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Ignazio La Russa Presidente del Senato, 13 ottobre 2022

 

 

di Mattia Spanò

 

L’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato con i voti dell’opposizione ma non quelli di FI è l’immagine del paradosso che mina il governo prossimo venturo.

Qualche considerazione fattuale. L’84% (4,3% nel 2018, 26,4% nel 2022) del consenso di FdI è puro vuoto politico: elettori traditi che sopra ogni cosa non volevano votare partiti responsabili degli ultimi anni di legislatura (Conte-bis e Draghi), e nemmeno astenersi.

Non bastasse, a parte qualche commissione che spetta di diritto all’opposizione FdI non ha mai gestito portafogli, distribuito poltrone, tessuto relazioni col mondo imprenditoriale e associativo di prima fascia. In politica, questi sono limiti esiziali.

Non solo. Meloni, dall’alto di una base di consenso semiliquida, si trova giocoforza a governare con alleati che hanno sostenuto il governo Draghi: magari hanno perso consenso incassando molto meno di FdI, come la Lega, ma quel “meno” è lo zoccolo duro, la base ontologica (superiore a quella di FdI: la vecchia guardia sommersa dei partiti peserà e presserà moltissimo).

L’affannosa ricerca di tecnici disposti ad entrare nel prossimo esecutivo mostra l’inconsistenza e il ruolo vassallo di un sistema politico che prima ha accondisceso all’impiego indiscriminato dei “tecnici”, dei quali sono molto chiacchierate ma mai del tutto esperite l’imparzialità e le competenze, e adesso si trova a dover rimediare al disastro economico, sociale, sanitario, geopolitico.

A monte c’è anche il vizio della fuga di Draghi: a dispetto della “narrazione”, è lui che ha menato le tolle. Non lo ha cacciato nessuno, in compenso ha messo in allarme tutta la truppa dei civil servants di Voghera. Quelli, per capirci, che si tracannano qualsiasi bestialità – come la “resilienza” e il “vaccino è libertà” – ma sanno benissimo quanto sia alcolica.

È certo che Mattarella darà l’incarico esplorativo alla Meloni. L’esito, a prescindere dal risiko delle poltrone, non è affatto scontato. Come mostra il caso la Russa, le coalizioni elettorali sono già pronte a sfaldarsi, se non già morte e sepolte. Le impuntature di Berlusconi su Ronzulli sono specchietti per le allodole. La verità è che nessuno vuole governare un paese tumulato da debiti cartolari e vincoli esterni.

Il che rende ancora più amaro il boccone delle forze antisistema andate allo sbaraglio per interessi particolari: una coalizione al 4-5% avrebbe costituito una forza di deterrenza e negoziazione politica tutt’altro che marginale.

Ma, rimpianti a parte, la verità è che Meloni è forte ma non abbastanza, e i suoi avversari sono deboli ma non abbastanza. Tutto largamente previsto, prevedibile e forse anche preordinato.

Per quanto provi per lui una vivace antipatia umana, l’unico vero animale politico sulla scena è Giuseppi Winston Conte. Il quale con la mossa del reddito di cittadinanza (impegno che non impegna, ma ad un certo punto l’helicopter money diverrà indispensabile per evitare tumulti come quelli francesi per la benzina) ha recuperato il 50% dei voti di cui lo accreditavano i sondaggi (10-11%, è arrivato al 16%), si è disfatto forse definitivamente della folta e soffocante chioma di Grillo e soprattutto esprime una forza che è a-ideologica, e potrebbe aver traghettato i 5S da una prospettiva ingenuamente moralista ad una dimensione cinicamente politica. Con tanti saluti alle scatolette di tonno e all’onestà-tà-ttà.

Se il governo italiano metterà in campo misure straordinarie come una distribuzione monsonica di denaro, avrà avuto politicamente ragione Conte. Se non lo farà, il suo consenso aumenterà in modo vertiginoso. È nell’invidiabile posizione di vincere anche quando perde. Sta a lui non spappolare l’enorme vantaggio competitivo acquisito – come fece Salvini reduce dalla doccia solare del Papeete. Per la cronaca, i 5S hanno lo stesso peso parlamentare della Lega nel 2018, il che consentì a Salvini di fare il mazziere del governo gialloverde.

Sarà interessante osservare il posizionamento dei 5S sia rispetto alla formazione dell’esecutivo – del quale alla mala parata potrebbero persino entrare a far parte – sia nello sviluppo dell’agenda che prenderà piede.

Anche perché sulla guerra Conte ha espresso un pacifismo peloso, ma che potrebbe tornare utile qualora il vento dell’atlantismo senza se e senza ma di Meloni non dovesse più sospingerla.

In altre parole i 5S in un ipotetico governo Meloni, anche in appoggio esterno, potrebbero essere la foglia di fico che copre un’inversione di rotta sul sostegno all’Ucraina dopo le elezioni di mid-term americane. Tanta e tale è la forza morale e sapienziale degli intellò dello Stivale, che forti segnali in tal senso affiorano già come muffe nel gorgonzola.

L’ultima figurina del Cluedo politico è l’imbarazzato Mattarella. Il quale se il mandato a Meloni dovesse fallire o sfociare in esecutivi traballanti – seguendo le orme del governo gialloverde, ad esempio – potrebbe davvero dimettersi, poiché si ritroverebbe a dover emulsionare l’acqua con l’olio nell’ennesimo “governo del presidente”, provando a convincere i tecnici così-così (il Migliore è andato a cercarsi da solo un lavoro all’estero, dove lo apprezzano tanto), ma in un contesto socio-economico drammatico.

A questo punto toccherebbe sempre a Mattarella fare il Draghi e librarsi nell’aere muto: governo autunnale, dimissioni del presidente, elezioni del Migliore al Quirinale, e nuovo governo di campo largo, anzi prateria. Contento il PD, contenta Meloni, contenti quelli che ne hanno ratificato le prodezze per quasi due anni. Con qualche sfigato all’opposizione (forse). Altrimenti, tutti asserragliati dentro Fort Alamo.

Anche in un simile scenario, Draghi servirebbe a poco. Minato nella credibilità sul green pass, che come ammette la stessa Pfizer non è servito a una mazza se non a vessare quindici milioni di italiani, per tacere delle sue figure barbine sulla guerra e l’energia, non gli resterebbe che la carta della repressione violenta, di cui a Trieste e Roma si tennero le prove generali. Almeno la sua competenza nel ramo sgomberi l’ha dimostrata.

Più o meno, quello che scrivevo il 30 agosto scorso: è la patata bollente che passa da Mattarella a Draghi, da Draghi a Mattarella e di nuovo a Draghi.

Una cosa l’hanno capita anche i sassi: nessuno di quelli là dentro è in grado, e soprattutto vuole, governare un paese fallito come l’Italia. Mala tempora currunt, sed peiora parantur.

 


 

 

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