Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Jessica Rose e pubblicato sul suo Substack. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione.
È stato pubblicato un nuovo preprint intitolato: “Risk of Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) among Those Up-to-Date and Not-to-Date on COVID-19 Vaccination” (Rischio di malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) tra coloro che sono aggiornati e non aggiornati sulla vaccinazione COVID-19)1 e conclude, sulla base di un’analisi multivariata di 48.344 individui (dipendenti della Cleveland Clinic), che “coloro che non erano “aggiornati” sulla vaccinazione COVID-19 avevano un rischio inferiore di COVID-19 rispetto a quelli “aggiornati””.
Sento già gli avvoltoi del pezzo che girano e cantano: non è sottoposto a peer-review. No, non lo è, ma leggetelo comunque e chiedetevi se questo studio ha un valore. Decidete voi stessi. Forse il mio riassunto può essere d’aiuto.
Che cosa hanno fatto?
Hanno esaminato le differenze tra i “tassi di infezione” (incidenza cumulativa) con COVID-19 nei soggetti che avevano ricevuto le iniezioni bivalenti trattando il prodotto bivalente COVID-19 come una covariata dipendente dal tempo. Ciò significa che si è tenuto conto del fatto che lo stato dell’iniezione può cambiare per ogni individuo in qualsiasi momento (momento dell’iniezione) e che ad ogni iniezione (evento) lo stato attuale dell’individuo viene confrontato con i valori attuali di tutti gli altri individui che erano a rischio di COVID-19 in quel momento.
Sono stati quindi raccolti e confrontati due tassi: il tasso di incidenza per i soggetti “aggiornati” e “non aggiornati”, calcolato dividendo il numero di individui di ciascun gruppo che hanno raggiunto l’esito – COVID-19 (come determinato dal “test”) – per il numero di individui che si sono iniettati o meno.
Dalla Figura 1 del preprint si evince chiaramente che il rischio di contrarre la COVID-19 è minore se non si è aggiornati (in rosso). Con l’avanzare del tempo (dalla fine di gennaio 2023), la disparità tra i due gruppi diventa più evidente. Chi è sorpreso?

Le covariate raccolte erano l’età, il sesso, la posizione lavorativa e la precedente infezione da SARS-CoV-2. Poiché la propensione a sottoporsi al “test” per la COVID-19 può variare tra gli individui, in questo caso è stata definita come il numero di test di amplificazione degli acidi nucleici (NAAT) della COVID-19 effettuati diviso per il numero di anni di impiego presso il Cleveland Clinic Health System (CCHS) durante la pandemia.
Quando hanno stratificato la propensione a sottoporsi al test, per ogni terzile, hanno osservato che l’incidenza della COVID era maggiore nel gruppo “aggiornato” anche quando la propensione a sottoporsi al test era bassa (verde).

Hanno inoltre utilizzato la regressione multivariata dei rischi proporzionali di Cox – che è un modello di sopravvivenza che mette in relazione il tempo che passa, prima che si verifichi un evento, con una o più covariate che possono essere associate a quella quantità di tempo2 – per determinare qualsiasi potenziale associazione di varie variabili con il tempo che porta alla COVID-19 (l’esito).
Secondo il modello, aggiustato per la propensione al test COVID-19, l’età, il sesso e la fase della più recente infezione da SARS-CoV-2, lo stato di “non aggiornato” è stato associato a un rischio minore di COVID-19 (HR, 0,77; 95% C.I., 0,69-0,86; P-value, <0,001), come mostrato nella tabella sfocata sottostante. Le covariate hanno influito minimamente sull’Hazard Ratio (HR) aggiustato, come si vede dal confronto tra le colonne HR non aggiustato e HR aggiustato.
In definitiva, gli autori hanno riscontrato che la precedente “infezione” (e la robusta immunità acquisita grazie a tale infezione) era deterministica per il futuro stato di COVID-19, ovvero: un rischio inferiore di COVID-19.
L’infezione è superiore all’iniezione per quanto riguarda le infezioni ripetute da COVID-19.
Non sorprende quindi che il fatto di non essere “aggiornati” secondo la definizione del CDC fosse associato a un rischio più elevato di infezione precedente da lignaggi BA.4/BA.5 o BQ, e quindi a un rischio inferiore di COVID-19, rispetto all’essere “aggiornati”, mentre i lignaggi XBB erano dominanti.
Infine, gli autori scrivono:
È ormai noto che l’infezione da SARS-CoV-2 fornisce una protezione più solida della vaccinazione.345
Sì, è noto. Era già noto prima. A mio parere, la vaccinazione può solo sperare di essere seconda all’immunità naturale.
- I migliori scenari di vaccinazione possono prevenire l’insorgenza di sintomi gravi, quando il materiale iniettato non è più dannoso che utile per generare risposte immunitarie mirate per le situazioni di sfida.
- I peggiori scenari di vaccinazione possono causare più danni che benefici, come sembra essere dimostrato dalle terapie basate sui geni introdotte nella popolazione umana all’inizio dell’era COVID.
Quando la medicina è più dannosa, cioè associata a una maggiore morbilità, della malattia, allora è ora di smettere di chiamarla medicina.
Note:
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.
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Forse è un caso ma molti articoli scientifici su questo blog provengono da fonti estere. Come mai? E’ una cosa che fa pensare. Sino a che un bel giorno si scopre che la dott.ssa De Mari viene radiata dall’ordine professionale. Il dott. Stramezzi sospeso. La loro colpa? Aver curato i pazienti, naturalmente.
Si scopre poi che il dott. Garavelli lascia un mondo della sanità che non riconosce più. Il suddetto era finito nel mirino dei difensori della verità per antonomasia: quei fenomeni di Open sempre a caccia di presunte “fake news”.
Si scopre infine che una figura a dir poco ambigua come Fauci, che nemmeno gode di una grande reputazione in patria, viene insignito della laurea honoris causa. E così la domanda iniziale trova finalmente risposta. Repubblica delle banane fondata sulla pastorizia, direbbe il buon “Zio Luce”.