di Lucia Comelli
Dall’incontro di genitori di preadolescenti e adolescenti che, spesso da un giorno all’altro, si sono identificati come transgender è nata l’associazione culturale GenerAzioneD (dove la D sta per disforia di genere, un problema che coinvolge oggi molti adolescenti): il suo scopo fondamentale è quello di sostenere madri e padri che si trovino a vivere questa complessa e difficile esperienza, che coinvolge un numero crescente di giovani[1], contribuendo allo stesso tempo ad un dibattito approfondito sul tema della disforia/transizione di genere che oggi non trova spazio sui media mainstream.
Per fare chiarezza sul fenomeno, il sito dell’associazione (www.generazioned.org) pubblica testimonianze, interviste, articoli nazionali e internazionali, ma anzitutto propone – per orientarsi sugli aspetti fondamentali della questione – la lettura di un ampio articolo, di cui riporto di seguito una sintesi.
Cosa bisogna sapere sulla disforia di genere[2]
«La disforia di genere è una condizione di grande sofferenza psichica caratterizzata da una marcata e persistente sensazione di incongruenza tra il genere percepito e il proprio sesso biologico – che ha sempre riguardato una piccolissima percentuale della popolazione adulta e prevalentemente maschile – 0.005-0.014% – con un esordio per lo più in età infantile».
Se quindi da sempre durante l’adolescenza, come già durante l’infanzia, i giovani si sono trovati a fare i conti con la propria identità, anche sessuale, mai come oggi si è registrata una così grave crisi nel vivere questi passaggi di crescita:
«Nel 2018 la Tavistock Clinic di Londra – unico centro pubblico dedicato al trattamento dei minori e punto di riferimento internazionale fino al luglio 2022 quando ne è stata decisa la chiusura per le criticità riscontrate da una revisione indipendente -, ha registrato un aumento del 4400% di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente».
Di fronte a tali sostanziali mutamenti – comuni a tutto il mondo occidentale – un numero sempre maggiore di studiosi considerano insoddisfacenti le spiegazioni di quanti [sostenitori dell’assunto della fluidità di genere] vorrebbero giustificarli unicamente sulla base di una maggiore apertura e accettazione da parte della società delle persone sessualmente non conformi: «Anche volendo ignorare l’aumento esponenziale dei numeri, infatti, rimarrebbero comunque ingiustificati il passaggio della prevalenza da maschile a femminile, il cambio dell’età d’esordio e l’assenza di manifestazioni nell’infanzia».
Per spiegare l’esponenziale e rapidissima diffusione del fenomeno, numerosi studiosi e professionisti hanno iniziato a valutare come fattore rilevante quello del contagio tra pari e quello sociale, come accade ed è riconosciuto da tempo nei disturbi alimentari. Una propagazione accelerata dal consumo sempre più massiccio di internet da parte degli adolescenti, anche per effetto della pandemia: «Negli ultimi anni, infatti, si è verificato un forte aumento di contenuti on line sulle questioni transgender, anche con la comparsa sui principali social e su YouTube di centinaia di profili, con migliaia di followers, in cui giovani utenti raccontano e celebrano l’esperienza della transizione». Per questo sono sempre più numerosi i professionisti che riconoscono un peso a tali forme di contagio[3].
Oggi, comunque, la comunità scientifica sembra concordare su almeno tre cose: ci sono stati cambiamenti nella presentazione della Disforia di Genere (DG), le ragioni non sono ancora sufficientemente studiate, infine, nelle persone con sintomi di disforia di genere sono presenti molto spesso anche altri disturbi (comorbidità), come autismo, ADHD e/o patologie psichiatriche quali ad esempio la depressione e l’ansia sociale.
Pertanto, la sintomatologia della disforia di genere sovente è solo una delle manifestazioni riportate dai pazienti, alle prese con problematiche complesse e in molti casi preesistenti: quindi ricondurre l’intera sintomatologia all’unica causa della DG [come vogliono diverse associazioni Lgbtqia+, magari tacciando di transfobia chi cerca ulteriori spiegazioni] – appare a molti studiosi riduttivo.
