Antiche monete orientali

 

 

di Mattia Spanò

 

Ci hanno insegnato che dopo gli accordi di Bretton Woods, vale a dire il disancoramento della moneta dall’oro, un asset tangibile, e l’ancoramento a parametri di crescita essenzialmente contabili, la crescita del Pil mondiale sostenuto dall’emissione di moneta si è impennata. Non c’è dubbio, ma vediamo in che senso. All’uopo, riporto un commento dell’economista Eutimio Tiliacos, scritto nel suo periodico Lettera Anesti nel giugno 2012:

“Mentre nel 1951 [sette anni dopo Bretton Woods e venti prima dello Smithsonian Agreement, ndr] per ogni mille dollari di depositi in cartamoneta e titoli di stato americani il sistema delle banche e degli intermediari era in grado di finanziare quel soggetto (imprese o famiglie), con quattromila $, in un rapporto pertanto di 1 a 4, nel 2006 -poco prima della esplosione della crisi iniziata l’anno seguente- tale rapporto era arrivato a 673. Ciò voleva dire che bastavano mille dollari di depositi per consentire agli intermediari finanziari di concedere prestiti o assumere in proprio rischi (es. sui derivati) per 673.000 $: un ammontare mostruoso, una piramide rovesciata di proporzioni epiche fortemente in bilico e che infatti ha poi schiacciato il sistema”. 

In breve, un colossale schema Ponzi, ovvero una pira di denaro nella sostanza non impiegabile perché frutto di truffe contabili pronta per essere accesa. Una sorta di truffa delle mail nigeriana operata a livello istituzionale. Con tempismo come sempre tardivo ma inesorabile, le scelte peggiori presentano il conto. Anzi, i conti. Pochi ad esempio ricordano le politiche agricole set-aside, letteralmente ‘metti da parte’, varate dalla Comunità Economica Europea nel pleistocenico, economicamente parlando, 1988. La CEE pagava contadini e proprietari terrieri per non produrre nulla. Non coltivavano e in cambio ricevevano denaro.

Le politiche PAC furono presentate come strumento contro un effetto depressivo sui prezzi, ma di fatto si sborsarono miliardoni fruscianti fino al 2008 quando il contributo venne abolito. Per cosa? Tenere occupata la categoria essenziale dei contadini a saggiare le molle del divano di casa.

Una situazione analoga investì il sistema delle quote latte, con l’Italia costretta a pagare 4,4 miliardi di euro per lo sforamento della produzione assegnata, multa che si provò a scaricare interamente sugli allevatori, accipigna direbbe Tonio Cartonio, imbufaliti (per restare in tema ruminanti). L’idea era forse quella di convincere le vacche, bestie miti che non brillano per acume, a produrre meno latte, o l’allevatore a gettarlo. Il che dimostra scientificamente che fra i tecnocrati proliferano intelligenze meno acuminate di quelle dei bovidi.

La lista delle battaglie commerciali che hanno travolto i prodotti italiani è lunga: dall’olio tunisino, acquistato in enormi quantità come sussidio dell’UE per evitare ulteriori destabilizzazioni in seguito alle Primavere Arabe ma danneggiando la produzione locale, alle guerre sui marchi, come il Tocai friulano e il Prosek croato. Denaro, inutile raccontarci storielle, preso dalle tasche di chi produce per fargli concorrenza e danneggiarlo. Non male per gente che si riempie la bocca di “più Europa” e “mercati” attuando un mercantilismo dirigista, ircocervo che nemmeno dovrebbe esistere. Il chilometro zero vale per i sempliciotti che frequentano Slow Food o Eataly. Quelli che sanno come gira, spostano miliardi di tonnellate da un capo all’altro del globo come niente.

Giusto nel 2008, appena finito di pagare il grano che non c’è e aver provato a multare le mucche, il crack Lehman Brothers innescò il domino che travolse colossi come Fanny Mae e Freddie Mac. La matrice ideologica era la teoria del matematico Robert Merton sull’inesistenza del rischio (risk/credit swap) applicata dall’ex governatore FED Alan Greenspan, poi confluita nel modello Black-Scholes-Merton. Brutaliter: Merton sosteneva che il rischio non esiste essendo scaricabile, leggasi vendibile, al primo gonzo che passa. Greenspan se la bevve, o meglio la fece trangugiare a William Jefferson Clinton detto Bill, il 42° POTUS. Avete presente la vampata della carta un istante prima di spegnersi del tutto? Quella.

