Papa Giovanni Paolo II perdona Ali Agca
Papa Giovanni Paolo II perdona Ali Agca, suo attentatore

 

 

di Anima Misteriosa

 

Dato che domenica scorsa abbiamo ascoltato il Vangelo sul perdono (Matteo 18,21-35), mi sembra opportuno dedicare una riflessione al soggetto, troppo spesso vittima di equivoci. Basti pensare a quando si vede in TV il giornalista di turno che, al povero disgraziato familiare di una vittima di omicidio, chiede, con eccezionale senso dell’opportunità: “Ma Lei perdona?” Solo il valore del perdono cristiano mi impedisce di suggerire che a un individuo del genere, alla ricerca solo di una risposta sensazionale per potere fare cassa, bisognerebbe tirare dietro il microfono.

Il perdono in realtà non è opera nostra. Viene da Dio. Solo Dio riesce a perdonare e noi possiamo partecipare di questa divina capacità grazie alla preghiera, all’abbandono in Lui e, soprattutto, alla grazia dello Spirito Santo. Vorrei condividere con voi sull’argomento qualcuna delle riflessioni che ho ascoltato durante le omelie dell’ultimo fine-settimana (ho partecipato a più SS. Messe). Uno dei sacerdoti diceva che la misura dell’amore di Dio è amare senza misura: e che noi siamo chiamati a perdonare, proprio per partecipare della vita divina. La dimostrazione pratica l’ho ascoltata durante un’altra omelia, in cui il giovane celebrante si è dato a tutta una serie di spassosi calcoli, indispensabili per chiarire quanto paradossali siano le parole di Gesù.

Ebbene, parecchi tra i banchi si saranno chiesti a quanto equivalgono 10.000 talenti d’oro (l’oro è implicito nella parabola). Riproduco qui i conteggi, che il sacerdote ha simpaticamente condiviso con noi durante l’omelia, con tanto di taccuino. Allora, oggi in Italia un grammo d’oro vale 57 euro (io ho controllato su di un sito specializzato e ho trovato 58,11, quindi il creditore ci avrebbe già guadagnato, ma stiamo ai 57 euro iniziali). Un chilo d’oro, ovviamente, fa 57.000 euro (58.110 per me); ora, quanto valeva un talento d’oro nell’antichità? Il celebrante ha sicuramente seguito la voce della Wikipedia in merito, che registra 26 chili in Grecia, 32 a Roma, 27 in Egitto, 30 a Babilonia, ma circa 59 nella Palestina dell’epoca di Gesù: difatti lui parlava di 59 chili. Il povero debitore della parabola aveva quindi la jella nera di dovere pagare il talento detto “pesante”, quello più costoso di tutti, da 59 chili[1]. Al momento però di presentare il risultato della moltiplicazione finale, il celebrante si è inceppato (aveva dimenticato di trascrivere sul suo taccuino il prodotto finale); lo hanno soccorso dalla prima fila di banchi, verosimilmente dopo aver fatto rapidamente il calcolo con la calcolatrice del cellulare (‘sti cellulari!). Ricorrendo anche io alla mia calcolatrice, ma a casa mia, mi risulta che: 59 kg X 10.000 = 59 tonnellate d’oro, X 57 euro = 33.630.000 di euro. In sostanza, un conteggio degno della Federal Reserve (io rimango fedele al mio dato sulla quotazione di oggi – come se dovessi essere il creditore, quando invece mi troverei verosimilmente dalla parte del debitore: 34.284.900 euro per 58,11 euro al grammo d’oro).

A quel punto, mancava solo il calcolo finale sulla durata del debito. Il sacerdote continuava: immaginiamo di dovere pagare una somma del genere con un normale stipendio di 2.000 euro al mese; eliminiamo tutte le spese, cibo, affitto, bollette, e ci ritroveremmo a dovere corrispondere il tutto (senza tenerci neanche un panino) per 16.815 mensilità, cioè 1.401 anni, più o meno (temo che a questo punto il celebrante si sia sbagliato tra virgole e zeri, perché gli tornava più di un milione di anni). Risultato: la frase del servitore in debito, “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”, è follia pura; neanche un ghiacciaio alpino riuscirebbe a pagare un mutuo del genere prima di fondere! Il sacerdote ne traeva la seguente conclusione: il perdono è uno stile di vita. Ognuno di noi riceve tantissimo da Dio, ma anche dalle persone che ci circondano: educazione, cibo, aiuto, amicizia, amore ecc. Ora, se ognuno di noi assumesse un atteggiamento “fiscale” e cominciasse, diceva il celebrante, a pretendere da qualsiasi persona che aiuta, “gli scontrini”, ne uscirebbe rovinato: lui per primo non riuscirebbe mai a ripagare tutto quello che ha ricevuto e che è enorme. E questo perché l’amore si nutre di gratuità e di abbondanza: innanzitutto quello di Dio.