Contemporaneamente alla disforia, si è ampiamente diffuso un modello di approccio affermativo di genere alla stessa, «il cui percorso può prevedere:
- transizione sociale [come accade nella Carriera Alias, una procedura adottata da oltre un centinaio di scuole italiane]
- bloccanti puberali
- trattamento ormonale a vita
- mastectomia bilaterale o impianto di protesi
- rimozione di ovaie o di testicoli
- isterectomia
- rimozione chirurgica o revisione degli organi genitali».
Sulla validità di tale modello applicato a bambini, adolescenti e giovani adulti, gli studiosi sono divisi: infatti, «molti trattamenti, irreversibili o solo parzialmente tali, potrebbero comportare l’infertilità/sterilità di pazienti molto giovani e diversi studi evidenziano gli alti rischi sulla salute delle ossa, del cervello e del sistema cardiovascolare».
I bloccanti sono farmaci nati per ritardare l’inizio di una pubertà eccessivamente precoce in bambini molto piccoli. Il loro utilizzo per il trattamento di giovani con disforia di genere non è mai stato autorizzato, ma in alcuni Paesi vengono prescritti con modalità diverse da quelle previste; pertanto, il loro utilizzo nel contesto della DG è sperimentale e viene giustificato considerando la “sospensione” della maturazione sessuale, come un’utile pausa in cui il minore avrebbe più tempo per decidere della propria futura identità. Quello che non si dice quasi mai è che la grande maggioranza dei bambini con sintomatologia di disforia di genere a esordio infantile o prepuberale supererà spontaneamente le sue problematiche proprio con l’arrivo dell’adolescenza. Al contrario, la quasi totalità dei pazienti messi sotto blocco puberale proseguiranno il trattamento di affermazione di genere con ormoni cross sex. Pertanto, l’utilizzo di questi farmaci instrada precocemente molti giovani sulla via della transizione medica a vita[4].
Una delle motivazioni per giustificare l’utilizzo sperimentale su pazienti così giovani è che si tratterebbe di farmaci con funzione salvavita, ma ci sono poche prove che la transizione medica riduca il rischio suicidario, […] mentre uno studio svedese a lungo termine ha rilevato che le persone transgender dopo l’intervento hanno “rischi considerevolmente più elevati” di comportamenti suicidi».
Alla base dell’attuale transizione medica e chirurgica dei giovani per di più c’è un unico studio, il cosiddetto “Protocollo Olandese”[5]. Nonostante le gravi problematiche legate alla possibilità di un reale consenso informato da parte dei pazienti più giovani e le pesanti limitazioni della procedura, l’esperimento olandese è diventato la base per la pratica della transizione medica dei minori in tutto il mondo[6].
Attualmente, gli interventi ormonali e chirurgici sono in fase di espansione e vanno oltre il già sperimentale “protocollo olandese”, visto che si applicano anche ai giovani con disforia di genere di origine adolescenziale e che si incoraggia una transizione sociale precoce. Un articolo osserva che la disforia di genere è più persistente nell’adolescenza quando si è verificata la transizione sociale; pertanto, afferma che quest’ultima è un intervento psicosociale [che] potrebbe essere caratterizzato come “iatrogeno” ovvero un problema medico causato dal trattamento stesso […].
Anche le nuove Linee guida del Regno Unito riconoscono la transizione sociale come una forma di intervento psicosociale e non come un atto neutro, per questo la sconsigliano nei bambini e la limitano negli adolescenti ad alcuni casi e a seguito di un esplicito processo di consenso informato.
Infatti, «in assenza di solide evidenze scientifiche e di una voce unanime da parte della comunità scientifica, avviare alla transizione persone di giovane età e nella maggior parte dei casi afflitti dalla compresenza di disturbi del neurosviluppo e/o patologie psichiatriche è estremamente rischioso […] Il cervello del preadolescente e dell’adolescente è in costante evoluzione e le più recenti scoperte nell’ambito delle neuroscienze sostengono che la corteccia prefrontale arrivi a maturazione intorno ai venticinque anni. Pertanto, la somministrazione di trattamenti ormonali e interventi chirurgici irreversibili a giovani pazienti li espone anche un’alta possibilità di pentimento, come sembra confermare il costante aumento del numero dei detransitioner, cioè delle persone che, dopo aver intrapreso la transizione medica e/o chirurgica, decidono di tornare a identificarsi con il loro sesso biologico». Molti di loro sono giovani tra i venti e i trent’anni che hanno deciso di intraprendere la transizione in età precoce. Spesso provano un cocente rimorso per una decisione presa quando erano troppo giovani per farlo e sentono un profondo senso di disagio e/o vergogna per il loro aspetto attuale. Inoltre, per loro stessa ammissione vengono spesso screditati o additati come “traditori” da una parte della comunità trans[7].
