato dal passaggio alla legge elettorale proporzionale. E per il futuro? Mattarella rimane al Quirinale per tutta la legislatura, a differenza dell’ipotesi di Spanò, nonostante la fantapolitica uscita di Berlusconi e garantisce il bilanciamento dei poteri. Non c’è più posto per Draghi in questo scenario. Tanto meno ne troverebbe in quello della stravittoria meloniana: figuriamoci se modifico la costituzione, sfratto Mattarella (giuridicamente impossibile, tanto che persino Berlusconi parla di dimissioni) e a questo punto regalo a Draghi una “presidenza presidenzialista”.
In conclusione, il tentativo di rintracciare un minimo di razionalità nei comportamenti dei principali attori approda alla scelta di ancorarsi al bipolarismo, che permette a ciascuno di restare egemone del proprio campo. I piccoli che avrebbero tratto beneficio dal passaggio al sistema proporzionale, si accodano, buon viso a cattivo gioco, per salvare la sopravvivenza del leader e di pochi altri. E il Centro? I naufraghi Calenda e Renzi provano a sostenersi a vicenda, cercando legna per la zattera nel gran mare dell’astensione. L’esito rimane incerto, ma, cambiando metafora, possono dire di aver gettato un seme di speranza per l’abbandono di questo bipolarismo feroce, in cui si cerca la vittoria ad ogni costo, giocando a chi la spara più grossa, vuoi con le promesse più mirabolanti, vuoi con la denigrazione dell’avversario. Ma questo seme potrà attecchire solo in due casi: o un grosso risultato della lista di centro, oggi improbabile o lo sfaldamento a breve della coalizione vincitrice che ricrei le condizioni per richiamare… chi? Draghi? E ricominciare daccapo?
Tutti sbagliamo e sbagliando s’impara, perciò l’ultimo messaggio all’elettore, specie all’indeciso e al probabile astenuto, non può che essere: “pensaci tu, provaci, provaci comunque, provaci rischiando, prova tu a cambiare”.
Costante Portatadino
Costante Portatadino: Laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano, ha ricoperto i seguenti ruoli:
1969–1976 Docente nelle scuole medie superiori statali, vincitore di concorso; 1973 Fondatore e consigliere della Metanifera di Gavirate spa; 1990–2003 Amministratore delegato di Metanifera di Gavirate spa; 1993–1996 Componente dell’ Organo regionale di Controllo, sez.3°; 1996–2002 Presidente dell’Organo regionale di Controllo, sez. Brescia; 2002–2003 Consigliere d’amministrazione Autostrada pedemontana lombarda spa; dal 2003 Presidente Ferrovie Nord Milano Autoservizi.
Attività sociocomunitarie:
1975–1979 Consigliere comunale di Varese; 1976–1992 Deputato al Parlamento – Roma; 1983–1992 Presidente del gruppo Interparlamentare d’amicizia Italia-Svizzera; 1992–1994 Presidente dell’Associazione per la promozione degli insediamenti universitari provincia Varese; dal 1992 Consigliere della Fism, Federazione italiana scuole materne, provincia di Varese; dal 1998 Consigliere del Museo civico Floriano Bodini Gemonio; dal 1998 Presidente Associazione Amici Museo Bodini; dal 2003 Presidente Fondazione Europa Civiltà; dal 2007 Consigliere Consiglio di Amministrazione IRCCS Istituto Besta, Milano.
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Francamente, la crisi politica mi pare un semplice diversivo per distogliere l’attenzione degli italiani dalla distruzione controllata di quel poco che era rimasto dell’economia italiana