Domenica XXX del Tempo Ordinario (Anno C)
(Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)
di Alberto Strumia
Sembra esserci una duplice possibilità di applicazione del Vangelo di questa domenica: l’una che è strettamente personale, individuale; l’altra che è universale, culturale e sociale.
L’applicazione personale è quella alla quale siamo stati abituati tradizionalmente. Questa vede Gesù che intende correggere il “moralismo” di chi identifica il cristianesimo con dei soli “adempimenti”, magari anche gravosi. Adempimenti dei quali finisce per compiacersi, amandoli più di Dio stesso. Il Signore avverte: attento a non sentirti tu il centro del cosmo e della storia, per la tua bravura, fino al punto da metterti alla pari se non al di sopra di Dio, fino al punto di vantarti davanti a Lui (Io sono in regola perché «Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo»).
Il rovescio della stessa medaglia, altrettanto fasullo e non cristiano, consiste nel ritenere di avere imparato la lezione del Vangelo, finendo per recitare ipocritamente la parte del pubblicano, facendo il fariseo a rovescio. È la falsa umiltà del “superdevoto” che si sente a posto perché “fa l’umile” e si sente bravo per questo. Entrambe le posizioni non sono sincere, a differenza del pubblicano della parabola che sa davvero di avere bisogno della Salvezza che viene da Dio più che da se stesso.
Ma perché c’è bisogno della Salvezza che viene da Dio e non basta ciò che viene da noi stessi?
La risposta la troviamo nell’applicazione universale, culturale e sociale del Vangelo di oggi.
L’applicazione universale culturale e sociale. Il “fariseo” è l’umanità dei nostri giorni, che ragiona e vive come se Dio non esistesse, se di Salvezza non ci fosse bisogno, perché è così “brava” da salvarsi da sola, dandosi le regole da se stessa, regole secondo le quali tutti devono pensare (“pensiero unico”) e agire (“comportamento omologato”), adeguarsi per avere diritto di esistere e di parlare pubblicamente (pauperismo, ambientalismo, animalismo, culto della natura rovinata dall’uomo, culto del diverso, dello straniero, ecc.). Un’umanità farisea che è divenuta così sfrontata da vantarsi anche davanti a Dio, impossessandosi dell’insegnamento che si dà nelle chiese, «salendo al Tempio a pregare».
Il farisaismo del nostro tempo ha rovesciato il “giusto rapporto” con Dio Creatore, così che l’uomo si è messo a recitare la parte di un dio che si esibisce con la sua bravura («Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo»). Sa benissimo che è una recita, ma alla fine gli piacere convincersi che sia tutto vero e ci vuole credere.
Il povero pubblicano, che è relegato nell’angolo estremo del Tempio, quando non è cacciato fuori, è il rappresentante di chi non riesce a stare al gioco della recita del fariseo. Sa benissimo che il “peccato originale” è proprio la rottura del giusto modo di rapportarsi dell’uomo con Dio Creatore. Sa bene che l’uomo non può ricostruirla da solo questa giustizia e va a domandare la Salvezza dal male del mondo e suo, a Cristo, unico Salvatore.
Ma è lui quello che «tornò a casa sua giustificato», dove con i suoi familiari e pochi amici potè mantenere la vera fede, la corretta capacità di giudizio sugli avvenimenti, uno stile di vita cristiano e quindi pienamente umano. È l’epoca delle piccole comunità nelle quali ci si aiuta, ci si istruisce, ci si difende dal maligno, ci si alimenta spiritualmente con l’Eucaristia.
– La prima lettura ci conferma che «Il Signore è giudice», in quanto il giusto rapporto con Lui, la giustizia con Lui è il punto di forza della vita. Oggi noi ci troviamo nella condizione della «vedova, quando si sfoga nel lamento», perché siamo messi a dura prova dal “fariseo” dominante. Come dice il salmo responsoriale sia come «chi ha il cuore spezzato», di fronte a ciò che vediamo e sentiamo ovunque (ormai anche nelle chiese).
La retorica pauperistica, il più delle volte i poveri li strumentalizza per speculare e trarre profitti vergognosi, o ne fa degli idoli sostitutivi di Dio, scegliendone alcune categorie e ignorandone sistematicamente altre non meno bisognose. Ormai i poveri siamo noi, ai quali viene rubato anche l’insegnamento di Cristo, sostituito con quello del mondo.
Ma questa desolazione, sappiamo, è transitoria e si tratta solo di aspettare con la pazienza della storia, con una preghiera continua che «non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (Prima lettura).
– Nella seconda lettura san Paolo tira con fede serena le somme della propria vita, spesa interamente per Cristo e per la Chiesa: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’Annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero». Nel nostro piccolo desideriamo dire le stesse parole, fino alla fine.
Confidiamo nella Vergine Maria, alla quale questo mese di ottobre è particolarmente dedicato, che maternamente ci accompagna rendendo sicuro anche il nostro cammino fino a giungere gioiosamente insieme alla visione di Cristo glorioso («Iter para tutum ut videntes Iesum semper collaetemur», Inno Ave maris stella).
Bologna, 23 ottobre 2022
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
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