Ricercare la speranza e perseverare nell’atteggiamento di vicinanza ai malati. È l’esortazione del Papa ricevendo in Vaticano l’Associazione italiana di Oncologia medica. “Quanta amarezza”, dice, di fronte alla scelta della morte: l’eutanasia non è sinonimo di “libertà”.
Riprendo stralci da un articolo su Vaticannews.
Il Papa ha parlato oggi ai membri dell’Associazione italiana di Oncologia medica, che ha ricevuto oggi in 150 in Sala Clementina assieme ad alcuni pazienti.
Francesco ha richiamato una “oncologia della misericordia” perché lo sforzo di personalizzare la cura rivela “un’attenzione non solo alla malattia, ma – osserva – al malato e alle sue caratteristiche, al modo in cui reagisce alle medicine, alle informazioni più dolorose, alla sofferenza”. Un’oncologia di questo tipo, riflette il Pontefice, va “oltre” l’applicazione dei protocolli e rivela un “impiego della tecnologia che si pone a servizio delle persone”.
La tecnologia non è a servizio dell’uomo quando lo riduce a una cosa, quando distingue tra chi merita ancora di essere curato e chi invece no, perché è considerato solo un peso, e a volte – anzi – uno scarto. La pratica dell’eutanasia, divenuta legale già in diversi Stati, solo apparentemente si propone di incentivare la libertà personale; in realtà essa si basa su una visione utilitaristica della persona, la quale diventa inutile o può essere equiparata a un costo, se dal punto di vista medico non ha speranze di miglioramento o non può più evitare il dolore.
Non perdetevi mai d’animo per l’incomprensione che potreste incontrare, o davanti alla proposta insistente di strade più radicali e sbrigative. Se si sceglie la morte, i problemi in un certo senso sono risolti; ma quanta amarezza dietro a questo ragionamento, e quale rifiuto della speranza comporta la scelta di rinunciare a tutto e spezzare ogni legame! A volte, noi siamo in una sorta di vaso di Pandora: tutte le cose si sanno, tutto si spiega, tutto si risolve ma ne è rimasta nascosta una sola: la speranza. E dobbiamo andare a cercare questa. Come tradurre la speranza, anzi, come darla nei casi più limite.
I deboli al primo posto
L’esempio nella dedizione a chi soffre rimane quello di Gesù, “il più grande maestro di umanità”.
La sua figura, la cui contemplazione mai si esaurisce tanto è grande la luce che ne promana, ispiri i malati e li aiuti a trovare la forza di non interrompere i legami di amore, di offrire la sofferenza per i fratelli, di tenere viva l’amicizia con Dio. Ispiri i medici – Lui che in certo modo si è detto vostro collega, come medico mandato dal Padre per guarire l’umanità – a guardare sempre al bene degli altri, a spendersi con generosità, a lottare per un mondo più solidale. Ispiri ognuno a farsi vicino a chi soffre. La vicinanza, quell’atteggiamento tanto importante e tanto necessario. Anche il Signore l’ha attuata, la vicinanza, in mezzo a noi. Ispiri ognuno a farsi vicino a chi soffre, ai piccoli anzitutto, e a mettere i deboli al primo posto, perché crescano una società più umana e relazioni improntate alla gratuità, più che all’opportunità.
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