Benedetto XVI
Benedetto XVI

 

 

di Marco Nardone

 

Spesso, e specialmente in occorrenza delle elezioni, si ripropone alla coscienza retta il problema di come risolvere la tensione, sempre presente in politica, tra idealità e concretezza. Una tensione che, per tanti cattolici, può degenerare in conflitto irrisolto, data l’attuale loro dispersione in schieramenti politici tra loro opposti. Propongo in merito due spunti di riflessione, tratti da due maestri del pensiero, che possono forse contribuire ad illuminare, almeno in parte, il problema.

1) Il primo spunto viene dall’opera prima di un acuto e poco conosciuto filosofo friulano del secolo scorso, Sergio Sarti [1].

Contrariamente a quanto comunemente si pensa, osserva Sarti, un politico che voglia realmente incidere nella storia e non subirla non dev’essere un prassista, ma un uomo pratico. Tra i due tipi d’uomo c’è un abisso. Il prassista pretende di agire concretamente nella storia sfiduciando il pensiero. Ciò però non si può realizzare al 100%, perché sarebbe negare l’uomo; il prassismo si realizza perciò nel compromesso. Così il prassista si proporrà sì di raggiungere un fine, ma non in coerenza con l’ideale, bensì esclusivamente al traino della realtà “effettuale”, disponendosi a cambiare il fine pur di adeguarlo ai tempi e alle circostanze date. L’uomo pratico, invece, è uno che sa muoversi sempre alla luce dell’ideale, che è della sua coscienza orizzonte e guida. Solo se il politico è questo tipo d’uomo diventerà capace di azione creatrice, cioè di una azione che produca un reale avanzamento nella storia, nel senso di novità qualitativa e non (solo) meccanico-quantitativa.

L’ideale però non deve essere utopico, ma reale, e quindi realizzabile, sia pure in forma imperfetta. Esso, perciò, deve poter tradursi in un fine, un obiettivo, da raggiungere. Ciò vuol dire che l’obiettivo deve non solo essere individuato alla luce della verità e del bene, ma anche ne devono essere individuate le condizioni di realizzabilità; e ciò comporta una strategia, ovvero una gradualità, un procedere per tappe e dai mezzi al fine. Se non ci fosse questa gradualità l’obiettivo non sarebbe un vero obiettivo, o l’ideale non sarebbe un vero ideale. In altri termini, per poter raggiungere un fine bisogna che il politico trovi i mezzi adatti a raggiungerlo nelle circostanze date: in questo senso si dice, giustamente, che la politica è “l’arte del possibile”.

Questo, si badi, non significa affatto avvallare l’assioma machiavellico che il fine giustifica i mezzi. I mezzi devono essere omogenei al fine, altrimenti lo depravano, come dimostra anche la storia. Questo perché i mezzi, in realtà, non sono altro che dei fini intermedi, la cui somma va a costituire il fine ultimo; perciò, un mezzo cattivo finirà col contaminare lo stesso fine. Così, per esempio, un consenso ottenuto con l’inganno o la violenza non sarà un vero consenso, ma un consenso falso, e come tale fomite di scontento e di ribellione. È fondamentale, quindi, che il politico tenga conto, nelle decisioni da prendere, della necessaria congruità dei mezzi al fine.

Inoltre, di tali mezzi è necessario che il politico possa disporne; e, per disporne, deve agire sulla “realtà effettuale”, che dunque deve conoscere bene: altrimenti non realizzerebbe nulla, e la sua sarebbe solo una vox clamantis in deserto.

In definitiva, qui sta il senso della strategia, ovvero della progettualità politica, e della sua necessità: il fine da raggiungere non può esistere fuori dai mezzi, che non sono altro che la scala dei fini che portano ad esso. Una scala, una gradualità, quindi, è necessaria, come è necessario il potere per poterla percorrere.

Questo è il realismo della ragione. Un realismo che, però, vuol dire esattamente il contrario di quanto intendono i prassisti, sostenitori del “compromesso”. Per costoro, l’ideale, realizzandosi, inevitabilmente deve modificarsi, scendere a compromesso, nel senso che è destinato a invilirsi, a degradarsi. Ma, se ciò accade, è quanto dire che quel fine non si è realizzato, perché un fine viene formulato esattamente per essere realizzato: se un fine si piega all’effettualità invece di piegarla a sé, vuol dire che non lo si è affatto pensato come fine, o che si è rinunciato a realizzarlo per accontentarsi di altro.

Tutto il problema del politico, quindi, sta nel saper fissare con sapienza e competenza l’obiettivo, che deve essere tanto concretamente raggiungibile quanto coerente con l’ideale. Le due “cose” devono stare insieme, ma forse è bene sottolineare (come faceva già Sarti) che la seconda ha un primato ontologico sulla prima. E ciò non solo perché su questo primato si fonda la stessa possibilità di perseguire nella storia un vero progresso dell’umano. Ma anche perché mi sembra che tra i cattolici, ormai da molti anni, tra i due estremi del massimalismo e del minimalismo, è il secondo che “spopola” di più.

 

2) Il secondo spunto viene da un testo del 1981 di Joseph Ratzinger, che è la trascrizione di un’omelia rivolta proprio ai politici cattolici [2].

Da questo scritto, spesso, si suole estrapolare una frase dalla prima parte, quella sul compromesso, stralciandola dal contesto. Ma il testo, in realtà, consta di tre parti, ciascuna relativa, a dire dello stesso Autore, a “tre affermazioni importanti”, contenute nelle letture bibliche del giorno; tre affermazioni evidentemente connesse, che hanno “un significato anche per l’azione politica dei cristiani”.

