Ho pensato di fare cosa utile per i lettori di questo blog preparare una sintesi dell’enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II, un testo fondamentale. Ecco la terza parte. La prima parte la trovate qui. Buona lettura.

     Comelli Lucia

 

Beato Angelico, Discorso della Montagna
Beato Angelico, Discorso della Montagna

 

La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento circa l’agire morale. Nella sua riflessione morale la Chiesa ha sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente della dottrina morale della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II. Essa ha custodito fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da credere, ma anche circa l’agire morale, realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si è avuto nell’ambito delle verità di fede.

Il Concilio Vaticano II ha invitato i teologi:

«nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo» (Gaudium et spes62)

Di qui l’ulteriore invito a vivere ‘in strettissima unione con gli uomini del loro tempo’, sforzandosi ‘di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione’. Lo sforzo di molti studiosi, sostenuti dall’incoraggiamento del Concilio, ha già dato molteplici frutti positivi. Nello stesso tempo, però, nell’ambito delle discussioni teologiche postconciliari, si sono sviluppate alcune interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la «sana dottrina» (2 Tm 4,3). Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell’Episcopato, intendo pertanto […] richiamare quegli elementi dell’insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all’errore o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende:

«la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo» (Nostra aetate,1).

Questi e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale dell’uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad «ammaestrare tutte le nazioni», insegnando loro ad osservare tutto ciò che egli ha comandato (cfr. Mt 28,19-20), la Chiesa ancora oggi,sviluppa costantemente -alla luce del Vangelo – la riflessione morale in un ambito interdisciplinare, così come si rende necessario specialmente per i nuovi problemi.

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Veritatis Splendor – Indice

Introduzione: Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo (numeri 1-5)

Capitolo I – «Maestro, che cosa devo fare di buono…?» (Mt 19,16) – Cristo è la risposta alla domanda di morale (6-27)

Capitolo II – «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo» (Rm 12,2) – La Chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna (28-83)

I. La libertà e la legge (35-53)

II. La coscienza e la verità (54-64)

III. La scelta fondamentale e i componenti concreti (65-70)

IV. L’atto morale (71-83)

Capitolo III – «Perché non venga resa vana la Croce di Cristo» (1 Cor 1,17) – Il bene morale per la vita della Chiesa e del mondo (84-117)

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32) – I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell’uomo […]. Il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente un’acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate: alcune tra esse però si discostano dalla verità sull’uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere rettificate alla luce della fede. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti infatti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, la sorgente stessa dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. […] All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l’imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità e di autenticità, che configura una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.

Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza, cui spetterebbe il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e di agire di conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente da quella degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l’individualismo sfocia nella negazione dell’idea stessa di natura umana. Queste differenti concezioni sono all’origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l’antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.

Parallelamente all’esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Le «scienze umane», hanno giustamente attirato l’attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull’esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti sono acquisizioni importanti che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell’esistenza, come nella pedagogia o nell’amministrazione della giustizia […], ma alcuni studiosi ne hanno fatto discendere una radicale messa in discussione della libertà umana.

«Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». La domanda morale, alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: «L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà».

Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che «cercano ardentemente» la libertà, ma che «spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia», presenta la «vera» libertà, segno altissimo – nell’uomo – dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in mano al suo consiglio” (cfr. Sir 15,14), così che cerchi spontaneamente il suo Creatore, e – aderendovi – giunga liberamente alla piena e beata perfezione». Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l’obbligo morale per ciascun uomo di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta.

Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l’influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora ricordate, propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti che, pur nella loro varietà, concorrono a indebolire la dipendenza della libertà dalla verità che Cristo stesso ha affermato con limpida chiarezza: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

I. La libertà e la legge – Leggiamo nel libro della Genesi: «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando ne mangiassi, certamente moriresti”(Gn 2,16-17).

Con questa immagine, la Rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male appartiene a Dio solo. L’uomo è certamente libero, ma questa libertà non è illimitata, essendo chiamata ad accettare la legge morale che il Signore gli dà. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell’uomo trova la sua vera e piena realizzazione: Dio conosce infatti perfettamente ciò che è bene per l’uomo e, in forza del suo stesso amore, glielo propone nei comandamenti.