Uno studio condotto su 237 detransitioner ha evidenziato che nella grande maggioranza dei casi la transizione non ha risolto il disagio emotivo, soprattutto perché in molte di queste persone (70%) la disforia di genere era legata ad altre problematiche […]. Solo una piccola parte (10%), infine, ha indicato la discriminazione come la causa della detransizione’. Inoltre, un 45% ha affermato di non essere stato adeguatamente informato circa le implicazioni negative per la salute dei trattamenti e degli interventi.
Con il numero dei detransitioner cresce quindi quello delle cause legali intentate contro i diversi servizi sanitari, come accaduto nel caso del Gids[8] della Tavistock Clinic di Londra, denunciato dalla ventiduenne Keira Bell. La clinica era già stata oggetto di polemiche da parte di membri del suo stesso personale preoccupati che le diagnosi non fossero adeguatamente accurate e che il passaggio al trattamento ormonale, anche per il sovraccarico del sistema causato dall’aumento esponenziale delle richieste di transizione, fosse precipitoso.
Il Servizio Sanitario britannico, dopo le forti critiche rivolte al reparto in questione dal rapporto commissionato alla dott. Hilary Cass, lo ha chiuso e ha preso le distanze dal modello affermativo per il trattamento della disforia di genere nei minori, indicando come trattamento d’elezione per i pazienti più giovani la terapia psicologica.
Anche altri Paesi, che sono stati pionieri in tale approccio, oggi lo mettono in discussione: la Svezia ha vietato l’uso di bloccanti puberali e ormoni cross sex sui minori e la Finlandia privilegia ora nelle sue linee guida la psicoterapia ed esclude la chirurgia per i minori.
«In “ritardo” rispetto ad altri Paesi occidentali, l’esplosione numerica di giovani con sintomatologia di disforia di genere è arrivata anche in Italia dove, tra il 2018 e il 2021, il “Servizio per l’adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica” (SAIFIP) di Roma, ha registrato un aumento del 315% di accessi tra gli adolescenti.
Inoltre, dal 2019 l’uso dei bloccanti puberali “off label” – ovvero secondo modalità diverse da quelle autorizzate – nel caso dei più giovani con disforia di genere è gratuito secondo un’apposita regolamentazione AIFA. Questo gennaio, tuttavia, la Società Psicoanalitica Italiana ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprimendo grande preoccupazione per l’utilizzo di farmaci finalizzati ad arrestare lo sviluppo puberale in giovani a cui sia stata diagnosticata la disforia di genere».
Osservo infine che la lettera della S.P.I., la nascita dell’associazione GenerAzioneD e la stessa intervista pubblicata dalla Stampa, come altre lodevoli iniziative[9], intendono sensibilizzare l’opinione pubblica – oltre l’unanimismo superficiale con cui mass media e, purtroppo, numerosi progetti scolastici incoraggiano la transizione (sottacendone i rischi) – con lo scopo, come conclude l’articolo che ho sintetizzato: «di garantire agli adulti la libertà di prendere decisioni informate e consapevoli e ai più giovani di crescere e di maturare per poi compiere le proprie scelte senza il fardello di un trattamento medico sperimentale e precocemente intrapreso».

Note:
[1] Ne ha dato notizia il 30 gennaio La Stampa nell’articolo di Gianluca Nicoletti, Aiuto il mio bambino a diventare un’altra, ma ho sempre paura che se ne penta. Alcuni genitori hanno accettato di raccontare la propria esperienza al giornalista, pur mantenendo l’anonimato a tutela dei figli, spesso minorenni: Ognuno di noi, ogni giorno – afferma una mamma esponendo il fine ultimo per cui hanno dato vita all’Associazione – è preso dal dilemma di quanto assecondare e di quanto coltivare il dubbio, vorremmo si capisse che avere un figlio o una figlia che desidera farsi amputare delle parti sane del proprio corpo, essere medicalizzati a vita, non è certo una passeggiata.