Pensare che c’è gente che si fa grasse risate al pensiero di Gesù che moltiplica i pani e i pesci – ne avanzarono dodici ceste, non dodici milioni di tonnellate – mentre considera con la massima serietà brillanti scienziati dell’economia che moltiplicano il valore della parola “mela” per millemila. Del resto il Figlio di Dio era in custodia a Giuseppe il falegname, non a Mediobanca.

Come dimenticare il crack Enron nel 2001: il colosso fallì perché il management bon-vivant, con un trucco contabile, iscriveva droga, donne e ogni genere di lusso e stravizio alla voce investimenti. Agli investitori si raccontava che più loro si spaccavano di festini, più l’azienda andava col vento in poppa. Non è difficile immaginare con quale perizia e senso di responsabilità manager devastati dai bagordi abbiano gestito il resto delle attività tipiche. Anche in questi casi il valore fu incenerito, e nel combinato disposto delle tempeste finanziarie ed uragani vecchia scuola, nella prima decade del nuovo millennio città come Detroit o New Orleans furono pressoché ridotte a Ghost-Town.

Ci sono poi gli incidenti come Bernie Madoff, il simpatico ometto autore del più formidabile schema Ponzi della storia lasciato libero di scorrazzare per cinquant’anni, capace di truffare decine di miliardi di dollari senza mai aver prodotto o comprato una tazzina in vita sua. Madoff godeva della fiducia illimitata degli investitori: tra le decine di migliaia di soggetti coinvolti fra controllori come la SEC, banche d’affari e stakeholder di vario tipo nessuno, e dico: nessuno, è mai stato sfiorato dal legittimo, e in qualche caso doveroso, sospetto di controllare cosa facesse col denaro altrui. Se la moneta poggia sul nulla, anche la fiducia può farlo.

Insomma, nessuno sapeva nulla, nessuno si è accorto di nulla. Non molto credibile. Si potrebbe allora pensare che bruciare fantastiliardi di carta straccia non sia un problema per nessuno di costoro, ed anzi sia un modo di uscirne. Perché appunto di carta straccia si tratta. Vale la pena far notare che le emergenze segnalate sono la punta dell’iceberg visto da lontano: se ne parla quando ci sbatti contro. Il fatto è che se brucio denaro, brucio anche il valore di ciò che rappresenta. Un bel blog curato dall’amico Claudio Izzo, fine conoscitore dei trucchi del mestiere, spiega piuttosto chiaramente come questo accada.

Torniamo un secondo alla working-class indebitata sino alle orecchie che acquistava Suv e villetta vista mare perché il rischio è un bene commerciabile. Le garanzie non servono, basta trovare un pollo cui cedere il credito inesigibile. Il quale pollo, ignoto al debitore, si presenta un bel giorno alla porta con un conto astronomico. Insomma: qualche indizio che meni nella direzione di ri-pensare la moneta come espressione di un disvalore ci sarebbe.

La mossa del cavallo con cui Putin ha sparigliato le carte degli stregoni occidentali legando il rublo ad asset energetici e fisici, come oro e grano, ad esempio. Stregoni che ora si massaggiano la pera domandandosi come diavolo sia potuto accadere. Assuefatti a strapagare spuma di wagyu australiano in crosta d’aria di bergamotto sorseggiando bollicine bio (il che ti mantiene in forma smagliante, va detto), parrebbero ignorare che il popolaccio fetido reclama pagnottoni da almeno 14.000 anni.

Sempre in tema di popolaccio, alias working-class. Il 26 gennaio 2018 il Sole 24ore, house-organ di Confindustria, pubblicò un eloquente e per conto mio geniale articolo di Enrico Verga, nella sezione Econopoly, Numeri Idee Progetti per il futuro. Il titolo va dritto al cuore: Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?Ogni progresso della civiltà è nato sulle spalle degli schiavi”. Così comincia il pezzo, citando il film Blade Runner 2049.

L’autore riconosce che la schiavitù è spesso vista in accezione negativa, ma dal momento che in Italia esiste qualche milione di neo-schiavi di fatto, le partite Iva, forse si può valutare la reintroduzione dell’istituto della schiavitù. Il pezzo è velatamente ironico, e tuttavia si può vedere che, come accade nelle più riuscite distopie, la demonetizzazione del lavoro e la creazione di una forza di disoccupazione sia ampiamente in agenda. La bagarre seguita all’articolo di Verga (scherza o dice sul serio?) certifica il carattere petaloso della capacità cognitiva media, che non distingue più l’ironia pungente dalle scorregge nei cinepanettoni.