La legge di Dio, dunque, non elimina la libertà dell’uomo, al contrario la garantisce e la promuove. Alcuni orientamenti etici odierni pongono invece al centro della loro riflessione un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali dottrine attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male: la libertà umana potrebbe «creare i valori» e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà. Quest’ultima, dunque, rivendicherebbe una sovranità assoluta in ambito morale.

L’istanza moderna di autonomia ha esercitato il suo influsso anche nell’ambito della teologia morale cattolica, provocata ad un profondo ripensamento del ruolo della ragione e della fede nell’individuazione delle norme morali: esso trae origine da alcune istanze positive, come quella di favorire il dialogo con la cultura moderna, mettendo in luce il carattere razionale — quindi universalmente comprensibile e comunicabile — delle norme morali iscritte nella legge di natura.

Dimenticando però la dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità, nel presente stato di natura decaduta, della divina rivelazione per la conoscenza di verità morali anche di ordine naturale, alcuni studiosi hanno teorizzato una completa sovranità della ragione nell’ambito delle norme morali che regolano la vita in questo mondo: esse sarebbero cioè l’espressione di una legge che l’uomo autonomamente dà a se stesso, in forza di un originario e totale mandato in tal senso di Dio all’uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno finito per negare, contro la Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la legge morale naturale abbia Dio come autore e che l’uomo, mediante la sua ragione, partecipi ad una legge eterna che non è lui a stabilire.

Volendo però mantenere la vita morale in un contesto cristiano, alcuni teologi hanno introdotto una netta distinzione, contraria alla dottrina cattolica, tra un ordine etico, che avrebbe origine umana e valore solo mondano, e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza soltanto alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo Si è giunti conseguentemente a negare l’esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto morale specifico, universalmente valido e permanente: la Parola di Dio si limiterebbe a proporre una generica esortazione, che poi la ragione umana avrebbe il compito di riempire di determinazioni normative adeguate alla situazione storica concreta. […] Una simile interpretazione dell’autonomia della ragione umana risulta incompatibile con la dottrina cattolica. Pertanto è assolutamente necessario chiarire, alla luce della Parola di Dio e della viva tradizione della Chiesa, le fondamentali nozioni della libertà umana e della legge morale, nonché i loro profondi e interiori rapporti.

Riprendendo le parole del Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la «vera libertà» che nell’uomo è «segno altissimo dell’immagine divina»:

La caduta di Adamo ed Eva - Michelangelo - Cappella Sistina
La caduta di Adamo ed Eva – Michelangelo – Cappella Sistina

«Dio volle lasciare l’uomo ‘in mano al suo consiglio’, così che egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con l’adesione a Lui, alla piena e beata perfezione». (Sir 15,14)  

Queste parole indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla signoria divina, cui l’uomo è stato chiamato: il suo dominio si estende, in un certo senso, sull’uomo stesso. È questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione teologica sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità.

Già il governare il mondo costituisce per l’uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà in obbedienza al Creatore: «Riempite la terra; soggiogatela» (Gn 1,28). Sotto questo aspetto alla comunità umana, spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium et spes dedica una speciale attenzione: infatti le realtà terrene «hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare».

Non solo il mondo però, ma anche l’uomo stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità, perché cerchi il suo Creatore e giunga liberamente alla perfezione, edificandola personalmente in sé: infatti, come governando il mondo l’uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti moralmente buoni egli consolida in se stesso la propria somiglianza con Dio.

Se alla base della vita morale sta dunque il principio di una «giusta autonomia» dell’uomo, soggetto personale dei suoi atti, la legge morale – tuttavia – proviene da Dio e trova sempre in lui la sua sorgente. Essa infatti, come si è visto:

«altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione[1]». 

Di conseguenza l’autonomia della ragione non può significare la creazione – da parte sua – dei valori e delle norme morali.  Una pretesa autonomia assoluta contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa e significherebbe la morte della vera libertà. Dio stesso, dunque, si prende cura della creazione. Ma Egli provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli altri esseri: non «dall’esterno», attraverso le leggi della natura fisica, ma «dal di dentro», mediante la ragione che, riconoscendo l’ordine iscritto nelle cose, indica all’uomo la giusta direzione del suo libero agire. In questo modo Dio chiama l’uomo a partecipare alla sua provvidenza, volendo per mezzo dell’uomo stesso, ossia attraverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo della natura e quello delle persone umane. In questo contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la legge naturale: 

«Rispetto alle altre creature — scrive san Tommaso nella Summa Teologica — la creatura razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina provvidenza, in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all’atto ed al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge naturale».

