Domenica XXIV del Tempo Ordinario (Anno C)
(Es 32,7-11.13-14; Sal 50; 1 Tm 1,12-17; Lc 15,1-32)
di Alberto Strumia
La chiave per comprendere seriamente il richiamo delle letture di questa domenica sta tutta nella frase pronunciata da Gesù nel Vangelo: «Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte», dove non si deve tralasciare mai l’ultima di queste parole, che è converte. Mentre oggi si tende a cancellare la prima parola, che è peccatore, per rendere poi inutile la seconda, converte. Oggi, nella morale comune del mondo, per demolire la coscienza personale, si è fatto passare il messaggio che, almeno nella “vita privata”, nessuno è peccatore, perché non ci sono regole morali oggettive di cui tenere conto e da rispettare, ma solo le leggi stabilite dallo Stato. E nella “vita pubblica” e nella comunicazione, è il potere di turno – ormai quello mondiale che condiziona e ricatta anche quelli nazionali – a fissare le “parole d’ordine” che fanno da lasciapassare per avere diritto di attraversare la frontiera tra “privato” e “pubblico”. E il “peccato” viene ridotto alla trasgressione di questo “codice ideologico”. Se qualcosa è permesso dalla legge di uno Stato, se una parola rientra nel “dizionario ammissibile” essa è moralmente lecita. Troppo spesso, e troppo in alto, ormai, anche nella Chiesa si è accettata questa logica, per cui a chi trasgredisce i Comandamenti di Dio, divenendo così peccatore, non si richiede più alcun pentimento, alcuna conversione, per ammetterlo a ricevere l’Eucaristia, senza alcun cambiamento di vita. Mentre chi non si adegua al “dizionario” mondano è guardato con sospetto e punito. Si è finito per mettere a punto una Chiesa così “inclusiva” del mondo, da non avvertire più bisogno di insegnare a vivere cristianamente; anzi da ritenere che sia cristiano proprio questo suo modo di fare, e suo dovere il condannare chi non si adegua («Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me», Gv 16,2-3). Ma allungando così con l’acqua – tra l’altro inquinata – del mondo, il vino di Cana, si compie il miracolo a rovescio, di tramutare il vino in acqua, per lo più anche sporca!
– Nella prima lettura, Mosè, figura anticipatrice di Cristo e della Chiesa, si fa carico di rieducare, “correggendolo”, il popolo, riportandolo dalla deviazione dell’idolatria del vitello d’oro, alla vera fede in Dio Creatore che lo ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto. È Dio stesso che gli affida questo compito («Il Signore disse a Mosè: “Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito”»).
E Mosè lo fa in maniera forte e decisa «Quando si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora si accese l’ira di Mosè: egli scagliò dalle mani le tavole e le spezzò ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che quelli avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti» (Es 32,19), come dice la continuazione del passo dell’Esodo che segue quanto abbiamo letto nella prima lettura.
Quello che Mosè ottiene da Dio, con la sua preghiera, non è il “condono” dal peccato (fingere che esso non sia avvenuto), ma la possibilità di evitare il danno totale delle conseguenze del peccato, che sono il progressivo annientamento del popolo, più che ad opera di Dio, per il suo stesso autodanneggiarsi. Attraverso l’ira di Mosè, Dio corregge il popolo, in vista di un ristabilimento del suo giusto rapporto con il Creatore. Dicendo che «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo», l’autore ispirato vuol far capire che Dio agì in vista della “riparazione” non permettendo la totale “autodistruzione” di ciò che aveva creato, che sarebbe seguita inevitabilmente a causa del comportamento dei membri del popolo.
– Nella seconda lettura san Paolo spiega come questa “riparazione”, prefigurata nell’opera di Mosè e di coloro che furono prefigurazioni del Redentore, nell’Antico Testamento, si è realizzata pienamente e unicamente in Cristo, unico Figlio di Dio e vero uomo, unico Salvatore. Lo spiega partendo dalla sua personale esperienza di conversione: Cristo non l’ha accolto lasciandolo continuare a combattere contro di Lui, come aveva fatto fino a quel momento, ma lo ha convertito totalmente a Sé, correggendo radicalmente il suo pensiero e il suo comportamento («mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento»).
E spiega che la verità va insegnata in modo tale da vincere l’ignoranza e l’accanimento («agivo per ignoranza, lontano dalla fede») e questo si può farlo solo con la “fede” e la “conoscenza” della vera dottrina di Cristo: chi ha il compito di istruire come maestro non può alimentarsi di quella stessa ignoranza dalla quale deve liberare i discepoli. E non può accettare di scendere a compromessi “politici” con il mondo.
– Nel Vangelo, la pecora smarrita e ritrovata si mostra docile nell’essere salvata e ritrovata; non pretende di continuare a fare una vita randagia e pericolosa, a suo piacimento. Questo indica che non si viene riaccolti nella Chiesa senza cambiamento (conversione).
La moneta smarrita e ritrovata, poi, era stata perduta per “incidente” e “distrazione”. Questo insegna agli uomini di Chiesa ad avere a cuore le persone. È un richiamo, per loro, a non distrarsi fino ad essere inghiottiti dai troppi impegni strutturali e organizzativi, che distolgono dall’attenzione alla vita cristiana delle persone.
La parabola del “figlio prodigo”, descrive con più ampiezza, la condizione dell’uomo che, dopo essersi lasciato andare ad una vita senza regole, viene illuminato dalla ragione e dalla grazia («ritornò in sé»), si interroga sulla sua condizione umana che è peggiorata da quando ha lasciato la casa del Padre (la Chiesa), sperperando il tesoro della vita cristiana. La sua vita è divenuta invivibile e lui si interroga e – dopo avere provato tutti i modi “orizzontali” per rimediare ai suoi problemi («andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci») – si rende conto della “causa vera” della sua peggiorata condizione. Questo lo induce a ritornare alla casa di suo Padre. Questa, nel frattempo, è rimasta autentica com’era quando lui se ne è allontanato e non è diventata uguale al mondo che lo ha rovinato! Se chi vuole ritornare non trova più ciò di cui ha finalmente scoperto di avere bisogno, un luogo in cui si vive secondo Cristo, dove mai potrà più andare?
Abbiamo di chi raccomandarci, rinnovando quotidianamente l’affidamento alla protezione della Vergine Maria, oltre che di noi stessi, della Chiesa intera, perché quanti, dopo essersi allontanati cercheranno di ritornarvi, trovino Cristo e non altri che Lui. E quanti, come noi che siamo rimasti, non debbano rimpiangere un capretto per fare festa con gli amici, perché non vi hanno più trovato il vero Padre e il vero Signore, che sono stati ben rinchiusi in una stanza buia e difficile da raggiungere, da padroni alternativi, scriteriati e abusivi.
Bologna, 11 settembre 2022
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
Sostieni il Blog di Sabino Paciolla
Scrivi un commento