Il Dottore della Chiesa africano non si limita alla descrizione del senso letterale della Scrittura, ma cerca e trova il senso misterico del Figlio di Dio, della Sapienza, la cui tunica inconsutile è figura della quadruplice direzione della salvezza. Stipes e patibulum della Croce uniscono, in Cristo, naturale e soprannaturale, giustizia e grazia.

 

Gesù

 

 

di Silvio Brachetta

 

Sant’Agostino d’Ippona, Padre e Dottore premedievale della Chiesa, ripercorre ogni fase della passione, morte e risurrezione di nostro Signore nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, redatto intorno all’anno 416. Si tratta di una raccolta di omelie, frutto della sua predicazione al popolo, quando era già stato consacrato vescovo dalle mani di Megalio, primate di Numidia.

Sant’Agostino predilige il quarto Vangelo poiché considera san Giovanni apostolo il discepolo più vicino a Gesù Cristo e colui che seppe coglierne l’insegnamento con maggiore profondità. Al Dottore d’Ippona interessa, soprattutto, restituire al popolo l’immagine autentica del Salvatore, perché è convinto che la maggior parte delle eresie siano fondate su un’errata elaborazione della cristologia. L’esegesi agostiniana delle Scritture e del quarto Vangelo, in particolare, è forse un modello di cosa sia la teologia e di come presentare le questioni, per via della semplicità dell’espressione e dell’acume con cui vengono sondati i misteri.

 

L’inizio dei dolori

 

La passione di Gesù comincia a farsi amara al di là del torrente Cedron, nel giardino del Getsemani. Per impedirne l’arresto, Simon Pietro sguaina la spada e colpisce all’orecchio Malco, il servo del sommo sacerdote. Quel lobo d’orecchio tagliato «fa parte dell’uomo vecchio» – dice Agostino – poi suturato dal Maestro, come simbolo di ciò che si ascolta «in novità di spirito e non in vetustà di lettera». Bisogna riporre la spada, perché il Figlio di Dio vuole bere il calice della passione, del quale è anche l’autore. Contro una certa esegesi che tende a giustificare Giuda Iscariota e il suo tradimento, Agostino risponde che il traditore «non è da lodare per l’utilità del suo tradimento, ma da condannare per la sua volontà criminale». S’intende affermare che la provvidenza di Dio si serve anche del male, ma questo non giustifica il malvagio, sempre libero di scegliere tra bene e male.

Non solo Giuda tradisce Gesù, ma pure Simon Pietro lo rinnega apertamente davanti a una serva. Il peccato di Pietro non è meno grave di quello di Giuda: «Se Pietro fosse uscito da questa vita dopo aver rinnegato Cristo, certamente si sarebbe perduto». E il tradimento non consiste solo nel rinnegare il Cristo, ma anche nel nascondersi, come quando qualcuno, pur «essendo cristiano, dice di non esserlo». Pietro, infatti negò di essere tra i discepoli del Maestro.

Dinnanzi a Ponzio Pilato, si consuma uno strano dialogo tra questo funzionario della Giudea procuratoria e il Cristo, che a volte tace e a volte parla. Quando egli «non risponde, tace come pecora; quando risponde, insegna come pastore». Gesù ammette la propria regalità, ma specifica che il suo regno «non è di quaggiù», di questo mondo, nel senso che è «peregrinante nel mondo» – osserva Agostino. O meglio: il regno di Dio «è quaggiù fino alla fine dei secoli, portando mescolata nel suo grembo la zizzania», ma non sarà più di questo mondo «tutto ciò che in Cristo è stato rigenerato». È rigenerato solo colui che «ascolta la sua voce», ovvero chi «obbedisce» a questa sua voce. Non i soli uditori sono rigenerati, ma coloro che odono la Parola e la mettono in pratica.

 

Le quattro direzioni della salvezza

 

In tutta questa vicenda sono riconoscibili colpevoli e innocenti. Secondo il Dottore, Cristo fu messo a morte dai Giudei, con l’aggravante di essersi serviti dei pagani di Roma. E, dunque, «i pagani, in questo delitto, sono meno colpevoli dei Giudei». Questo però non significa che Pilato fosse innocente. Chi ha consegnato il Cristo «lo ha fatto per odio», mentre Pilato agì «per paura». Pilato, tuttavia, «non è innocente per il solo fatto che i Giudei sono più colpevoli di lui». Colpevoli entrambi, seppure sia «più grave uccidere per odio che per paura». Quanto alla motivazione della condanna, che il procuratore fece affiggere sulla croce – “Gesù Nazareno, Re dei Giudei” – va inteso nel senso di «re di tutte le genti», a motivo che il nuovo Israele è composto da tutti i circoncisi nel cuore (i cristiani), «secondo lo spirito e non secondo la lettera».

