Michael Dana Gioia, poeta, critico letterario, traduttore letterario e saggista americano
Michael Dana Gioia, poeta, critico letterario, traduttore letterario e saggista americano

 

 

di Nicola Lorenzo Barile

 

Nel discorso di accettazione del Nobel per la letteratura (1987), il poeta russo, poi naturalizzato americano, Iosif Brodskij ebbe a dire provocatoriamente che non bisogna scegliere i capi di stato dopo averli interpellati su questioni politiche, perché tanto dicono tutti le stesse, inutili cose, quanto piuttosto interrogarli intorno agli scrittori e ai libri che hanno cambiato la loro vita. A dire del poeta, infatti, «Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è l’umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi – già noti o ancora da inventare – di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell’esistenza umana».

Ma chi, in occasione di una elezione politica o amministrativa, è disposto a dare seguito al suggerimento di Brodskij, soprattutto in un’epoca, come quella attuale, in cui la letteratura e la poesia sono considerate un lusso, forse anche una distrazione, di certo non più una necessità? È quel che amaramente constata il già poeta laureato della California Dana Gioia (di cui mi sono già occupato su questo blog: qui e qui) nell’introduzione su Christianity and Poetry a una recente antologia di poesia cristiana, The Saint Mary’s Book of Christian Verse, a cura di Edward Short (Gracewing 2022), che ha suscitato dibattiti e prese di posizione in ambito cattolico, ma non solo, tanto che First Things ha sentito la necessità di pubblicare Christianity and Poetry autonomamente, offrendo così il saggio alla riflessione di una cerchia più ampia di lettori (qui). Per il pubblico italiano, i suoi riferimenti alla poesia di lingua inglese possono far risultare ostica la lettura di Christianity and Poetry; ne riporterò, pertanto, solo i passi più importanti in cui Gioia discute dell’importanza della poesia cristiana.

Praticamente, Christianity and Poetry estende la problematica dell’altro famoso saggio di Gioia, Can Poetry Matter? (1991, di cui ho già scritto: https://www.sabinopaciolla.com/my-blessed-california-dana-gioia-e-lo-scisma-fra-bellezza-e-verita-nellamerica-odierna/), dedicato ai poeti della controcultura della Baia di San Francisco, constatando l’irrilevanza, o la sottovalutazione, attuale della poesia cristiana in particolare: la poesia sarà pure un aspetto essenziale della fede e della pratica religiosa, ma anche tra i cristiani ci si chiede: chi ha tempo oggi per essa?

Ciò dimostra quanto la Chiesa contemporanea si sia allontanata dalle sue origini, nella convinzione che, per andare incontro al futuro, occorra fare a meno del passato. Tuttavia, mentre la Chiesa contemporanea provava imbarazzo per le terribili visioni del Dies Irae e non gradiva sentir parlare di giorno del Giudizio e di Apocalisse, perché bisogna invece pensare in termini positivi, la cultura popolare espressa da film, video games, serie tv, graphic novels e canzoni è sempre più ossessionata dalle visioni terribili del futuro. Evidentemente, i vescovi, come gli economisti, non sono tanto bravi a predire il futuro, ironizza Gioia; i poeti medievali, invece, conoscevano meglio gli oscuri meccanismi dell’immaginazione umana: la promessa di un sole perpetuo non può alleviare l’ansia del calar del sole, né si può immaginare la felicità eterna senza contemplare la sua alternativa infernale.

La poesia è un aspetto così essenziale della fede e della pratica religiosa che, secondo Gioia, è impossibile cogliere la gloria del cristianesimo senza apprezzarne la poesia. Si prenda la Sacra Scrittura, per un terzo abbondante scritta in versi: non solo i Salmi, il Cantico dei cantici e le Lamentazioni, ma tutti i libri dei profeti sono scritti per lo più in versi, quando non sono veri e propri poemi, come quelli sapienzali, detti non a caso anche libri poetici; contengono inoltre veri e propri passaggi poetici anche i libri di Mosé e i libri storici, come il celebre lamento di Davide, trionfante in battaglia, che piange la morte dei suoi oppositori Saul e Gionata, una delle più grandi elegie del canone occidentale, secondo Gioia: «Il tuo vanto, Israele, / sulle tue alture giace trafitto! / Perché sono caduti gli eroi?» (2 Sam, 1, 19-27).

Ma la poesia nella Sacra Scrittura si trova anche nel Nuovo Testamento: che cosa sono le Beatitudini, se un poema sul Regno misericordioso di Dio in contrasto con il mondo egoistico degli uomini? Secondo alcuni studiosi, anche la versione originale del Padre nostro in aramaico era in versi. E che dire dell’Apocalisse, un piccolo poema in prosa? Per non parlare del poemetto sull’Incarnazione e la Crocifissione, citato da San Paolo quando presenta Cristo come modello di umiltà ed obbedienza ai Filippesi (Fil 2, 5-11). È tuttavia il Magnificat che, secondo Gioia, segna l’inizio della poesia cristiana. Non è un caso che Maria scelse di condividere con la cugina Elisabetta l’annuncio dell’arcangelo Gabriele, secondo il quale lei sarà la madre del Messia, esprimendosi con le parole di un poema: «L’anima mia magnifica il Signore/e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1, 46-55). Il linguaggio quotidiano della prosa non può manifestare la meraviglia, la gioia e la gratitudine di Maria di fronte all’unicità del miracolo di Dio che diventa uomo; solo la poesia può rivelare il mistero.