Però, con questa spiegazione il sacerdote doveva risolvere l’apparente contraddizione con il problema della correzione fraterna, che abbiamo seguito nel Vangelo della domenica ancora precedente (cfr. Matteo 18,15-20). Perdonare significa ignorare il male? Vorrei dilungarmi sull’argomento un attimo, perché è proprio su questo punto che nascono gli equivoci maggiori, specie in epoca di “misericordismo”. E qui continuo la piacevole discussione con Roberto Allieri, che ringrazio per l’attenzione al mio articolo sulle anime del Purgatorio e che ha risposto qui[2].

In effetti, l’altro sacerdote che ho udito, un ottimo sacerdote tra l’altro, ha aggiunto che bisogna non solo perdonare, ma anche “dimenticare”. È necessario però intendersi su che cosa significhi “dimenticare”. Se riportiamo il verbo alla sua radice, dalla parola mens, “mente”, e se “dimenticare” significa non stare a rimuginare in continuazione sulla colpa che l’altro ha compiuto nei nostri confronti, ma accordargli la possibilità di ricominciare, di ripartire con la conversione, allora sì, sono d’accordo, bisogna dimenticare, bisogna riscoprire nell’amore di Dio la forza della generosità vissuta con l’ampiezza del cuore di Dio. La resurrezione è sempre possibile nell’ottica del Signore.

Ma se “dimenticare” significa cancellare del tutto l’accaduto, come se ciò non fosse mai successo, su questo possono esserci dei problemi. Spiego. La confessione cancella veramente il nostro peccato grazie al valore immenso del Sangue di Cristo e della redenzione da lui operata; ne ricevono una prova icastica gli esorcisti, per cui gli spiriti malvagi con cui hanno a che fare sotto esorcismo, si divertono meschinamente a rivelare le colpe dei presenti, ma non riescono più a vedere quelle già perdonate dall’assoluzione; quelle rimangono del tutto invisibili, perché cancellate, se così si può dire, dal Sangue di Gesù. Il perdono di Dio è effettivo e la colpa è stata veramente “lavata via”. Tuttavia, noi non viviamo più nell’Eden e non è che si possa lavar via con un colpo di spugna anche la serie delle conseguenze del peccato. Il peccato, anche il più piccolo, traumatizza e ferisce: il nostro rapporto con Dio, con noi stessi e gli altri. Ognuno di noi è perdonato da Dio, ma le debolezze indotte dal peccato, senza riparazione, restano. Se dimenticare significa cancellare tutto questo e, soprattutto, la necessità ineludibile della riparazione, allora non ci siamo. Non ci siamo perché le ferite devono essere sanate e questo richiede il nostro sforzo riparativo: sennò, troppo facile. La mamma che ha un figlio ragazzino, che ha rotto il vetro con il pallone, potrà certo perdonarlo, se lo vede pentito (il pentimento resta condizione sine qua non, sennò non si assolve e perdona nulla): ma certo, una volta perdonato il pargolo discolo, questo deve darsi da fare sacrificando la paghetta o il gelato domenicale per ripagare il vetro rotto. L’ordine armonioso della creazione ferita dal peccato va ricostruito: sennò, il perdono ci renderebbe delle amebe passive rispetto alla necessità di operare il bene e questo non è affatto l’intento di Dio (e fu proprio questo l’errore di Lutero: il suo sola fide, cioè la salvezza si ottiene per sola fede, senza l’ausilio delle opere, assomiglia molto a un condono; e si è visto dove è finita l’Europa di questo passo).

Ma c’è anche un altro aspetto da sottolineare: ignorare le ferite, fare come se non ci fossero mai state, sarebbe un insulto nei confronti delle vittime innocenti. Un conto è guarirle e rielaborare il trauma; un altro è dimenticare, come se esso non fosse mai esistito. Questo non è possibile. Per vari motivi ho dovuto approfondire la psicologia post-traumatica, quella che si occupa dei traumi, specie di quelli derivanti da maltrattamenti e abusi (non di rado su bambini): ebbene, il trauma rimane iscritto non solo nella mente, che continua a rimestarlo finché l’amigdala non lo rielabora, ma soprattutto nel corpo. Davanti alle prime avvisaglie di pericolo, il corpo ha delle reazioni spontanee irrefrenabili, dovute al sistema nervoso parasimpatico: sudore, palpitazioni, accelerazione del battito cardiaco, fuga, contrazioni muscolari ecc. ecc. Questo ovviamente riguarda il livello fisico, ma quest’ultimo fa tutt’uno con quello psicologico ed anche spirituale nell’essere umano: perciò, i traumi, le ferite, specie quelle più pesanti, rimangono iscritte in tutta la vita e l’esistenza del traumatizzato. Diventano vita stessa di questa persona e la loro memoria (anche in caso di amnesia da rimozione; ma il cervello e il corpo, sotto le apparenze, rimangono consapevoli di tutto l’accaduto), la loro memoria, dicevo, non se ne va mai, se non, forse, con la morte (e anche lì ho dei dubbi).

