Molto bella questa intervista a Silvio Cattarina, sociologo e psicologo. Cattarina dice che, “sebbene fossi povero, sin da piccolo avevo la sicurezza che la vita era piena di una presenza buona”. Poi l’incontro con don Giussani e la scoperta che “la promessa che ci viene fatta alla nascita ha una carne, è viva”.
Domanda: (…) Se si può lontanamente capire il suicidio per disperazione profonda, è difficile comprendere come si possa arrivare a togliersi la vita tramite un gioco (la “balena blu”, ndr) e in modo così freddamente programmato. Di che cosa è segno, secondo lei, un fenomeno come questo?
Risposta: Penso che se nella vita manca una proposta bella, buona e seria tutto si riduce ad un gioco. E siccome l’uomo non può sopprimere il suo bisogno infinito, più il gioco è estremo, terribile e scandaloso meglio è. Quello che colpisce di questo “gioco” sono le foto delle prove messe in rete. E’ significativo, perché la vita deve sempre essere al cospetto di qualcosa di grande. L’uomo sente che la vita deve essere per qualcuno, deve essere voluta e guardata, data da un altro reale. Nelle epoche passate una cosa bella e grande doveva essere vista da Dio. Dio ti vedeva sempre, perciò ogni particolare era curato anche nel nascondimento. Se Dio, un Dio vero, viene eliminato quel bisogno resta. Allora si cerca approvazione altrove, si fanno diventare i social network i nostri dei, dove più gente vede te e ciò che fai più ti pensi importante. In questa povera epoca moderna vogliamo mettere tutto in piazza: se la gente non mi vede allora non esisto.
D: Ci deve essere qualcosa di diabolico in un gioco del genere, ma probabilmente anche in chi lo pratica c’è qualcosa di malato.
R: Sono vere entrambe le cose. C’è qualcosa di diabolico in questo gioco. Ma la cosa più diabolica è una grande assenza e il pensare che questa sia normale e reale, quindi irrimediabile. Ciò produce rassegnazione e disperazione. Gli adulti non dicono più ai giovani la verità: che c’è una presenza che fa ogni cosa e che fa anche loro. Ma l’assenza troppo prolungata porta alla patologia per cui si esplode come a dire: “Guardami! Esisto!”. (…)
D: Vediamo sempre più giovani sviluppare delle dipendenze e schiavitù. Non solo dalla droga ma anche dalla rete, dalla pornografia (fenomeno dilagante anche fra i bambini e che porta a concepire i rapporti con violenza). Quanto queste dipendenze sono legate alla fragilità educativa o familiare crescente e quanto dal bombardamento mediatico?
R: Comincio rispondendo alla prima parte della domanda. Questi fenomeni e mode portano a concepire i rapporti come strumenti e quindi alla violenza. Ma l’accento non è da porsi tanto sui social, la droga o la pornografia. Il punto, infatti, è la violenza presente nel cuore dei ragazzi, anche degli adulti a cui queste mode danno sfogo alimentandola. Perché tutti nasciamo in forza di una grande promessa e se questa viene tradita, o se non viene insegnata la strada per arrivarci, inevitabilmente si diventa violenti. Il tradimento sono nel nichilismo, borghesismo, nelle separazioni che sembrano dire che è impossibile vivere per qualcosa di grande che attendo. Allora i giovani si arrabbiano e hanno ragione. Farei così anche io. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda rispondo che tutto è amplificato dal fatto che il bombardamento mediatico si innesta su un fragilità educativa di adulti che non sanno più dire che si viene al mondo per un grande scopo, che nella realtà c’è una grande presenza, c’è la provvidenza, un grande aiuto, sol che tu lo chieda, sol che tu la cerchi. I grandi non riconoscono più questa evidenza e quindi i giovani si sentono persi, senza direzione. L’influenza mediatica fa leva su questo aggravando la situazione e i danni.
D: Tanti temono di mettere al mondo figli che devono poi vedersela con scuole dai contenuti sempre più deboli (anche cattoliche). (…) Come se ne esce?
R: (…) E’ vero hanno famiglie problematiche, passati di dolore, ma ciò che più fa soffrire [i giovani] è una mancanza di profondità della vita. Di senso, bisogna riconquistarli con cose più grandi di quelle che offre loro il mondo.
D: Sì ma viviamo in una società così pervasa dalla menzogna che diventa difficile educare. (…)
R: Sì è vero il togliere serve, ma non in senso punitivo. E’ un togliere per dare. Togliamo gli idoli che ingannano per offrire una presenza che mi dice: “Tu vali, con te farò cose grandi”. Educando bisogna porre limiti e bisogna essere anche severi e precisi, proprio per togliere via ciò che impedisce di guardare meglio a questa cosa più grande (…).
D: Spesso temiamo di offrire un senso che richieda degli argini per non “ledere la libertà” del giovane. Così si finisce per parlare di una misericordia generica, priva di sacrificio. Cosa significa amare la libertà di un giovane? Solo aspettarlo o sfidarlo in qualche modo? Insomma che rapporto c’è fra libertà e verità?
R: Basta essere leali per capire che la verità viene prima di tutto, bisogna dirla, invocarla, gridarla. La verità è la cosa più importante, senza dire la verità non si va da nessuna parte. L’educatore deve pensare prima a sé, al suo bisogno di verità, giustizia, bellezza. Io parlo ai giovani del mio bisogno di vita, lo lascio esplodere e annuncio loro la verità. La libertà dell’uomo non è la scelta fra un sì ed un no. La libertà è solo nel “sì” ad una proposta. Perché se dici “no” al bene e fai il male non ti senti libero: siamo creature poverette che per essere libere devono dire sì ad una grande e vera proposta. La verità è un’imponenza e puoi essere felice solo aderendovi, non bisogna stancarsi di viverla e proporla senza sconti ai giovani. Perché come dice il gioco folle di cui abbiamo parlato, siamo noi e non loro a temere la radicalità.
Fonte: LNBQ
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