Ricapitola dunque Gioia: la poesia è un modo breve, ma espressivo di parlare, che modella il suono e il ritmo delle parole, per imprimerle nella memoria. Maria, Luca e i profeti si sono espressi in versi perché sapevano che le verità più importanti richiedevano il potere più estremo del linguaggio per comunicare il pieno significato delle parole. Non è un vezzo intellettuale, perché è in gioco la comunicazione di emozioni, immagini ed esperienze, ovvero i mezzi attraverso i quali noi veniamo in contatto con questo mondo e immaginiamo l’altro. Suscitando la fede in cose che non si vedono, la poesia evoca una risposta più profonda di quello che possono fare le idee astratte. Gli angeli possono parlare in prosa, ma creature incarnate come l’uomo necessitano della fisicità della poesia.        

Per la maggior parte dei credenti misteri della fede come l’Incarnazione, la Trasfigurazione e la Resurrezione hanno perduto presa e capacità di stupire, sostituiti da una moralità di buon senso e da una doverosa reverenza; nulla di male, ma il cristianesimo, secondo Gioia, non è animato tanto da regole e reverenza, quanto dal soprannaturale: «Credo perché è assurdo», ricorda Gioia citando Tertulliano, a proposito della Resurrezione, che credeva non perché avesse senso, ma per il motivo opposto: perché è impossibile. Le verità del cristianesimo, dall’Incarnazione alla Resurrezione, sono misteri al di là di ogni spiegazione razionale: la Trinità è Dio in tre persone; Cristo è una persona con una natura umana e una divina; una vergine partorisce un figlio. Noi non apprendiamo queste realtà della fede attraverso argomenti razionali ma, piuttosto, le intuiamo attraverso l’immaginazione: la fede viene sempre prima, la ragione solo molto dopo.

Lo stesso Gesù, quando predica, narra storie, recita poesie e racconta proverbi; non è molto preso dalla teologia, che ha lasciato piuttosto alla posterità. Egli infatti si sforzò di far conoscere ai suoi discepoli la bontà di Dio, raccontando appunto storie in cui essi potessero ritrovarsi, sapendo di parlare a creature con un corpo e un’anima, umanità decaduta, guidata da appetiti contraddittori, da emozioni e dall’immaginazione.

Gesù non ha presentato un credo fatto di idee, ma una potente immagine: quella del Regno di Dio, Dio padre che ama i suoi figli. In questo nuovo patto, puntualizza Gioia, Dio non governa con leggi, ma con l’amore: le leggi sono infatti idee rese in prosa, mentre l’amore è un’emozione, caratteristica della poesia. Mentre i teologi ancora dibattono sul significato e la realtà del Regno di Dio predicato da Gesù, il Suo appello si rivolgeva al sentimento e all’esperienza primordiale dell’amore di una famiglia.

Quel che fin qui ho riassunto sono i primi due paragrafi di Christianty and Poetry; i successivi due paragrafi sono una sintesi della letteratura inglese e nord-americana, dal medioevo a oggi, volta a dimostrarne il carattere essenzialmente religioso e, in particolare, cristiano, anche là dove sembra negarlo apertamente, come nel Dottor Faust di Christopher Marlowe (1590 circa) o dove, almeno apparentemente, esso passa sotto silenzio, come nel caso del teatro di William Shakespeare; per gli stimolanti giudizi, rinvio ad essi gli appassionati di letteratura.

Concludo pertanto con il quinto e ultimo paragrafo di Christianty and Poetry, che lamenta la prevalenza delle idee, cui il cristianesimo ricorre oggi prevalentemente per rivolgersi al mondo, certamente potenti, ma spesso espresse in modo banale e incolore, perché mancano di un linguaggio che coinvolga la pienezza dell’uomo. Il cristianesimo ha mantenuto una testa e un cuore (la chiarezza del suo credo e la sua missione verso gli altri), dice Gioia, ma ha perduto i suoi sensi che, pertanto, vanno recuperati, così come va restaurato la naturale relazione della fede con la bellezza che i sensi fruiscono. Sembra quasi che la Chiesa non voler comprendere più che la bellezza è il modo più diretto e potente per comunicare il divino.

È un dato di fatto che la Chiesa non è più patrona delle arti come nel passato, ma tale constatazione rimane a livello di mero dibattito o di nostalgia per epoche storiche che non possono tornare più; troppo lungo sarebbe però spiegarne le ragioni. Perché è importante la poesia? si chiede scocciato il fedele. È importante, spiega allora Gioia, perché essa usa le parole per adorare, predicare e pregare; è importante perché il cristianesimo è basato sulle parole contenute nella Sacra Scrittura e le parole hanno un significato più che umano in una fede che celebra la Parola (Lógos) che si è fatta carne ed ha abitato in mezzo a noi (Gv 1, 14). 

       


 

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