La Chiesa ha fatto spesso riferimento alla dottrina tomistica di legge naturale, assumendola nel proprio insegnamento morale. Così Papa Leone XIII ha sottolineato l’essenziale subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge. Dopo aver detto che la legge naturale è scritta nell’animo di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare, il Pontefice rimanda alla «ragione più alta» del Legislatore divino:

«Ma tale prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non fosse la voce e l’interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi … Ne consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all’atto e al fine che loro convengono».

L’uomo può distinguere il bene dal male mediante la sua ragione, specie se illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede, in forza della legge che Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare dai comandamenti del Sinai. Israele è stato chiamato a vivere la legge di Dio come particolare dono e segno dell’Alleanza divina. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di Israele e chiedere loro:

«Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste, come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?» (Dt 4,7-8).

La Chiesa custodisce con amore l’intero deposito della Rivelazione, inoltre riceve in dono la Legge nuova, che è il «compimento» della legge di Dio in Gesù Cristo e nel suo Spirito: è una legge «interiore» di perfezione e di libertà (cfr. 2 Cor 3,17), iscritta nel cuore umano.

 Il presunto conflitto tra la libertà e la legge si ripropone oggi con forza singolare in rapporto alla legge naturale. In altre epoche, è sembrato che la «natura» sottomettesse totalmente l’uomo e – ancor oggi – i dinamismi corporei, le pulsioni psichiche, i condizionamenti sociali appaiono a molti studiosi come gli unici fattori realmente decisivi, tanto da ricondurre i fatti morali, a dispetto della loro specificità, a meccanismi psico-sociali.

Altri moralisti, invece, sensibili al prestigio della libertà, la concepiscono spesso in opposizione alla natura materiale e biologica, dimenticandone la dimensione creaturale e l’integralità. Per alcuni, la natura si riduce a materiale per l’agire umano: essa dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà, dal momento che ne costituirebbe un limite e una negazione. Per altri, è nella promozione senza misura del potere dell’uomo che si costituiscono i valori economici, sociali, culturali ed anche morali: la natura starebbe a significare tutto ciò che nell’uomo e nel mondo si colloca al di fuori della libertà. Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe quanto è «costruito» cioè la «cultura», quale opera della libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe essere trattata come materiale biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente considerare la libertà come un’istanza creatrice di sé e dei propri valori. È così che al limite l’uomo non avrebbe neppure una natura, e coinciderebbe integralmente con il proprio progetto di esistenza, con la propria stessa libertà!

In questo contesto sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della legge naturale: essa presenterebbe come leggi morali quelle che in se stesse sono soltanto leggi biologiche. Così taluni documenti del Magistero della Chiesa, specie quelli riguardanti l’etica sessuale e matrimoniale, che hanno condannato – come moralmente inammissibili – la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale, non tengono – secondo alcuni teologi – in adeguata considerazione il carattere razionale dell’uomo che – per volere stesso di Dio – deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. L’amore del prossimo significherebbe, in quest’ottica, soprattutto – se non esclusivamente – rispetto per questa libertà di scelta.

Una libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l’abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono in queste concezioni come estrinseci alla persona e all’atto umano. I loro dinamismi non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni «fisici», «pre-morali». Farvi riferimento, per cercarvi indicazioni razionali circa l’ordine della moralità, è una forma di biologismo: in un simile contesto la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione nell’uomo stesso.

Una simile posizione morale non è conforme alla verità sull’uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice gli insegnamenti della Chiesa sull’unità dell’essere umano: l’anima spirituale infatti, forma con il corpo un’unica realtà, quella appunto della persona umana.La ragione e la volontà sono profondamente legate alle facoltà sensibili: è nell’unità dell’anima e del corpo che la persona è soggetto dei propri atti morali;e dal momento che la persona umana comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l’esigenza morale originaria di considerarla sempre come un fine e mai semplicemente come un mezzo implica anche il rispetto di alcuni beni fondamentali.

