«La cultura occidentale vive nella paura perché ha sradicato la fede. Il Covid ci ha fatto scoprire che “il re è nudo” e l’uomo, dopo avere abbandonato Dio si è trovato privo di punti di riferimento e guarda con paura al futuro. In questa fragilità, l’uomo sente che il suo cuore necessita di andare oltre perché il dono della vita biologica non è sufficiente per appagare il desiderio di pienezza. La fede è il segreto che ci libera dal nonsenso facendoci scoprire il significato ultimo della nostra esistenza e di quella del mondo aprendoci a un futuro di eternità»

Ampi stralci dalla Lectio magistralis del vescovo emerito di Carpi, mons. Francesco Cavina, pubblicata da La Nuova Bussola Quotidiana

 

DIOCESI CARPI, FIDES ET LABOR — BELLOCCHIO —

 

 

…Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura…

 

La paura e la fiducia sono le modalità con cui noi ci rapportiamo con la realtà. La paura ci porta a vedere nella realtà, e dunque anche in Dio, una minaccia, qualcosa o qualcuno che ci può fare del male o ci sminuisce nella nostra umanità, come ad esempio, un nemico, una malattia, eventi sfavorevoli. La fiducia, al contrario, vede nella realtà un dono che fa bene alla nostra vita e, quindi, che ci fa crescere.

La cultura occidentale, nella quale noi siamo immersi, vive nella paura perchè ha sradicato la fede dal cuore dell’uomo. Per raggiungere questo obiettivo ha percorso la strada dell’ateismo pratico, proponendo una concezione dell’uomo ed una visione della vita prive di qualsiasi riferimento alla trascendenza. L’uomo – questo è il messaggio veicolato in maniera ossessiva in questi ultimi decenni – è ormai divenuto adulto perchè, la medicina, la scienza, la tecnica, l’economia possono spiegare tutto e rispondere ai bisogni dell’uomo. Dio, quindi non serve più a nulla e, qualora mai dovesse esistere, la sua presenza è ininfluente nelle vita delle persone e dell’intera società. In questo modo l’uomo è stato convinto – nonostante le continue smentite –  di potere costruire il suo paradiso in terra.

 

IL COVID HA RIVELATO LA FRAGILITA’

 

Questa visione dell’uomo, fautore da solo del proprio destino, è stata messa in crisi da un evento imprevisto che ha travolto l’umanità intera e, riconosciamolo, anche la stessa Chiesa: il covid. Questo invisibile virus ci ha fatto scoprire che “il re è nudo”. Cioè, l’uomo, dopo avere abbandonato Dio, si è trovato ancora più solo perchè la fiducia nella scienza – sebbene i mezzi di comunicazione sociale ci abbiano propinato fino alla nausea lo spot: “Io credo nella scienza” – è entrata in grande crisi a causa della diversità di posizioni tra i cosiddetti esperti. Ogni scienziato ha la sua teoria su come uscire dalla pandemia; ogni medico la sua cura…A chi credere? Di chi fidarsi? Chi ascoltare dal momento che ognuno urla la propria verità e dileggia chi la pensa diversamente? E così l’umanità si è trovata ad essere priva di punti di riferimento e a guardare con paura al proprio futuro. E se ci fermiamo un attimo a riflettere con onestà, solo un cieco non può riconoscere che viviamo in una cultura ampiamente dominata dalla morte. Questa cultura di morte si manifesta, ad esempio, nel dilagare della droga, della menzogna, dell’ingiustizia, del disprezzo dell’altro e della solidarietà; si esprime in una sessualità ridotta a puro ricerca del piacere e che ha ridotto l’uomo a una cosa a oggetto.

