di Massimo Scapin
Sessanta anni or sono, l’11 aprile 1963, Papa Giovanni XXIII († 1963), due mesi prima di morire, firmava la sua ottava e ultima enciclica, «sulla pace fra tutte le genti da fondare nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà»: la Pacem in terris.
La rivolgeva al clero e al popolo, nonché, per la prima volta, «a tutti gli uomini di buona volontà». Si legge nell’esordio dell’enciclica: «La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (n. 1). Dopo un’introduzione, la lettera si sviluppa in cinque parti. La prima parte tratta dei rapporti dell’uomo con l’uomo, chiarendo sia la tavola dei diritti sia quella dei doveri della persona umana, che «scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura» e che sono perciò «universali, inviolabili, inalienabili» (n. 5). La seconda parte affronta il rapporto degli uomini con le singole autorità politiche. La terza del rapporto delle comunità politiche tra di loro, con due importanti passaggi: «si pervenga finalmente al disarmo» (n. 60), «riesce impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (n. 67). La quarta parte ragiona dei rapporti degli esseri umani e delle singole comunità politiche con la comunità mondiale. Infine, una quinta parte contiene alcuni richiami pastorali, dove si ricorda che «la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà» (n. 89).
Con la Pacem in terris inizia un nuovo orientamento? Aprì la porta ad una collaborazione tra cattolici e comunisti? Ha sviluppato un programma tipicamente massonico? Ha fatto sua in modo equivoco l’eresia della libertà religiosa? Aderì acriticamente al mondialismo? Come fece Papa Benedetto XVI in una lettera del 29 settembre 2014 al prof. Marcello Pera, non possiamo disconoscere che «lo iato tra le affermazioni dei Papi del XIX secolo e la nuova visione che inizia con la Pacem in terris è evidente e su esso si è molto dibattuto. Esso sta anche al cuore dell’opposizione di Lefebvre e dei suoi seguaci contro il Concilio» (ne Il Foglio, 8 maggio 2018).
Ma lasciamo ad altri queste discussioni e limitiamoci a profittare di questo anniversario per parlare di musica. Sì, perché sul testo latino dell’enciclica è stata scritta — caso unico nella storia della musica — la monumentale Pacem in terris, Sinfonia corale per soli, coro e orchestra, dal compositore Darius Milhaud († 1974), «un francese di Provenza e di religione israelita», come egli amava definirsi (D. Milhaud, Notes sans musique, Juillard, Paris 1949, p. 11).
Fu Michel de Bry († 1970), segretario dell’Accademia del Disco Francese, che nell’aprile 1963 propose a Milhaud, che di quell’Accademia era presidente dal 1956, l’idea di farne una composizione importante, per eseguirla al concerto inaugurale del nuovo auditorium parigino della Radiodiffusion-Télévision Française. Ad Aspen in Colorado, «sostenuto dai sentimenti di questo grande patriarca che criticava con veemenza la discriminazione, il razzismo, l’ingiustizia, gli attentati alla libertà, le armi atomiche, ed esprimeva con fervore il desiderio di una pace universale, ho composto la Pacem in terris tra il 7 luglio e il 6 agosto 1963» (D. Milhaud, Ma vie hereuse, Paris 1973, p. 279). Di questo lavoro, eseguito per la prima volta il 20 dicembre dello stesso anno nella nuova sala, il compositore ricorda:
«La sua idea mi sembrava folle. Collaborare con un papa! Quali insormontabili difficoltà solleverebbe. Michel de Bry non si fece scoraggiare dai miei argomenti, e mi fece promettere di leggere subito l’Enciclica. Questo testo mi ha colpito profondamente. Ha esposto l’ingiustizia nella nostra società e ha sostenuto tutte le teorie che mi erano care. Ho cominciato a pensare seriamente al progetto di de Bry, ma mi sembrava irrealizzabile, e inoltre ho saputo che era vietato abbreviare un testo papale o liturgico. De Bry, sempre devoto e dinamico, mi suggerì di fare tutti i passi necessari a Roma. Ottenne dal Vaticano tutte le autorizzazioni necessarie: il diritto di scegliere brani dell’Enciclica per farne una sinfonia corale, modificarla ed eseguirla a mio piacimento» (D. Milhaud, ibidem).
In testa alla partitura il compositore ha posto il versetto del profeta Isaia (2, 4): «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Il lavoro è concepito per un contralto, un baritono, un coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni e archi. Ne risultano circa cinquanta minuti di musica, articolata in sette movimenti, estratti dai 91 paragrafi dell’Enciclica: I. Pacem in terris; II. In hominis iuribus; III. Auctoritas enim; IV. Mutua scilicet; V. In huismodi causis; VI. Cuius quidem; VII. Cum gravissimis igitur.
Il titolo del lavoro è subito formulato dal coro al quale segue un tema sereno dell’orchestra. Un momento il baritono, un momento il contralto cantano le parole di Papa Roncalli; il coro cita i testi della Sacra Scrittura, dei Papi Leone XIII († 1903) e Pio XII († 1958) e di sant’Agostino († 430). Tutto si svolge in un ampio movimento lirico senza interludi orchestrali. Verso la conclusione le voci dei solisti e del coro si sovrappongono al corale luterano Liebster Jesu, wir sind hier (Amato Gesù, noi siamo qui), più volte usato da Johann Sebastian Bach († 1750), ma qui armonizzato diversamente da quello del grande autore tedesco. Milhaud ha trovato questo riferimento assolutamente appropriato alle ultime parole di Giovanni XXIII cantate nella Sinfonia Corale, in cui si invoca il Principe della Pace (Cfr. Is 9,6) affinché «in virtù della sua azione, si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace».
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