Una dottrina che dissoci l’atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è dunque contraria agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà «spirituale», puramente formale. Questa riduzione misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad esso si riferiscono. L’apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli «immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci» (cfr. 1 Cor 6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal Concilio di Trento — enumera come «peccati mortali», o «pratiche infami», alcuni comportamenti specifici la cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di avere parte all’eredità promessa.

 Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla persona umana, nell’unità di anima e di corpo che la caratterizza:

«La legge morale […] deve essere definita come l’ordine razionale secondo il quale l’uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo» (Donum vitae, Introd. 3). 

Ad esempio, il dovere di rispettare assolutamente la vita umana trova origine nella dignità propria della persona e non semplicemente nell’inclinazione naturale a conservare la propria vita fisica. Così la vita umana acquista un significato morale in riferimento al bene della persona: mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cfr. Gv 15, 13) per amore del prossimo o per testimoniare la verità. In realtà solo in riferimento alla persona umana, intesa nella sua totalità come «anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale» (Familiaris consortio, 11), si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica. Rifiutando le manipolazioni della corporeità che ne alterano il significato umano, la Chiesa serve l’uomo e gli indica la via del vero amore, sulla quale soltanto egli può trovare Dio.

«Ma da principio non fu così» (Mt 19,8) – Il presunto conflitto tra la libertà e la natura si ripercuote anche sull’interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità. Essa, in quanto iscritta nella sua natura razionale, si impone ad ogni essere umano. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza[2].

Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all’unicità e all’irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l’universalità del vero bene.

È giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; uniscono nel medesimo bene comune gli uomini di ogni epoca della storia, creati per «lo stesso destino divino». I precetti negativi della legge naturale sono allo stesso modo universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione sempre e senza eccezioni, come incompatibile con il bene e con la vocazione della persona alla vita con Dio e alla comunione col prossimo.

D’altra parte, il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non significa che nella vita morale le proibizioni siano più importanti dell’impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, ma ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze, che non sono tutte prevedibili in anticipo; al contrario ci sono comportamenti che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta adeguata – cioè conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre possibile che l’uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone azioni; nessuno però può essere costretto a compiere azioni malvagie, soprattutto se – piuttosto che farle – è disposto a morire.

La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l’inderogabilità di queste proibizioni:

«Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti…: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» (Mt 19,17-18).

La grande sensibilità dell’uomo contemporaneo per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell’immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell’esistenza di norme oggettive di moralità valide per gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato.

Non si può negare che l’uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma neppure si può negare che egli non si esaurisce in essa: il progresso stesso delle culture dimostra che nell’uomo esiste qualcosa che le trascende. Questo «qualcosa» è precisamente la sua natura: essa gli permette di oltrepassare i limiti di ogni particolare cultura e di vivere secondo la verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell’uomo, connessi con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l’esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al «principio», proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario di alcune norme morali (cfr. Mt 19,1-9). In tal senso la Chiesa afferma che:

«al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Gaudium et spes10). 

Certamente occorre trovare di queste norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, capace di esprimerne l’attualità storica e di farne comprendere la verità. Questa verità della legge morale — come quella del «deposito della fede» — si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di comprensione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica.

II. La coscienza e la verità – Il rapporto che esiste tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel «cuore» della persona, ossia nella sua coscienza morale:

«Nell’intimo della coscienza — scrive il Concilio Vaticano II — l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire … L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (cfr. Rm 2, 14-16)»[3].

Le tendenze culturali sopra ricordate, che contrappongono tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà, conducono ad un’interpretazione «creativa» della coscienza morale, che si allontana dalla posizione tradizionale della Chiesa e del suo Magistero.

Secondo l’opinione di diversi teologi la funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta, in passato, ad una semplice applicazione di norme morali generali ai singoli casi. Ma simili norme — dicono — possono, in qualche modo, aiutare a una giusta valutazione della situazione, ma non sostituire le persone nel prendere una decisione personale su come comportarsi in una determinata circostanza. Tali norme non rappresenterebbero quindi un criterio oggettivo vincolante per la coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l’uomo nell’ordinare la sua vita personale e sociale. Questi studiosi esaltano al massimo il valore della coscienza, che il Concilio stesso ha definito: «il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità». Tale voce — si dice — induce l’uomo non tanto a una meticolosa osservanza delle norme universali, quanto a una creativa e responsabile assunzione dei compiti personali che Dio gli affida.

