Quarta-conferenza-mondiale-sulla-donna-Pechino-1995
Quarta conferenza mondiale sulla donna-Pechino 1995

 

di Giorgia Brambilla e Pierluigi Pavone

 

 

(PRIMA PARTE)

 

A distanza di qualche mese, nel 1995, Giovanni Paolo II scriveva la Lettera alle donne (leggi qui) e a Pechino veniva organizzata la Quarta Conferenza mondiale dell’ONU sulla Donna. Due visioni religiose, antropologiche e morali profondamente diverse, tanto che la Santa Sede aderirà poi con molte riserve (per il tema dell’aborto, dell’ideologia gender, della pianificazione familiare) ai documenti finali dell’ONU.

Da una parte la Chiesa cattolica, spesso accusata di maschilismo, per quanto proclami una Donna come Madre di Dio e Regina dell’universo e abbia donne (insignificanti o analfabete agli occhi del mondo) come sante e testimoni oculari della Resurrezione, patrone e dottori della Chiesa. Il Papa, non per nulla a caso, nella sua Lettera, indicava proprio Maria come “la massima espressione del genio femminile”. Dall’altra, nei programmi ONU si sdoganava, di contro, l’ideologia gender e, paradossalmente, si accusava di discriminazione contro le donne le pratiche di aborto selettivo, legittimate da alcuni paesi, ma si rivendicava l’uccisione del feto in generale come diritto di scelta della donna. Il Papa ringraziava proprio la donna per il suo essere madre, sposa, figlia e sorella, lavoratrice, consacrata; nei documenti ONU mancava ogni riferimento alla maternità e alla paternità, alla sponsalità e al matrimonio, rivendicando implicitamente l’assioma di Rousseau della famiglia come luogo di corruzione e oppressione. Il Papa denunciava il “debito incalcolabile” che l’umanità ha nei confronti della donna; denunciava la valorizzazione usuale della donna solo per l’aspetto fisico e non per la competenza, l’intelligenza, la professionalità, la ricchezza della sensibilità; denunciava gli “enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù”. Giovanni Paolo II indicava, così, come “opera di giustizia e necessità” l’ottenimento della effettiva uguaglianza dei diritti della persona, senza omettere i casi concreti del salario o della carriera. I documenti ONU, formalmente incentrati sui criteri empowerment e mainstreaming, puntavano su alfabetizzazione e educazione; garanzia nell’accesso al lavoro, alla terra, al capitale e alla tecnologia. Di fatto subivano fortemente la pressione delle lobby pro-aborto e pro-gender. Tanto che mai avrebbero (e hanno) riconosciuto quanto invece dichiarava il Papa, proprio a conclusione della sua Lettera: “femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del maschile e del femminile che l’umano si realizza appieno”.

Pechino, negli anni Novanta era “la città che visse due volte”: 1989-1995. Tra il maggio e il giugno del 1989, qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino (che avrebbe anticipato la fine dell’URSS nel 1991, con la Bandiera Rossa – e l’orrore che rappresentava – ammainata sul Cremlino proprio nel giorno di Natale), il primo ministro cinese Li Peng, dopo l’epurazione del segretario di partito Zhao Ziyang che aveva preferito una via morbida e di persuasione, autorizzava i carrarmati a “liberare” Piazza Tienanmen. Lì si erano riuniti decine di migliaia di studenti, desiderosi di riforme politiche. Era l’inizio di maggio del 1989. Si trattava della ricorrenza della fondazione del partito comunista cinese, nel 1919. Questa volta però, gli studenti attendevano la visita diplomatica di Gorbacëv, prevista per metà del mese. La visita ci fu, durò pochi giorni. Poi il massacro di migliaia di dimostranti. L’onta di piazza Tienanmen fu notevole. Ospitare la Conferenza sulla donna era utile all’immagine, nel decennio che più stava coinvolgendo tutti, nel sogno messianico di pace e fratellanza che avrebbe coinvolto tutto il mondo, dopo la Guerra Fredda. E che sarebbe crollato con le due torri, nel 2001. Così Hillary Clinton, Benazir Bhutto, donna premier – e premier nel Pakistan musulmano –, o Beverly Palesa Ditsie, sudafricana anti-apartheid e attivista LGBT, furono tra le protagoniste di una rivendicazione globale a favore delle donne. A iniziare dalla parità salariale, partecipazione politica, istruzione. Decine di migliaia tra delegati ufficiali, rappresentanti di ong, operatori dei media, giornalisti. Tra Pechino e Huairou, (dove si svolgeva il Forum mondiale delle ONG). Una mole non indifferente di pagine tra Piattaforma di Azione e Dichiarazione (leggi qui). Sorellanza e condivisione le parole d’ordine, come riporta il pezzo di Linda Laura Sabbatini (la Repubblica venerdì 4 settembre 2020).

In realtà si trattava del femminismo di terza generazione o anche post-femminismo, sviluppatosi nelle università americane a partire dagli anni ’90. Un femminismo che aveva superato se stesso e le sue psicanalitiche contraddizioni. Senza risolverle, anzi aggravandole. Secondo Freud, infatti, la donna è erede di un inconscio desiderio verso il maschio e il pene del maschio. Mentre il bambino interiorizzerebbe la paura di essere evirato, la bambina interiorizzerebbe il desiderio di ciò che non ha. Il desiderio di ciò che mai avrà, che sempre le mancherà. Avere il pene: avere/essere ciò che non ha/è. È probabile che la psicanalisi freudiana interpreti alla luce di ciò quel paradossale processo sociologico che ha determinato – nel femminismo – una mascolinizzazione della donna. La parità giuridica e la tutela della donna, specialmente contro la violenza – rivendicazioni evidentemente e assolutamente legittime e giustissime – cedevano, però, ad un voler essere come il maschio: a identificarsi proprio con colui che era accusato di essere il carnefice, a svolgere il suo ruolo sociale, a gareggiare nei suoi sport, a indossare i suoi capi di abbigliamento. Il post-femminismo degli anni Novanta superava questa fase, negando entrambi: sia l’uomo sia la donna. Se il femminismo degli anni Settanta rivendicava l’uguaglianza tra maschio e femmina, almeno formalmente il rispetto e la libertà della donna in quanto donna, il nuovo femminismo di fine secolo teorizza che l’essere umano non è né uno né due, ma è molteplice, frammentato in se stesso, no-made, transitante. Non c’è perciò la donna, né gli uomini come unità riconoscibile. Non esiste neppure qualcosa come un soggetto, unitario e coerente, dotato di ragione e coscienza; ciò che troviamo è invece il succedersi di un flusso di opzioni identitarie, provvisorie e slegate. È l’era del post-gender, del transgender e del queer, del post-umano e del cyborg, fino alla «disumanizzazione volontaria dell’uomo» (L. Kass).

Le basi naturali della maternità, paternità, famigliarità e parentela diventano decidibili. Il principio di autonomia si associa a quello di uguaglianza, nel configurare una neutralità dello Stato che rende possibile la considerazione della famiglia come sovrastruttura convenzionale, da cui è importante emanciparsi. Di questa visione si fanno portavoce le organizzazioni delle Nazioni Unite o dell’Unione Europea, attraverso strategie di carattere culturale o economico. Si pensi al fatto che il documento finale della Conferenza di Pechino dedicata alla donna, di ben duecento pagine, riesce ad evitare l’uso della parola “madre”: una strumentalizzazione del linguaggio che è manipolazione della cultura. 

(continua)

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