Solo l’evangelista Giovanni fa trapelare il numero dei soldati che crocifissero Gesù: come l’ebbero crocifisso, «presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato, e la tunica» (Gv 19, 23). Da qua si evince che la crocifissione fu ad opera di quattro soldati romani, che poi tirarono la sorte sulle parti del vestito e sulla tunica. Agostino svela il senso arcano di tutto l’episodio. La veste divisa in quattro raffigura la Chiesa di Cristo «distribuita in quattro parti, cioè diffusa in tutto il mondo». Il mondo, infatti, si stende su quattro parti: «oriente, occidente, aquilone e mezzogiorno». La tunica no. È la tunica inconsutilis – inconsutile, senza cuciture, la quale non si può dividere. Essa «significa l’unità di tutte le parti, saldate insieme dal vincolo della carità». Da questa unità la Chiesa prende il nome di «cattolica», che in greco significa «universale».

Lo stesso orientamento lo si riscontra nella croce, sviluppata in «larghezza, lunghezza, altezza e profondità» (Ef 3, 18). La croce è «larga» – dice Agostino – in senso spaziale, per via del patibulum orizzontale, sul quale vennero inchiodate le mani del Cristo. Esso è la figura delle «opere buone, compiute nella larghezza della carità». Lo stipes verticale, che ne sostenne i piedi inchiodati, è figura della «perseveranza attraverso la lunghezza del tempo, sino alla fine». Si tratta della santità paziente. Lo stipes, inoltre, ha una sommità e una parte piantata nella terra. La sommità è «alta» e «significa il fine soprannaturale al quale sono ordinate tutte le opere». E questo fine, altissimo, è la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La parte inferiore, conficcata in terra, «significa che tutte le nostre buone azioni e tutti i beni scaturiscono dalla profondità della grazia di Dio», occultata alla vista e incomprensibile al giudizio umano.

 

L’opera della Ss. Trinità

 

Il legno della croce è, quindi, una «cattedra» sulla quale è assiso il Maestro «che insegna». Gesù Cristo ha la capacità di manifestare la massima impotenza e, contemporaneamente, la potenza più grande. L’«umanità visibile» del Figlio di Dio «accettava le sofferenze della passione, che la divinità nascosta disponeva in tutti i particolari». Nell’incapacità materiale di gestire alcunché, Egli in realtà gestisce ogni istante di quanto si va consumando. Completamente libero di donare la sua vita, in sacrificio per i peccatori, Gesù se la riprende nella risurrezione, secondo i modi e i tempi stabiliti dalla sua divina provvidenza. E, tuttavia, l’opera della salvezza non è solo opera del Cristo, ma di tutta la Ss. Trinità, per via dell’unione sostanziale delle Persone. Per questo motivo il Cristo dispone della storia, ma anche obbedisce al Padre. E quando entra nel grembo della Vergine, così come a porte chiuse nel luogo in cui sono riuniti gli apostoli, fa quello che fa lo Spirito Santo, che «non è soltanto del Padre, ma anche suo».

Maria Maddalena e gli apostoli non comprendono ancora tutto questo, perché hanno di Dio un’idea tutta umana. Il Gesù risorto allora dice alla Maddalena «non mi toccare»: cioè, non credere in me secondo l’idea che ti sei fatta. Si fa invece toccare da Tommaso, che giunge alla fede ed esclama: «mio Signore e mio Dio»!

 

La grandezza dei santi

 

Se Gesù, prima della morte in croce, tratta spesso della Chiesa militante, dopo la risurrezione – sulla riva del lago di Tiberiade – si manifesta con rinnovata solennità e accenna al mistero della Chiesa trionfante. Prima di chiamare a se i primi apostoli, Gesù fa gettare le reti da pesca, che quasi si rompono per la quantità di pesci raccolti. Agostino spiega che si tratta di un’allegoria: è la Chiesa nella storia, composta di pesci buoni e cattivi, che saranno separati alla fine del mondo, per la salvezza e per la dannazione eterna. In tal modo gli apostoli diventano «pescatori di uomini». Dopo la risurrezione, però, tutto è cambiato. Gli apostoli sono ridiventati semplici pescatori e gettano di nuovo la rete. Ne ottengono centocinquantatre grossi pesci, che la rete contiene senza rompersi. E nel numero è nascosto un grande mistero, che il Dottore d’Ippona riesce appena a cogliere.

Il numero dieci appartiene alla legge, poiché dieci sono i comandamenti di Dio. Il sette appartiene alla grazia: sette i giorni della creazione, settimo il giorno della risurrezione, sette i doni dello Spirito Santo. La salvezza è nella legge e nella grazia, nel dieci aggiunto al sette; nel diciassette. E la somma dei numeri dall’uno al diciassette – osserva Agostino – è proprio l’evangelico centocinquantatre, numero metafisico della totalità di coloro che si salvano. Mentre dunque la Chiesa militante «non riesce a tenere testa all’enorme massa» di coloro che vi entrano e la corrompono «con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi», la Chiesa trionfante degli eletti non rompe le reti della propria essenza e prospera in eterno, nella gloria del paradiso. Non solo, ma di lassù la grandezza dei santi sarà tale che «il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti».

 

 

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