Per mettere in risalto il carattere «creativo» della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il nome di «giudizi», ma con quello di «decisioni»: solo prendendo «autonomamente» queste decisioni l’uomo raggiungerebbe la maturità morale. Né manca chi ritiene che questo processo di crescita sarebbe ostacolato dalla posizione troppo categorica che, in molte questioni morali, assume il Magistero della Chiesa, i cui interventi causerebbero nei fedeli l’insorgere di inutili conflitti di coscienza.

Per giustificare simili posizioni, alcuni studiosi hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere con buona coscienza ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra il precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette «pastorali» contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica «creatrice», per la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.

 Lo stesso testo della Lettera ai Romani, che ci ha fatto cogliere l’essenza della legge naturale, indica anche il senso biblico della coscienza, specialmente nel suo specifico legame con la legge: 

«Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,14-15).

Secondo le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l’uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa «testimone» della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta, solo la persona conosce la propria risposta alla voce della coscienza.

Non si apprezzerà mai adeguatamente l’importanza di questo intimo dialogo dell’uomo con se stesso, che in realtà, è un dialogo con Dioautore della legge e fine ultimo dell’uomo:

«La coscienza — scrive san Bonaventura — è come l’araldo e il messaggero di Dio, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l’editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare».

Si può dire, dunque, che il giudizio della coscienza dà testimonianza della rettitudine o della malvagità di un atto all’uomo stesso, ma prima ancora, essa è la voce di Dio stesso che penetra l’intimo dell’uomo fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et suaviter all’obbedienza:

«La coscienza morale non chiude l’uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il mistero e la dignità della coscienza morale: nell’essere cioè il luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all’uomo»[4].

Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l’uomo deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto: esso applica a una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare il bene ed evitare il male. Questo principio della ragione pratica costituisce il fondamento stesso della legge naturale, in quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile, brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è l’applicazione della legge al caso particolare: essa diventa così per l’uomo un interiore chiamata a compiere nella concretezza della situazione il bene. La coscienza formula così l’obbligo morale alla luce dalla legge naturale: è l’obbligo di fare ciò che l’uomo, mediante l’atto della sua coscienza, conosce come un bene che gli è assegnato qui e ora. Il carattere universale della legge e dell’obbligazione non è cancellato, ma piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni nell’attualità concreta.

Come la stessa legge naturale, anche il giudizio della coscienza ha carattere imperativo: l’uomo deve agire in conformità ad esso. Se l’uomo agisce contro tale giudizio, oppure, anche in mancanza di certezza circa la correttezza e la bontà di un determinato atto, lo compie, egli è condannato dalla sua stessa coscienza. Il giudizio della coscienza attesta l’autorità della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l’attrattiva e accoglie i comandamenti:

«La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano»[5].

La verità circa il bene morale, dichiarata nella legge della ragione e riconosciuta dalla coscienza, porta il soggetto ad assumersi la responsabilità del bene compiuto e del male commesso: quando l’uomo commette il male, il giudizio di condanna della sua coscienza rimane in lui testimone della verità universale del bene, come della malizia della sua scelta. Ma il verdetto della coscienza permane in lui anche come un pegno di speranza e di misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il perdono da chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare sempre, con la grazia di Dio.

Così nel giudizio pratico della coscienza, che impone alla persona l’obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di «giudizio» che riflettono la verità sul bene, e non come «decisioni» arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi — e, in definitiva, dell’uomo, che ne è il soggetto — si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, ma – al contrario – con una pressante ricerca della verità e con l’accettazione della sua guida nell’agire.

La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore:

«Succede non di rado — scrive il Concilio — che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato» (Gaudium et spes,16). 

Con queste brevi parole il Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea. Certamente, per avere una «buona coscienza», l’uomo deve cercare la verità e deve giudicare secondo questa stessa verità. L’apostolo Paolo ammonisce i cristiani dicendo:

«Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).

