Eustache Le Sueur, La predicazione di San Paolo a Efeso (particolare), Louvre, Parigi
Eustache Le Sueur, La predicazione di San Paolo a Efeso (particolare), Louvre, Parigi

 

Domenica XXIV del Tempo Ordinario (Anno A)

(Sir 27,33-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35)

 

 

di Alberto Strumia

 

Guardiamo con un po’ di attenzione ciò che le letture di questa domenica intendono farci capire.

– Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Romani di san Paolo, viene enunciato un “principio” ineludibile che sta alla base dell’esistenza di ogni cosa, e in particolare dell’essere umano.

Ma bisogna capirlo nel suo “serio” valore “esistenziale”, “culturale”, “sociale”. Anzi, è una “legge intrinseca all’essere” (una legge “ontologica” per dirlo con un termine più filosofico). Perché solo comprendendolo, a questo livello, esso può essere riconosciuto anche come “principio” indispensabile per regolare il comportamento degli uomini, come fondamento di una “morale” e quindi del “diritto” e della legislazione di un popolo.

Se non si arriva a questo fondamento, si finisce per distruggere sé stessi e il popolo, a non essere più in grado di governare una vita “civile”, proprio come accade ai nostri giorni.

Tutti i tentavi maldestri che oggi si fanno per “correggere” i comportamenti delittuosi “dall’esterno” dell’uomo, solo con leggi e provvedimenti repressivi, senza preoccuparsi di educare le coscienze, si rivelano insufficienti. L’avere rimosso il cristianesimo – e prima ancora i Comandamenti, la Legge naturale – dall’educazione della persona, fino dalla sua infanzia, non può che portare a moltiplicare il numero di persone che sono prive di coscienza morale e di capacità di autocontrollo, di rispetto verso ogni forma di autorità. I ragazzi di oggi sono nati in un mondo che è già ridotto in questo modo e non hanno nemmeno la minima percezione di che cosa sia il senso di responsabilità di fronte ad una regola interiore ed esteriore. Per loro è “normale” che sia così, e le conseguenze sono devastanti per loro stessi e per il loro prossimo.

Dicendo che «nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore», dobbiamo capire che l’insegnamento che ci serve, sta tutto racchiuso in quella parola per, così insistentemente ripetuta.

Essa non indica esclusivamente, e prima di tutto, Dio come “fine” opzionale, come scopo “possibile” del nostro esistere e vivere. Come se si trattasse di una indicazione “facoltativa” per la vita: è bene vivere dedicando la propria vita “per” Dio, ma se si fa una scelta diversa le cose vanno bene ugualmente… Non vanno bene affatto! La libertà c’è per scegliere la strada della verità della vita ed evitare l’errore che allontana da essa.

Questo per indica prima di tutto che Dio è la “causa”, Colui che “produce”, rende possibile l’esistere e il vivere di ogni essere umano, sia che egli lo capisca, sia che non se ne renda conto. Dobbiamo, allora, intendere: “nessuno di noi vive a causa di sé stesso, dandosi l’esistenza da sé stesso, […] perché se noi viviamo, viviamo perché il Signore causa il nostro vivere”. È una “legge di natura”, non appena un consiglio morale. Tanto è vero che ogni tentativo di negare questo principio finisce per rendere la vita del singolo e quella della comunità umana, un’inferno insopportabile, un mondo ingovernabile.

– È quanto ci predice la prima lettura denunciando che, se si sta alla realtà dei fatti, non si può non accorgersi che «rancore e ira sono cose orribili». E oggi troppa gente se «le porta dentro», finendo prima o poi per lasciarle sfogare all’esterno compiendo le efferatezze più inumane.

Questo accade perché in troppi non hanno più la minima cognizione – “coscienza” – della propria relazione con Dio Creatore («se noi viviamo, viviamo per il Signore», seconda lettura), dalla quale dipende “causalmente” (è il per di san Paolo) la loro esistenza e il loro equilibrio interiore ed esteriore.