2L’uso del neretto e le sottolineature sono già presenti nella versione originale del testo. Per sveltire la lettura ho trasferito nelle note anche parte del testo. Le affermazioni tra parentesi quadre sono invece mie.
[3] «la dottoressa Lisa Littmann ha coniato il termine di “Rapid Onset Gender Dysphoria” (ROGD) proprio per definire quella che appare come una nuova forma di disforia di genere, a insorgenza rapida appunto, che sembra colpire in modo particolare le adolescenti, in seguito a una prolungata esposizione ai suddetti contenuti on line e che avrebbe un’altissima incidenza all’interno degli stessi gruppi di pari».
[4] Studi clinici sostengono inoltre che, se lasciati liberi di svilupparsi naturalmente, molti di questi giovanissimi diventerebbero gay o lesbiche [come è avvenuto a Keira Bell, la detransitioner più famosa, quando ha preso consapevolezza della sua vera identità]. Quindi avviarli a un percorso di transizione medica potrebbe essere considerata come una forma di discriminazione omofobica piuttosto che il contrario.
5 «In precedenza, la transizione di genere era disponibile solo per gli adulti maturi, con un’età media di transizione spesso intorno ai 30 anni». Poiché i risultati erano insoddisfacenti e disagio e malattia mentale persistevano, «a partire dagli anni Novanta i ricercatori olandesi hanno iniziato a sperimentare la transizione medica dei minori con la speranza che, grazie a un intervento precoce, si potessero ottenere risultati estetici migliori e quindi disagi psicologici inferiori».
6 «A tutt’oggi il percorso medico previsto dal modello “affermativo di genere” si basa su uno studio compiuto su soli 55 soggetti e tutti con una disforia di genere a insorgenza infantile (nessun caso ad insorgenza adolescenziale). Il follow up [il controllo periodico] dopo l’intervento è stato solo di un anno e mezzo, a un’età media inferiore ai 21. Non c’era nessun gruppo di controllo e nessuna valutazione degli effetti sulla salute fisica».
[7] Nonostante questo, sono sempre più numerosi quelli che trovano la forza di raccontare pubblicamente le loro drammatiche esperienze: si veda ad esempio il profilo di Luka “Bunny” Hein su Instagram e Twitter: un drammatico contraltare di quelli in cui altri giovani celebrano la transizione. Anche diversi documentari, come The Trans Train, si occupano del fenomeno.
8 Servizio per lo Sviluppo dell’Identità di Genere (GIDS). La Bell aveva iniziato il trattamento ormonale a 16 anni e in seguito affrontato una mastectomia bilaterale. Pentita della sua decisione, nel 2020 ha accusato la clinica di averla avviata alla transizione medica quand’era solo un’adolescente e senza spiegarle adeguatamente le gravi conseguenze.
[9] Tra queste la divulgazione in Italia, ad opera dell’Associazione Non si tocca la Famiglia e dell’Osservatorio di bioetica di Siena, di un Manifesto/Appello su queste tematiche, scritto dall’Osservatorio internazionale franco-belga La Petite Sirène. Per aderire: https:/www.nonsitoccalafamiglia.org/appello-manifesto-europeo-contro-la-propaganda-gender/.
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Diffondere a macchia d’olio articoli come questo- ottimo – può sensibilizzare e fare la differenza ma ancora se ne tace troppo.
Sottolineo un paio di parole chiave che, a mio parere, dovrebbero essere il leitmotiv dell’informazione in questo campo: “esperimento” e “intervento psicosociale”.
Infine, impossibile non notare come questo “problema creato” attecchisca a meraviglia in società opulente e accidiose come quella occidentale, in concomitanza con l’abbandono della fede, con la crisi – indotta e voluta – della famiglia, con il culto dei disvalori sempre più crescente.
Ma qui, stavolta, non si tratta di mera apparenza, di estetica di genere. Si tratta di “indizi” sempre più evidenti di manipolazione dell’anima e delle coscienze sui più giovani…