Il suo monito ci sollecita alla vigilanza, avvertendoci che la nostra coscienza non è un giudice infallibile e che nei suoi giudizi si annida sempre la possibilità dell’errore. Nondimeno l’errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di un’ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da cui non può uscire da solo. Nel caso in cui tale ignoranza non sia colpevole, come ci ricorda il Concilio, la coscienza non perde la sua dignità, perché essa, pur orientandoci di fatto in modo difforme dall’ordine morale oggettivo, non cessa di parlare in nome di quella verità sul bene che il soggetto è chiamato a ricercare sinceramente.

È comunque sempre dalla verità che deriva la dignità della coscienza: non è mai accettabile equiparare il valore morale dell’atto compiuto con coscienza vera e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza erronea. Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male. La coscienza compromette invece la sua dignità quando è colpevolmente erronea, ossia:

«quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine al peccato»( Gaudium et spes,16).

Ai pericoli della deformazione della coscienza allude Gesù, quando ammonisce:

«La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra!» (Mt 6,22-23).

Nelle parole di Gesù troviamo anche l’appello a formare la coscienza, cioèa convertire il «cuore» alla verità e al bene: infatti, «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2) è necessaria non solo la conoscenza della legge di Dio, ma anche una sorta di «connaturalità» tra l’uomo e il vero bene. Questa conformità si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell’uomo stesso: la prudenza e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l’hanno nella Chiesa e nel suo Magistero, come afferma il Concilio:

«I cristiani… nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana» (Dignitatis humanae14). 

Pertanto l’autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della coscienza sussiste sempre e solo «nella» verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che essa dovrebbe già possedere, sviluppandole a partire dall’atto originario della fede. La Chiesa si pone solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola – specie nelle questioni più difficili – a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa.

III. La teoria della scelta fondamentale 

[…] Secondo alcuni teologi, il ruolo chiave nella vita morale sarebbe da attribuire ad una «opzione fondamentale», mediante la quale la persona decide globalmente di se stessa. Gli atti particolari derivanti da questa opzione costituirebbero soltanto dei tentativi parziali e mai risolutivi per esprimerla. In questa teoria teologica, le azioni particolari dell’uomo non intaccano la sua salvezza ultima: ciò che è importante è il suo fondamentale orientamento pro o contro Dio[6].

Non c’è dubbio che la dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce la specifica importanza di una scelta fondamentale che qualifica la vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte a Dio. Si tratta della scelta della fede (cfr. Rm 16,26) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie prescrizioni particolari, assicura unità e profondità alla morale dell’Antica come della Nuova Alleanza.

Mediante la scelta fondamentale l’uomo è capace di orientare la sua vita e di tendere, con l’aiuto della grazia, verso il suo fine ultimo: ma questa capacità si esercita di fatto nelle scelte particolari, negli atti determinati mediante i quali egli si conforma deliberatamente alla volontà di Dio. Va pertanto affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si differenzia da un’intenzione generica, si attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Proprio per questo, essa viene revocata quando l’uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli di senso contrario, relative a materia morale grave.

Separare l’opzione fondamentale dai comportamenti concreti significa contraddire l’unità personale dell’agente morale, cioè dell’essere umano, nel suo corpo e nella sua anima.

Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che vietano alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione: il solo atto moralmente buono è quello di astenersi dall’azione proibita dalla legge morale.

Occorre aggiungere una importante considerazione pastorale. Le posizioni sopra accennate ritengono possibile che un uomo, in virtù di un’opzione fondamentale, resti fedele a Dio indipendentemente dalla conformità o meno di alcune sue scelte alle norme morali specifiche. In ragione di un’opzione originaria per la carità, egli potrebbe cioè mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia di Dio e raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa.

In realtà, l’uomo non si perde solo per l’infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale si è consegnato «tutto a Dio liberamente». Egli, con ogni peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha donato la legge e pertanto, pur conservandosi nella fede, egli perde in questo modo la «grazia santificante», la «carità» e mette a rischio la «beatitudine eterna»[7]

Il Sinodo dei Vescovi del 1983, da cui è scaturita l’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, non soltanto ha riaffermato la distinzione tra peccati mortali veniali, ma ha voluto ribadire che è peccato mortale quello che, avendo per oggetto una materia grave, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. Bisogna quindi evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di “opzione fondamentale” contro Dio», concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito rifiuto dell’amore:

«Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari».