Il Cristo apparve agli apostoli dopo la Crocifissione e Resurrezione con le Sue ferite. Sarebbe potuto apparire loro senza? Teoricamente sì, ma in pratica, la Crocifissione fa parte ineludibile della Sua storia di Figlio di Dio e Redentore. E questo vale per ciascuno di noi: noi siamo anche il risultato delle nostre ferite. La Resurrezione le trasforma, ma non le cancella: come avviene a quei vasi di ceramica riparati con la tecnica giapponese del kintsugi, che riconnette insieme i frantumi con filo d’oro o d’argento. Il risultato finale è ancora più splendido del vaso originale, ma i segni delle fratture, evidentemente, rimangono; e guai se non fosse così. Per questo, ritengo che dimenticare il male subito sia impossibile e non sia neanche consigliabile: e qui bisogna operare una distinzione tra perdono e riconciliazione.

Il perdono riguarda innanzitutto la storia personale dell’individuo: io posso perdonare chi mi ha fatto del male anche se sono isolata nel bel mezzo del deserto del Gobi, a enorme distanza da chi mi ha offeso. Si tratta di un dono di Dio e di un cammino che deve agire innanzitutto in me stessa, per sconfiggere in me il male e la tentazione ad esso, per farmi superare la morte che l’odio porta con sé; è un surplus di amore (non a caso, l’etimologia della parola latina è per-dono, come diceva il secondo celebrante: un dono moltiplicato). Per la riconciliazione invece – che spesso la gente scambia con il perdono – serve la buona volontà delle due parti e il pentimento – ineludibile – dell’offensore: il padre della parabola del figliol prodigo è rimasto pieno di amore per il figlio per anni, ma certo non ha potuto recuperare i rapporti con lui se non quando questo è tornato e gli ha chiesto perdono. Io posso, anzi devo, con l’aiuto di Dio, perdonare tutti, ma non è detto che i rapporti con chi mi ha danneggiato cambino: sta a lui pentirsi. Del resto, in situazioni del genere intervengono anche motivi di prudenza: è stato pur sempre il Cristo a pronunciare la frase: Non gettate le vostre perle ai porci (cfr. Mt.7,6). In certi casi, avvicinare e beneficare chi è pieno di astio e malevolenza può essere pericoloso (a parte se lo si fa con la preghiera, che supera ogni ostacolo senza problemi).

Per questi motivi, insisto sul fatto che bisogna perdonare, ma non dimenticare: a mia conoscenza non sta scritto da nessuna parte nel Vangelo che si debba dimenticare il male subito. Non aggiungiamo parole umane alla parola di Dio e pretese nostre alle equilibrate richieste del Signore: perciò, la richiesta di “dimenticare” mi sembra uno di quei rischi cui ci sottopone l’attuale mania di “misericordismo” e francamente irrealistica, dimentica della verità umana. Ma se si dimentica la storia dell’altro, anche le sue offese (nel senso storico del termine), come potranno trasformarsi in fili d’oro di riparazione? Perché, e concludo, dimenticare può essere in contraddizione anche con la necessità imprescindibile di riparare: chi ha fatto il male deve riparare, deve trasformare il male fatto in bene. La riparazione può necessitare certo del nostro aiuto: e allora è indispensabile quell’abbondanza d’amore cui fanno riferimento in forma indiretta quei calcoli di cui sopra, degni della Federal Reserve. Quando infine il male commesso viene riparato, la ferita può diventare un ricamo o una scia di luce verso il cielo.

 

Note:

[1] Cfr. Talento (unità di misura) . In realtà, la fonte è la voce Weights and measures della Jewish Encyclopaedia, https://www.jewishencyclopedia.com/articles/14821-weights-and-measures#217 La voce distingue tra “talento pesante”, questo qui di 59 chili, e quello “leggero”, che valeva la metà. Quasi di sicuro, il protagonista della parabola si vedeva calcolare il suo debito in talenti pesanti e non attici o romani, povero lui.

[2] Cfr. https://www.sabinopaciolla.com/sonda-negli-abissi-del-purgatorio-anime-perse-in-un-destino-giusto-e-misericordioso/

 



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