Questa “rimozione” (ereditaria e/o volontaria) della consapevolezza di questa relazione causale e amorevole con il Signore, con il Creatore, è ciò che la Scrittura chiama “peccato”:

= “originale” quanto alla sua componente “ereditaria”

= e “attuale” per la sua componente liberamente “volontaria”.

Per questo la prima lettura qualifica come «peccatore» colui che se la «porta dentro». L’avere cancellato dalle culture dei popoli la nozione stessa di “peccato”, sia nella sua componente “ereditaria” (il “peccato originale”), che nella sua componente liberamente “volontaria” (il “peccato attuale”) ha finito (oggi è un “dato di fatto” e non appena una possibilità) per rendere invivibile sia la vita personale che quella comunitaria, dal livello più riservato come quello domestico ai livelli più pubblici, come quelli sociali, nazionali e mondiali.

L’indicazione per contrastare questa devastazione è, prima di tutto, quella di restare «fedele ai Comandamenti», come suggerisce ancora la prima lettura.

– Nel Vangelo, Gesù opera due passaggi in più.

Primo passaggio. Egli spiega con una parabola che cosa succede se si imposta l’esistenza senza tenere conto della relazione tra l’essere umano e Dio Creatore. Il servo che si scopre indebitato si è accorto sì, di non essere lui il Creatore, il Signore assoluto di sé stesso e di potere vivere solo per (in forza di) Colui che lo fa esistere e lavorare nella Sua Casa, ma commette l’errore di valutazione di pensare che la relazione con il Creatore sia solo “momentanea” e non “permanente”. È come uno che pensa che il Creatore ci sia solamente all’inizio, per “avviare” la macchina del mondo. E poi tutto vada avanti benissimo da sé, senza riferimento a Dio; quasi come se le creature, gli esseri umani, potessero continuare ad esistere per virtù propria e non perché sono provvidenzialmente mantenuti in esistenza da Dio e dal rispetto delle Sue Leggi.

Così, quel servo, pensando ormai di essere totalmente autonomo rispetto al padrone, pretende di stabilire lui le leggi della casa, di sua iniziativa, capovolgendo la “giustizia” voluta originariamente dal padrone. Di fatto ritorna a pensare e ad agire come se Dio non esistesse, come se fosse irrilevante la sua azione per le creature, per gli uomini. Per questo il primo servo diventa “cattivo” nei confronti del secondo servo che è indebitato con lui e lo fa condannare.

Secondo passaggio. A questo punto Gesù fa capire che questo accade anche perché il padrone è stato in grado di riscattare, come Redentore, il servo malvagio dal suo debito, mentre il servo malvagio, da solo non è in grado di redimere nessuno, ma è capace solo di condannare. Alla fine, però, i conti non tornano e il mondo fittizio di rapporti umani costruito dal servo malvagio, rivela tutta la sua inconsistenza e disumanità: la verità emerge.

Con questa parabola Gesù incomincia a far capire ai suoi interlocutori – e questo è il punto centrale dell’insegnamento – che il “perdono” non può essere concesso come un semplice “condono”, un fingere che il debito non ci sia. Il “condono” del debito non è sufficiente per rende buono il primo servo, che qui rappresenta l’uomo come tale. Occorre una “riparazione” interiore dell’anima del primo servo per farlo passare da malvagio a buono, restituendogli l’accesso al “modo giusto” di concepire sé stesso davanti a Dio Creatore (il Re della parabola). Cristo, un passo dopo l’altro, educherà i suoi discepoli a comprendere che il Suo piano di Salvezza si colloca a questo livello di “riparazione” della natura umana decaduta: Egli intende riaprire, per l’uomo, l’accesso alla partecipazione alla Vita di Dio (è la Grazia).

Maria, Sua madre, lo comprese fin dall’inizio e accettò di fare parte di questo piano di Redenzione, di ricostruzione dell’essere umano, collaborandovi attivamente, come Madre di Dio. Anche a ciascuno di noi è chiesto una qualche forma di collaborazione con Dio, come Creatore e come Redentore: è ciò che chiamiamo la “nostra vocazione” nella Chiesa.

 

Bologna, 17 settembre 2023

 

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