In tal modo la dissociazione tra opzione fondamentale e scelte deliberate di comportamenti disordinati, comporta il misconoscimento della dottrina cattolica sul peccato mortale:

«Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio e la sua legge, … preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (conversio ad creaturam). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave».[8]

IV. L’atto morale – Il rapporto tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio, che trova la sua sede intima e viva nella coscienza morale, si manifesta e si realizza negli atti umani, chesono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell’uomo stesso che li compie. Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne all’uomo, ma qualificano moralmente la persona stessa che li pone in essere, determinandone la fisionomia spirituale profonda. La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà con il bene autentico: esso è stabilito dalla Sapienza di Dio che ordina ogni creatura al suo fine. Questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell’uomo («legge naturale»), quanto — in modo integrale e perfetto — attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio («legge divina»). L’agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell’uomo ed esprimono così l’ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso. La domanda iniziale del colloquio del giovane con Gesù: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16) mette immediatamente in luce l’essenziale legame tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell’uomo. Gesù, nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il compimento di atti buoni, comandati da Colui che «solo è buono», costituisce la condizione indispensabile e la via per la beatitudine eterna: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17). Solo l’atto conforme al bene può essere via che conduce alla vita.

Pertanto, l’agire umano non può essere valutato moralmente buono solo perché funzionale a raggiungere uno scopo, o perché l’intenzione del soggetto è buona: esso è tale soltanto se razionalmente e liberamente ordinato al raggiungimento del fine ultimo. Se l’oggetto dell’azione concreta non è in sintonia con il bene vero della nostra persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il nostro fine ultimo, cioè Dio stesso.

In questo senso la vita morale possiede un essenziale carattere «teleologico», perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell’uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Ma questa ordinazione al fine ultimo non dipende solo dall’intenzione del soggetto: essa presuppone che gli atti che compie siano ordinabili al fine ultimo, in quanto conformi all’autentico bene morale dell’uomo, tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso nella risposta al giovane: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17).

Ma da che cosa dipende la qualificazione morale dell’agire libero dell’uomo? Da che cosa è assicurata questa ordinazione a Dio degli atti umani?Dall’intenzione del soggetto che agisce, dalle circostanze — e in particolare dalle conseguenze — del suo agire o dall’oggetto stesso del suo atto? Il problema affrontato è quello delle cosiddette “Fonti della moralità”.

Proprio a riguardo di tale problema, si sono sviluppate alcune teorie etiche, denominate «teleologiche», in quanto attente alla conformità degli atti umani con i fini perseguiti dall’agente: […] Questo «teleologismo», come metodo di rinvenimento della norma morale, può allora — secondo terminologie mutuate da differenti correnti di pensiero — chiamarsi «consequenzialismo» o «proporzionalismo». Il primo pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall’esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del «più grande bene» o del «minor male» effettivamente possibili in una situazione particolare […] In questa prospettiva il consenso deliberato a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale tradizionale non implicherebbe una malizia morale oggettiva[9]”.

L’oggetto dell’atto deliberato – Queste teorie possono acquistare una certa forza persuasiva dalla loro affinità con la mentalità scientifica, giustamente preoccupata di ordinare le attività tecniche ed economiche in base al calcolo delle risorse e dei profitti, dei procedimenti e degli effetti. Tali concezioni non sono però fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché giustificano, come moralmente buona, la scelta di comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale. I fedeli sono invece tenuti a rispettare i precetti morali specifici, insegnati dalla Chiesa in nome di Dio.  L’amore di Dio e l’amore del prossimo sono infatti inseparabili dall’osservanza dei comandamenti ed èonore proprio di un cristiano obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. At 4,19; 5,29) e accettare per questo anche il martirio, come hanno fatto i santi e le sante dell’Antico e del Nuovo Testamento, riconosciuti tali per aver dato la loro vita piuttosto che compiere questo o quel gesto contrario alla fede o alla virtù.