Il recente reddito di cittadinanza, o quello di emergenza in pandemia, come i precedenti 80 euro in busta paga, i bonus cultura (leggere va bene a patto di non pagare), vacanze, monopattino, cellulare, baby-sitter e psicologo, e la stessa lotta al contante preludono al mitologico reddito universale di base, per il quale anche papa Francesco si è ripetutamente speso, auspicando inoltre una riduzione dell’orario di lavoro. Più che la ciliegina sulla torta, il selfie della torta. La nuova sfida liberal non è la piena occupazione o il lavoro per tutti, quanto il suo opposto: non fare niente, ma pagati. Quali Umpa Lumpa produrranno la cioccolata al posto nostro, è il disarmo mentale da lasciare ai posteri.

Non si parla più di lavoro né di produzione, né di redistribuzione o equità: si parla di semplice retribuzione a fronte dell’inoperosità totale. Infatti non si vede come si possa produrre una scatoletta di tonno o del dentifricio con il contributo di uomini e donne pagati per non produrre. A meno di non ridurli in schiavitù, come ipotizza Verga. Molto più seriamente, il sociologo De Masi ha scritto il libro Lavorare gratis, lavorare tutti, il che porterebbe a redistribuire l’occupazione: l’irruzione dei disoccupati che lavorano gratis indurrebbe gli occupati (già sottopagati) a cedere ore di lavoro. O far scoppiare una guerra civile di miliardi di poveri che come gatti nei vicoli si scannano per quattro ossa di pollo.

Perché studiare, perché sforzarsi di migliorare, perché fare fatica? Come dall’Agenda 2030 del World Economic Forum, “non possiederai nulla e sarai felice”. Sulla prima parte dell’enunciato, non stento a crederci. Sulla seconda, nutro riserve.

Nella prossima parte esaminerò il carattere essenzialmente punitivo che sta assumendo l’economia guidata, e prima pensata, da figurini come Mario Draghi. Una vera e propria economia della pena. Draghi non si fa scrupoli a ventilare il tema dei razionamenti dovuti, dice, alla guerra in corso. Non ci saranno, però siamo pronti a tutto. Quindi ci saranno, dice il saggio. La stessa UE regola i suoi rapporti interni ed esterni tramite il sistema delle sanzioni. Sanzioni che hanno un costo estremamente oneroso per l’Unione Europea, e in particolare per la non certo florida Italia. Sanzioni che somigliano a bastonate distribuite al buio, e non faranno altro che allargare la guerra a dismisura. Del resto, da gente che vive appesa ai propri Ipse Dixit pitagorei, è ingenuo attendersi qualcosa di diverso.

Mi limito, giunto alla fine di questa parte, alla menzione speciale per altri epifenomeni – si fa per dire – come le cripto valute o la transizione ecologica: investire centinaia di miliardi in processi di produzione, anche energetici, sostanzialmente in grado di attivare attraverso politiche economiche pro-cicliche una stagnazione secolare o peggio: un crollo di fondamentali che hanno migliaia di anni. Qualcosa che nella storia non era mai accaduto. E non critico tanto l’idea, quanto l’idea in relazione al tempo. A meno di non assumere il punto di vista di Trofim Lisenko, l’agronomo capo di Stalin – era Scienza anche quella – che impose di seminare il grano in estate per raccoglierlo d’inverno – dicasi, nella tecno-lingua di balsa, vernalizzazione – nel tripudio di qualche milione di contadini finalmente liberati dell’inutile peso della vita grazie alla successiva carestia. Quando sentite Biden parlare di food shortage e Macròn di famine (carestia, appunto) ricordatevi di rivolgere una lauda a Lisenko, il nonno savant di questi signori.

Nonostante ci raccontino il contrario, bisogna almeno prendere in considerazione l’ipotesi che la moneta, almeno quella occidentale (dollaro ed euro) non abbia più alcun valore reale, o addirittura rappresenti un valore negativo. E che questo stato delle cose sia il figlio voluto di politiche dissennate ma lucide, di cui qui ho inteso fornire qualche indizio. Basti considerare, repetita iuvant, quanto ha pagato in termini monetari la decisione della Russia di poggiare il rublo su gas, oro e materie prime.

 


 

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