Se si legge lo scritto superficialmente, Ratzinger sembra, in apparenza, affermare due cose diverse. Nella prima parte, infatti, egli afferma: “lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana”. Ciò è diventato particolarmente chiaro con la fede cristiana, per cui “il primo servizio che la fede fa alla politica è la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo”. Ne viene, di conseguenza, che la vera moralità politica è “essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile”: “limitarsi al possibile (…) sembra il pragmatismo dei meschini”, ma la verità e che “non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio”, bensì “la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

Molti usano queste ultime parole di Ratzinger per provare a tirarlo nell’area politica, diremmo, liberal-trasformista, perché non tengono conto delle altre due, e più pregnanti, parti del discorso.

Nella seconda parte, infatti, Ratzinger sottolinea, invece, che i Cristiani hanno sempre rispettato lo stato come stato, ma “non erano affatto gente angosciosamente sottomessa all’autorità, gente che non sapesse” di “un diritto e un dovere alla resistenza, fondato sulla coscienza”: proprio perché “hanno riconosciuto i limiti dello stato”, essi “non vi si sono piegati laddove non era loro lecito piegarsi, perché era contro la volontà di Dio”. Proprio così, aggiunge Ratzinger, i cristiani hanno contribuito a reggere lo stato, non a distruggerlo: perché il male può essere combattuto solo “con la decisa adesione al bene, non altrimenti”. “La vera, cristiana resistenza (…) ha luogo quando e solo quando lo stato esige la negazione di Dio e dei suoi comandamenti”, cioè “quando domanda il male, rispetto a cui il bene è sempre un comandamento”.

Nella terza parte Ratzinger fa la sintesi ed afferma che “la fede cristiana ha distrutto il mito dello stato divino” e “al suo posto ha invece collocato il realismo della ragione.  Ma ciò non significa che la fede abbia portato un realismo libero da valori (…). Alla vera ragione umana appartiene la morale, che si alimenta di comandamenti di Dio. Questa morale non è un affare privato. Ha valore e importanza pubblica”. Questa perciò “dev’essere l’essenza di un’attiva politica cristiana: solo là dove il bene si fa e si riconosce come bene, può anche prosperare una buona convivenza tra gli uomini. Il perno di un’azione politica responsabile deve essere quello di far valere nella vita pubblica il piano della morale, il piano dei comandamenti di Dio”.

Ciò che lega le tre parti del discorso è proprio l’affermazione che “lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana; affermazione che suppone quell’uso esteso della ragione che è il punto centrale nel discorso di Ratisbona [3]. Una politica realista, e cioè una politica che riconosce i suoi limiti, è possibile, infatti, solo se la ragione, la coscienza, riconosce come superiori i diritti di Dio. Questo vuol dire, allora, che il compromesso di cui parla Ratzinger è propriamente un negoziato, una mediazione tra vari beni possibili, o via via possibili, benché non i migliori possibili; ma non è assolutamente, perché non può mai esserlo, un compromesso tra il bene e il male.

Non mi sembra chiarissimo questo oggi tra i cattolici (forse anche perché il bene, per molti, è diventato un concetto relativo). Qualcuno dice che mediare tra bene e male (il cosiddetto “male minore”) è una strategia per non farsi bruciare subito e rimanere in pista per cambiare le cose. Ma, dice Ratzinger, c’è un limite al compromesso, rappresentato appunto “dai comandamenti di Dio, che non possono essere messi fuori corso, neanche per qualche tempo allo scopo di accelerare un cambiamento delle cose”. Insomma, per Ratzinger il criterio che definisce l’orizzonte della politica cristiana, quello su cui i politici cristiani dovrebbero sempre interrogarsi, è: che cosa mette in questione i comandamenti di Dio, il bene, la legge naturale? Lì bisogna fermarsi: non si negozia, come dirà poi, con i principi non negoziabili. Il resto potrà essere oggetto di compromesso, inteso come la mediazione necessaria per arrivare a “portare a casa”, come risultato dell’azione, il bene possibile. Il bene possibile però, cioè un bene imperfetto, ma sempre bene. NON un mezzo male, o una via di mezzo tra bene e male.

Ovviamente bisogna che il politico sappia, di volta in volta, calare questo criterio nella concretezza della vita e della pratica. Ma bisogna prima che lo pensi, che abbia il tempo per pensarlo. Il politico cristiano, mi diceva un amico, deve conservarsi sempre un tempo per pensare. Perché se non avrà cura di aver sempre presente questo orizzonte, quello metafisico, quello della vastità della ragione, non gli sarà nemmeno possibile vedere i limiti del potere, e quindi concepire la politica come “arte del possibile”. E così la politica degenererà, con la sua collaborazione, o in fanatismo o in prassismo piatto e privo di idealità.

Solo se combatteranno il male con la decisa, e concreta, adesione al bene, e non altrimenti, i cristiani potranno contribuire, anche oggi, a edificare il bene comune, e non a distruggerlo.

 

Note: 

[1] SERGIO SARTI, L’azione creatrice, Morcelliana, Brescia, 1959..

[2] JOSEPH RATZINGER, I Cristiani di fronte ai totalitarismi, omelia tenuta per i deputati cattolici del Bundestag, 26 Novembre 1981. Ora in ID., Liberare la libertà, Cantagalli, Siena, 2018, pp. 63-67.

[3] BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Discorso del Santo Padre in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12/9/2006 (lo trovate qui)

 


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