Inoltre, la mancanza di punti di riferimento, la privazione di relazioni significative hanno fatto emergere mali dell’anima e forme di depressioni che, nella storia – a giudizio degli studiosi – non si erano mai registrati, e portato l’uomo ad evadere dalla realtà, rifugiandosi in mondi illusori e  fittizi. (…)

Questa drammatica situazione dovrebbe portarci a ritrovare la via dell’umiltà e riconoscere che è l’uomo che non esiste, se non esiste Dio. Perché se Lui non c’è, la nostra unicità, le nostre domande sul senso della vita, le nostre sofferenze, anche il nostro amore, tutto diventa “una passione inutile” (Sartre).  E noi siamo abbandonati, soli, siamo minuscoli puntini nella grandezza degli spazi, in balia di un destino quasi sempre crudele e spietato.

La vita biologia, dunque, si caratterizza come fragilità, debolezza, incostanza, contraddizione. Ma l’uomo sente che il suo cuore necessita di andare oltre perchè il dono della vita biologica, non è sufficiente per appagare il desiderio di pienezza, di compimento, di felicità vera. Ha bisogno di sapere che la vita, nonostante i fallimenti e l’esperienza della morte, merita di essere vissuta. Questo anelito di senso ci porta a riconoscere che nel cuore umano è presente un desiderio che niente e nessuno può fare scomparire: il desiderio di Dio. Pertanto, è semplicemente vero quanto dice sant’Agostino, che noi uomini siamo inquieti finché non abbiamo trovato Dio.

Il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, dal quale è preso il tema della nostra riflessione, è un canto alla terza Persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo, e alla sua missione verso di noi. Al centro di questo canto sta l’affermazione: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). Queste parole dell’apostolo Paolo ci portano a riconoscere innanzitutto che il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell’amore a Dio Padre che ci ama. Inoltre, ci rivelano che  questa fiducia filiale – che è più forte della paura – non è il risultato di uno sforzo, di una decisione volontaristica, ma è una grazia, cioè un dono di Dio, che provoca in noi, dicono i testi sacri una nuova nascita, una ri-generazione.

Infatti, lo Spirito Santo, dono del Cristo risorto, per liberarci dalla schiavitù della paura, non si limita a donarci la virtù della fortezza, con la quale è possibile affrontare con coraggio le avversità e le prove della vita, ma opera qualcosa di ben più profondo. La sua presenza in noi cambia la nostra natura, la nostra identità, ci stabilisce in una condizione nuova. L’uomo, quando è abitato dalla presenza e dall’azione salvifica divina, subisce un cambiamento non di tipo psicologico bensì reale, diventa una creatura nuova in Cristo. Da schiavi, dice san Paolo, diventiamo figli e figlie di Dio.

 

LA SCHIAVITU’ DEL MALIGNO

 

Ma di chi eravamo schiavi? Del Maligno che, volendosi fare dio di questo mondo, si presenta con apparente bellezza mentre in realtà è crudele e malvagio perché ha come unico scopo la distruzione dell’uomo, come dice l’evangelista san Giovanni. Nel diavolo non c’è vita, ma solo morte, vanità, povertà, illusione e vuoto. Ebbene, noi povere creature, assoggettate al peccato e alla morte, con il dono dello Spirito, siamo innalzati alla dignità di figli di Dio e collocati in una relazione filiale con Lui, analoga a quella di Gesù. Analoga perché il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù, in quanto la nostra filiazione è diversa per origine e spessore. Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, mentre noi diventiamo figli adottivi in Cristo. Questo privilegio non è riservato a pochi, ma è per tutti come insegna san Paolo nella Lettera agli Efesini: Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).    

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Un cristiano, dunque, non è mai solo nella vita, non vive come un solitario, ma è sempre necessariamente un fratello che vive unito con tanti altri fratelli, un essere che vive in unità e solidarietà con tutte le membra del Corpo di Cristo, cioè con tutti i cristiani che sono pellegrini sulla terra e con quelli che appartengono alla chiesa purgante e trionfante.

 

Ora perché questo frutto di grazia, che raggiunge immeritatamente la mia vita, possa portare frutti di bene e di salvezza deve essere accolto nel mio cuore  attraverso un cammino di conversione. (…) Dio è così rispettoso della nostra persona che interpella la nostra libertà, ci invita a cooperare col fuoco dello Spirito Santo. Non possiamo rinunciare a questa libertà.