Benedetto XVI nel 2008

Secondo Papa Ratzinger la “Veritatis splendor”, conferma che “ci sono beni che sono indisponibili” e “valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica … Dio è di più anche della sopravvivenza fisica”.

Per offrire i criteri razionali di una giusta decisione morale, le suddette teorie tengono conto dell’intenzione e delle conseguenze dell’azione umana. Sono certamente da prendere in grande considerazione sia l’intenzione — su cui insiste con forza Gesù, opponendosi a scribi e farisei, che minuziosamente prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (cfr. Mc 7,20-21; Mt 15,19) — sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito di un atto particolare. Si tratta di un’esigenza di responsabilità. Ma la considerazione di queste conseguenze, peraltro difficilmente ponderabili[10] — nonché delle intenzioni — non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta.

Infatti la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile o meno al fine ultimo, che è Dio. L’etica cristiana, che privilegia l’attenzione all’oggetto morale, riconosce che il bene viene realmente perseguito solo quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana. Infatti l’ordinabilità di un atto al Bene viene colta dalla ragione nell’essere stesso dell’uomo, considerato integralmente, dunque anche nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità che hanno sempre anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i contenuti della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei «beni» per la persona tutelati dai comandamenti, che – secondo san Tommaso – contengono tutta la legge naturale.

Va quindi respinta la tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie (cioè il suo oggetto) la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati, prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per le persone interessate[11].

Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell’atto umano che si configurano come «non-ordinabili» a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che la Chiesa tradizionalmente denomina come ‘intrinsecamente cattivi’: essi – cioè – lo sono sempre, indipendentemente dalle intenzioni di chi agisce e dalle circostanze.

Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un’ampia esemplificazione di tali atti:

«Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore» (Gaudium et spes, 27).

Paolo VI – nell’Humanae vitae – ha considerato illecita la contraccezione in ambito coniugale, anche se praticata per ragioni gravissime, infatti:

«In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cfr. Rm 3,8), cioè […] nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali».

Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L’apostolo Paolo afferma in modo categorico:

«Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio» (1 Cor 6,9-10).

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla[12]: per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto «soggettivamente» onesto. Del resto, l’intenzione è buona quando mira al vero bene della persona. Ma gli atti, il cui oggetto non è ordinabile a Dio, si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene: per questo il rispetto delle norme li proibiscono, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale.

Come si vede, nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell’uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano. Insegnando l’esistenza del male intrinseco in determinati atti umani, la Chiesa rimane fedele alla verità integrale dell’uomo, e quindi promuove quest’ultimo nella sua dignità e vocazione. Essa, di conseguenza, deve respingere le teorie sopra esposte che si pongono in contrasto con questa verità.

Bisogna però che noi, Fratelli nell’Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso. In Lui, che è la Verità (cfr. Gv 14,6), l’uomo può comprendere e vivere pienamente, mediante gli atti buoni, la sua vocazione alla libertà nell’obbedienza alla legge divina, che si compendia nel comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Ed è quanto avviene con il dono dello Spirito Santo, Spirito: in Lui ci è dato di di percepirla e viverla come una legge di libertà (Gc 1,25).


[1] Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae,3.

[2]S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2.

[3] Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 16

[4] Discorso (Udienza generale, 17 agosto 1985), 2 

[5]Lett. enc. Dominum et vivificantem (18 maggio 1986), 45

[6] Secondo questi teologi il peccato mortale, che separa l’uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio.

[7] «La grazia della giustificazione — insegna il Concilio di Trento — una volta ricevuta, può essere perduta non solo per l’infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale».

[8] Esort. ap. post-sinodale Reconciliatio et paenitentia (2 dicembre 1984).

[9] Questo perché tali atti sono valutato con il metro del consequenzialismo e/o del proporzionalismo e non sulla base della loro ordinabilità al conseguimento del Bene Assoluto.

[10]D’altra parte come possiamo noi uomini (che abbiamo una vista limitata) conoscere tutte le conseguenze, buone o cattive che siano, che possono derivare da una nostra azione?

[11] Come scrive San Paolo: non è lecito fare il male a scopo di bene (cfr. Rm 3,8), o detto in altri termini: Il fine non giustifica i mezzi!

[12] «Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati — scrive sant’Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi, non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?».

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