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NON UN TIRANNO, MA UN PAPA’

Il cristiano, dopo aver conosciuto Cristo e ascoltato la sua parola, subisce quasi un travaso del mondo di Gesù nel proprio cuore. Pertanto, può rivolgersi al Creatore chiamandolo “Abbà”. Questo titolo, anche se viene pronunciato dalle nostre labbra non è una parola umana, ma è un grido che lo Spirito suscita in noi.

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Si comprende per quale motivo Gesù ponga come condizione per entrare nel Regno dei cieli l’infanzia spirituale, cioè la fiducia incondizionata nei confronti del nostro “Babbo” celeste. Solo così il nostro cuore sarà liberato da quella sufficienza che spesso lo porta a dire: “Dio ti ha abbandonato. Dio si è scordato di te”.  No! Dio non si dimentica mai di noi, neanche quando ci troviamo nel buio esistenziale più tremendo. Anzi, proprio quando non riusciamo a capire nulla della nostra vita e della vita del mondo è il tempo di affidare ogni cosa nelle Sue mani e di invocare sinceramente e fiduciosamente “Papà!”. E poi aspettare il Suo intervento.

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IN EREDITA’ LA VITA ETERNA

 

Il secondo effetto della nostra figliolanza è espresso sempre da san Paolo con questa affermazione: E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo (Rm 8.17). L’eredità che Dio riserva ai suoi figli è la vita eterna, l’immortalità nel suo Regno. A questo riguardo è bene fare una precisazione. La vita eterna e la risurrezione  sono realtà che ci attendono non solo dopo la morte, ma incominciano ora, sono già in atto perché noi con il Battesimo siamo morti al peccato e risorti con Cristo.

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Gesù non elimina la morte fisica, lascia che anche i suoi amici muoiano, ma chi rimane unito a Lui non ha nulla da temere. In Lui è la sorgente della Vita! Afferma: In verità in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita (5.24). Queste parole ci portano a riconoscere che per Gesù il puro sopravvivere biologico non è il primo valore. Il primo valore è l’essere con Lui. Il vivere con Cristo è il grande guadagno, perché anche se perdiamo  questa vita biologica, non perdiamo la vera vita (cfr Atti, 20. 17-38). Insomma il Signore ci invita ad avere le giuste priorità.

Certamente dobbiamo essere attenti alla nostra salute, dobbiamo salvaguardare la nostra vita naturale, ma anche sapere che il valore ultimo è la  comunione con Cristo. Uniti a lui, la morte non è più la fine di tutto, non è la dissoluzione totale, ma una porta, un transito, un vero passaggio per la vita eterna.

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CONCLUSIONE

Se l’uomo non è consapevole del suo destino pian piano la vita perde senso. Lo dice in modo incisivo Nietzsche: “Cosa significa nichilismo? Manca il fine; manca la risposta al perché …e di conseguenza i valori supremi si svalorizzano” (Crepuscolo degli dei). La fede è il segreto che ci libera dal non senso perché per mezzo della fede noi scopriamo non solo il significato ultimo della nostra esistenza e di quella del mondo, ma anche il significato di tutto ciò che vivo oggi perché Cristo, che è presente ora ed opera e agisce nella mia vita, mi apre ad un futuro di eternità.

Diceva Pascal che, senza Cristo, noi non riusciremmo a conoscere neppure noi stessi. Tanto meno conosceremo Dio, il senso della vita, la nostra morte e tutto sarebbe oscurità e confusione. Cristo, dunque, ci è necessario per essere umani. Il Papa san Paolo VI esprimeva con queste parole la necessità di Cristo: “Lui è al vertice, è il termine, è il punto focale, è il centro, dà un senso, dà valore, dà forma, è la sorgente, è la luce, è la parola, redime, dà forza…Gesù basta!”

 

 

 

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